JOHN FORD , PARTE PRIMA
1. La linea di fuga
1.2. Nascita di una narrazione
Come si ricompone la frammentazione in un sistema ordinato? In cosa consiste il chiodo dorato che celebra l’unione tra i due tratti del binario che attraversa e unisce l’intera America? La questione, come direbbe Amleto, è tutta lì, in quell’intervallo, nella frattura che contraddice il progetto di Lincoln, e nella terapia più adatta a riabilitare il paziente. Scorrendo ancora le immagini di The Iron Horse, possiamo individuare un altro passaggio che, sia pure in modo meno drammatico, ci offre un’altra utile rappresentazione del carattere agonistico della storia.
Siamo nella prima metà del film, e, dopo un lungo periodo di duro lavoro, buona parte degli operai decide di abbandonare la costruzione del binario, come segno di protesta per la mancanza di cibo. I lavoratori sono per lo più immigrati: la storia degli Stati Uniti è storia di migranti, lo sappiamo bene, e John Ford lo sa anche meglio di noi. Il cineasta dedica alcuni minuti alla descrizione della frammentazione interna al gruppo di lavoratori. È evidente la particolare simpatia che egli nutre per gli operai di origine irlandese – la sua stessa origine –, i quali sono animati da autentico spirito patriottico; gli italiani, invece, decidono di partecipare alla costruzione del progresso solo dopo che è stata loro assicurata una buona porzione di vitello.
Al di là degli orientamenti di Ford, nella sequenza riconosciamo l’antico, originario e spinoso problema americano: la frammentazione, la compresenza di gruppi etnici fortemente differenziati, e non raramente in disaccordo tra loro. Non ci soffermeremo a lungo sulla descrizione delle varie fasi in cui si è articolata la storia delle migrazioni nelle colonie britanniche d’America e poi negli Stati Uniti d’America. La confluenza, in ondate successive, di fiumi di migranti provenienti da Inghilterra, Irlanda,
131 «Gli indiani sono inseriti dentro il paesaggio, simili alle rocce o agli animali». S. Bernardi, Il paesaggio nel cinema italiano, cit.,
Germania, Francia, e poi da Cina, Italia, Europa dell’est; e ancora il sequestro di massa degli africani che furono venduti come merce; si tratta di vicende il cui approfondimento esula dagli obiettivi di questa ricerca132. Ciò su cui vale la pena focalizzare l’attenzione, in questa sede, è il fatto che John Ford vivesse in modo diretto il profondo senso di alterità che una società multietnica inevitabilmente provoca, il costante malessere della non-appartenenza.
Sean Aloysius O’Fearna (questo il vero nome di John Ford) era figlio di un irlandese giunto in America nel 1872; un emigrato, proprietario di saloon, che pare soffrisse quotidianamente il peso della diffidenza manifestatagli dalla comunità di Portland133. John Ford affonda le sue stesse radici nella estraneità, e conosce dunque molto bene il senso tragico della non integrazione, la fisionomia sfuggente di un organismo non integrato, dis-integrato in una miriade caotica di elementi eterogenei. A diciannove anni tenta di entrare nell’Accademia militare di Annapolis, ma viene respinto all’esame. Perché questo tentativo di intraprendere la carriera in Marina? È il regista stesso a riconoscere come l’ingresso nell’Accademia gli avrebbe consentito di accedere a un mondo che le sue origini sembravano precludergli134. Evidentemente, l’essere accolto in un corpo che ha nell’irreggimentazione, e dunque nel massimo grado di unità, il suo carattere più specifico rappresenta per il figlio di un irlandese un’opportunità per sentirsi alla pari con i WASP135 che diffidavano del padre136. Ma il figlio di irlandesi viene respinto. E la frattura resta scomposta.
Come rimediare, dunque, a questa non-appartenenza? Come trasformare la discontinuità in unione? Una possibile via d’uscita da questa tragica impasse è offerta al giovane Sean dal mondo del cinema, dove il ragazzo, seguendo le orme del più anziano fratello Francis, fa il suo ingresso poco più che ventenne, cambiando nome e trovando un sicuro – e forse definitivo – rimedio al caos dell’esclusione. Circa trent’anni più tardi, durante il secondo conflitto mondiale, il regista abbandonerà temporaneamente i set cinematografici e presterà servizio in Marina, a capo del Field Photographic Branch – una sezione dell’attuale CIA –, filmando con la sua troupe assalti, sparatorie, sabotaggi, e partecipando alla battaglia delle Midway, dove viene ferito, mentre dirige il primo documentario di guerra americano137. Grazie al cinema, sostituendo il fucile con la macchina da presa, John Ford riesce a realizzare il sogno di ragazzo, quello di essere un patriota, assorbito così nel grande organismo dell’esercito statunitense. Il cinema, dunque. Il racconto per immagini. Il personaggio del soldato – l’essere soldato per finta – assume valore compensativo per l’amara delusione di essere respinto dall’Accademia, come soldato vero.
132 Per approfondimenti si veda R. Daniels, Coming to America. A History of Immigration and Ethnicity in American Life, Harper
Perennial, New York 1990.
133 D. Ford, Pappy: The Life of John Ford, Da Capo Press, Boston 1998; F. Troncarelli, op. cit., pp. 21 sgg. 134 D. Ford, op. cit., pp. 178-180.
135 L’acronimo sta per White Anglo-Saxon Protestant, e indica i cittadini statunitensi discendenti dai primi coloni inglesi.
L’appellativo esclude dunque tutte le minoranze che hanno popolato il territorio nei secoli successivi.
136 D. Ford, op. cit. 137 Ibid., pp. 162-174.
Pare che non fosse facile discutere con John Ford riguardo film, registi e cinema. Lindsay Anderson descrive con giustificato disappunto i continui tentativi di evasione con cui il cineasta sfuggiva alle domande del giovane collega sull’arte cinematografica. Invitato ad assistere alla proiezione di un film di Ejzenštejn, Ford manifestò a più riprese evidenti segni di noia, e, a conclusione della serata, liquidò il maestro del cinema sovietico come buon montatore, ma non gli riconobbe il ruolo di regista138. Per sua stessa affermazione, il burbero cineasta americano detestava i film: gli piaceva dirigerli, ma non parlarne.
C’è, tuttavia, un’eccezione, una pellicola che si sottrae ai colpi di questa rude ostilità. The Birth of a
Nation, il capolavoro che David W. Griffith gira nel 1915, e che, secondo la critica cinematografica
tradizionale, è il film con cui nasce ufficialmente il cinema narrativo. John Ford non può non amare la pellicola che, oltre a permettere all’arte cinematografica di divincolarsi dal complesso d’inferiorità che la sottometteva alle arti maggiori, segna anche il suo personale ingresso nel mondo della settima arte: una delle comparse che, incappucciate e avvolte nel costume crociato del Ku Klux Klan, volano a cavallo a salvare i bianchi minacciati dai brutali schiavi neri emancipati, è proprio il giovanissimo John. Quello con gli occhiali, pare139.
Il film di Griffith ha influenzato profondamente l’estetica di Ford, come del resto è accaduto a tutto il cinema classico hollywoodiano. E ciò si deve a un utilizzo massiccio del cosiddetto montaggio analitico, adoperato in modo così innovativo da indurre i critici ad affermare che, sebbene tecnicamente il montaggio fosse presente anche nel cinema primitivo, è con The Birth of a Nation che esso diviene vero e proprio strumento narrativo in grado di fare prosa con le immagini140.
Il montaggio è la scomposizione di una scena in inquadrature, montate insieme in modo organico, in modo da permettere il dispiegarsi ordinato e consequenziale della narrazione. Quanto più il regista sarà abile nella costruzione di un montaggio invisibile, grazie all’uso accurato della tecnica dei raccordi, tanto più lo spettatore dimenticherà l’eterogeneità che distingue un’inquadratura dalla successiva, lo spazio, la crepa che separa le immagini, e potrà così germogliare miracolosamente quell’illusione di realtà che sta a fondamento dell’intera storia del cinema narrativo. Montaggio invisibile, dunque. Obliterazione, ricomposizione della frattura. L’intervallo e la frammentazione si curano con la narrazione.
In un’intervista rilasciata nel 1939, Frank Capra – altro esponente del periodo d’oro del cinema americano, e altro immigrato assorbito dall’organismo compatto dello Studio System – descrive con una efficace metafora la sua particolare interpretazione del funzionamento della narrazione cinematografica.
138 L. Anderson, op. cit., p. 139.
139 F. Ferrini, John Ford, Il Castoro, Milano 1995, p. 7. 140 S. Bernardi, L’avventura del cinematografo, cit., pp. 51 sgg.
Io intendo il film come un racconto. Io amo la bella fotografia, ma non deve disturbare il racconto. Se lo spettatore si ferma solo un minuto a pensare […] è finita141.
Il pubblico, pertanto – continua il cineasta siculo-americano – non va disturbato nel suo processo mentale, durante lo svolgersi dell’azione: immerso nell’azione come in un sogno, lo spettatore deve essere privato di ogni facoltà di giudizio, come un bimbo a cui si racconta una storia per addormentarlo142. Perché il sonno (e il sogno) proceda, bisogna che il treno della narrazione avanzi senza sobbalzi, senza eccedenze, senza fratture, sbavature, momenti di stasi, sospensione o ristagno. Altrimenti il bambino non dorme. Se lo spettatore si lascia distrarre da una angolazione inusuale, dalla particolarità di una scelta fotografica o compositiva, il percorso lineare della storia si ripiega su se stesso, l’Ouroboros afferra la propria coda, e i Cheyenne riprendono a ruotare in direzione antioraria, sospendendo in eterno il viaggio verso il Pacifico. La narrazione fonda la storia: la piccola storia che per un paio d’ore tiene acceso il faro del proiettore, in sala; la grande storia che per decenni e secoli indirizza la proiezione luminosa del faro della civiltà.
Hollywood, ci dicono gli studiosi, si comporta come una madre che, per invogliare il figlio di pochi anni a mangiare, sorride in modo espressivo e, con tono un po’ teatrale, dice: «Senti quant’è buono!»143. E poi muove in aria la forchetta come un aeroplano, ne imita il rumore, cosicché il figlio, incantato da queste figure inesistenti, apra la bocca e permetta al boccone di atterrare. Costruisce quindi una narrazione. Il ruolo del bambino non è tuttavia così passivo come sostiene Frank Capra, che invita il cineasta a inibire totalmente la facoltà di giudizio del pubblico. L’occhio dello spettatore, infatti, è lo strumento che il suo cervello adopera per elaborare un materiale composito ed eterogeneo, contribuendo, con la sua partecipazione attiva, a creare l’illusione. Emittente e destinatario entrano quindi in un sistema di interazione continua, fatto di schemi, aspettative, rotture, cuciture, momenti di vuoto, fasi di riempimento. Lo spettatore, educato da Griffith e dai suoi epigoni, sa che, a un primo piano di un uomo che punta lo sguardo fuori campo, seguirà molto probabilmente il dettaglio di un oggetto o il primo piano di un altro personaggio: il vuoto che si apre tra le due inquadrature è così riempito di tessuto connettivo narrativo, e lo spettatore comprende che i due personaggi stanno dialogando o che il protagonista sta guardando la pistola che tra poco afferrerà. Lo schema classico campo/controcampo trasforma dunque in unità l’alterità che distingue le due inquadrature, motivando e giustificando il concatenarsi delle articolazioni narrative.
David W. Griffith vuole celebrare la fondazione del Ku Klux Klan, esaltando l’eroismo dei suoi membri. Il tema è spinoso, malgrado nei primi decenni del XX secolo lo fosse meno che adesso. Il rischio più serio è quello che il procedere coerente della narrazione subisca l’imboscata del dubbio:
141 G.G. Napolitano, «Capra un grande regista “italiano”», in Cinemasessanta, 316, aprile/giugno 2013, p. 67. 142 Ibid.
perché assumere comportamenti violenti nei confronti degli uomini di colore? È condivisibile il comportamento di Ben (Henry B. Walthall), protagonista del film e fondatore del Klan? Non si tratta forse di razzismo? Se la tempesta selvaggia del dubbio ha la meglio sulla narrazione, il treno si arresta definitivamente e la costa del Pacifico non sarà mai raggiunta. Alcuni minuti prima che Ben Cameron decida di raccogliere un gruppo di valorosi e di consegnargli il cappuccio e il costume crociato, la narrazione di The Birth of a Nation giunge a un passaggio decisivo: la piccola e tenera sorella di Ben (Mae Marsh) è inseguita da un uomo di colore (Walter Long), evidentemente animato da un desiderio che ben poco ha del carattere nobile e spirituale del vero amore. La ragazzina terrorizzata cade giù da una rupe, e spira come un Cristo michelangiolesco tra le braccia del fratello. Ben, come tutti noi straziato dalla morte della vittima innocente, punta lo sguardo fuori campo – lo sguardo deciso e lineare della vendetta. Della giusta vendetta che tutti noi spettatori ora desideriamo vedersi consumare. La costituzione dell’eroica squadra del Ku Klux Klan è la diretta, necessaria conseguenza di questo passaggio teneramente traumatico della narrazione. Il dubbio è riassorbito. Il treno riparte.
La storia degli Stati Uniti d’America – non solo quella, per la verità – è storia di narrazioni. Se osserviamo il logo della Massachusetts Bay Company, compagnia commerciale autorizzata nel 1629 da Carlo I d’Inghilterra a fondare una colonia nel Nuovo Mondo, vedremo al centro dell’immagine la figura di un nativo, con tanto di arco e freccia – ma in atteggiamento ancora non bellicoso – dalla cui bocca fuoriesce una sorta di lungo stendardo con su scritto: «Come over and help us»144. Non siamo poi così lontani dalla lapidaria affermazione con cui il futuro presidente Ronald Reagan, sostenendo la candidatura del repubblicano Barry Goldwater alla Casa Bianca, il 27 ottobre 1964, definirà gli Stati Uniti «the last best hope of man on Earth»145. Una lunga narrazione, che attraversa i secoli, quindi: Thomas H. Benton, primo senatore del Missouri, a partire dal 1820, nei suoi scritti si investe del ruolo di Mosé che conduce la civiltà statunitense lontano dalle strettoie «europee» della costa atlantica, verso il Pacifico (e idealmente l’Asia), concepito come simbolo della libertà e della grandezza dell’America. Grazie a simili liriche immagini, e attingendo direttamente ai testi sacri, Benton spinge il Governo verso l’invasione dell’Oregon146. E così farà John O’Sullivan, pochi anni dopo, affidando nientemeno che a Dio il ruolo di vero protagonista della grande narrazione dell’espansione degli Stati Uniti su tutto il territorio nordamericano, nella celeberrima e controversa dottrina del Manifest Destiny147. E si procede così all’annessione del Texas.
La vertiginosa, ossessiva ripetizione dell’immagine degli aerei che colpiscono le Twin Towers, trasmessa in tutto il mondo per anni, a partire dalla mattina dell’11 settembre 2001, non è forse intepretabile come esigenza di trasformare immediatamente un evento tragicamente materiale
144 I. Moschini, op. cit., p. 13.
145http://www.pbs.org/wgbh/americanexperience/features/general-article/reagan-quotes/ consultato il 3.9.2016.
146 T.H. Benton, Thirty Years' View; or, A History of the Working of the American Government for Thirty Years, from 1820 to 1850, 2
vols., New York 1854.
(tonnellate di metallo che impattano a grande velocità un edificio affollato di gente inconsapevole) in elemento narrativo, in colpo di scena?148 A ben guardare, la partenza dei marines furibondi, che si mettono sulle tracce dei feroci assassini, non è così dissimile da quella dei cow-boy delle dime novels ottocentesche, che si avviano nel deserto alla ricerca dei Comanche che hanno sterminato le loro famiglie. E lo sguardo deciso e che George W. Bush, in tuta mimetica, ha lanciato per mesi alle telecamere della storia, duellando virtualmente con Osama Bin Laden, ci riporta immediatamente a quello che Ben Cameron indirizza fuori campo, qualche minuto prima della fondazione del Ku Klux Klan: in entrambi casi, la guerra è motivata attraverso una costruzione narrativa, come reazione giustificata a una feroce aggressione subita dall’esterno.
Certamente la narrazione va costruita con perizia e abilità, mantendendo il giusto grado di verosimiglianza e coerenza, altrimenti l’interazione tra regista e spettatore si fa meno fluida, e il bambino a cui Frank Capra racconta la storia resta perplesso. E sveglio. Si pensi ad esempio al carattere problematico del montaggio alternato, anch’esso introdotto da David Griffith nel finale di The Birth of a
Nation. Si tratta di quella tecnica di montaggio che opera a partire da una divisione della narrazione in
due linee: al pubblico è mostrata l’aggressione di un gruppo di inermi bianchi ad opera di brutali uomini di colore; le immagini dell’assalto si alternano con quelle di un manipolo di valorosi a cavallo, ripresi mentre corrono affannosamente lungo una strada, in direzione imprecisata. L’alternarsi dei due percorsi viene eleborato dal cervello dello spettatore che, nell’intervallo che distingue le due linee, inserisce autonomamente un avverbio: «contemporaneamente». I bianchi sono aggrediti dai neri e, contemporaneamente, il Ku Klux Klan sta accorrendo a salvarli. Ancora una volta, il raccordo ha ricucito una separazione virtualmente caotica, ripristinando l’invisibilità del montaggio e riassorbendola così nell’economia narrativa.
Un po’ più complesso è il caso del cosiddetto montaggio intellettuale o alla sovietica, versione più sofisticata del cross-cutting griffithiano. Nella celebre sequenza che conclude Stačka di Ejzenštejn, del 1924, le immagini dei gendarmi che sparano sulla folla degli scioperanti si alternano con quelle di un macellaio che sgozza un vitello. Provando ancora a connettere le due linee col termine «contemporaneamente», la narrazione resta comunque scomposta e disorganica: che importa sapere che, mentre si verifica il tragico massacro di una folla, in un mattatoio qualunque di una città imprecisata, qualcuno sta trasformando un animale in bistecca? Evidentemente, il pubblico stavolta è chiamato a compiere un’elaborazione diversa, legando insieme le due figure attraverso il laccio della metafora o della similitudine. Ma il salto è più rischioso, la ferita può non rimarginarsi totalmente e lasciare la pericolosa traccia di una cicatrice. Quando Fritz Lang, emigrato dalla Germania negli States, tentò di esportare il montaggio alla sovietica a Hollywood, i produttori lo scoraggiarono a farlo, perché
troppo impegnativo per il pubblico149. La perizia del cineasta, dunque, si esprime nella capacità di individuare la giusta distanza tra un frammento e l’altro: è l’abilità di inserire il momento di vuoto in una succesione ordinata pieno-vuoto-pieno, che consente di trasformarlo nel carburante stesso della narrazione, rendendola così dinamica, senza però richiedere al pubblico di compiere salti ardui e rischiosi150.
John Ford, lo abbiamo detto, è uno dei cavalieri che Griffith lancia in montaggio alternato a difendere il bianco dal nero. Quello con gli occhiali. Facendo tesoro degli insegnamenti del maestro, il nostro cineasta impara presto a curare con eccezionale bravura le ferite della narrazione, utilizzando il transito nel vuoto come prezioso elemento di costruzione del tragico percorso della storia. Osserviamo alcune sequenze esemplari, al riguardo, e chiediamoci come avviene il passaggio nel caos. In più di un’occasione, gli operai di The Iron Horse devono affrontare l’incursione di indiani. La prima volta in cui questo accade è dopo circa ventotto minuti dall’inizio del film. Un’inquadratura piuttosto larga ci mostra le rotaie e una ventina di lavoratori che si muovono a tempo, colpendo in modo coreografico i chiodi che fissano a terra il binario. Lo sfondo è totalmente occupato da un territorio pianeggiante, monotono, sterminato, e ha il colore grigio e salato dell’aridità. Si mescola a quello altrettanto indifferente del cielo. Un raccordo in asse ci consente di avvicinarci ai personaggi. Sono persone comuni, familiari: la loro gagliarda e grassoccia simpatia parla direttamente alla memoria di ogni singolo spettatore. I lavoratori somigliano ai nonni, agli zii, ai vicini di casa che abitano i nostri ricordi personali, e lo schietto ottimismo con cui lavorano, contro uno sfondo così inclemente, li rende contemporaneamente eroici e assolutamente ordinari. Ora la macchina da presa torna ad allontanarsi. Dallo sfondo compare una fila di cupi guerrieri a cavallo che si muove rapidamente verso est. I lavoratori lasciano prontamente gli attrezzi e imbracciano i fucili, rispondendo al fuoco dei Cheyenne. Un bel carrello laterale rapido ci mostra la figura intera di uno dei selvaggi mentre spara verso di noi. Dopo un minuto e dieci secondi la battaglia è conclusa. Gli operai, senza troppo scomporsi, recuperano gli attrezzi e riprendono a cantare, lavorando e muovendosi a tempo. Ma anche i selvaggi, in tutta la sequenza, si sono mossi a tempo, non dimentichiamolo.
Secondo esempio. Sono passati più di trent’anni, John Ford – meno ottimista, adesso – dirige quello che molti reputano il suo capolavoro, The Searchers. Il rude Ethan Edwards (John Wayne) ha fatto ritorno presso la famiglia del fratello, dopo anni di misteriosa assenza. L’armonia familiare è tutt’altro