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JOHN FORD , PARTE SECONDA

2. La donna, fuori campo

2.2. La donna dell’Altro

La condizione dell’uomo della wilderness, condannatosi volontariamente a vagabondare nel territorio inospitale della censura, è tutt’altro che equilibrata e pacifica. E come potrebbe essere altrimenti, se la filmografia Western, l’intera cultura cinematografica americana, e, purtroppo, la storia reale degli Stati Uniti d’America, risuonano del clamore assordante di duelli, sparatorie e battaglie?

La normalizzazione della donna nelle figure stereotipate della custode del focolare domestico o della ingannevole ancella della perdizione non risolve, evidentemente, le dissociazioni interne che dilaniano l’eroe, il cineasta e l’intera cultura a cui essi appartengono. Le aggrava, forse. Al riguardo, può essere utile ritornare su una delle pellicole già analizzate nei paragrafi precedenti, The Searchers, un’opera in cui, nostro parere, il rapporto conflittuale e violento tra uomo e donna raggiunge il massimo grado di espressione. Esaminiamo quindi il modo in cui i personaggi maschili del film (John Ford compreso) si relazionano a quelli femminili.

Il lettore ricorderà che la prima sequenza della pellicola è dedicata al ritorno di Ethan Edwards presso la casa del fratello Aaron. Il primo nodo nevralgico della vicenda è la complicata relazione tra i due fratelli e Martha: la donna, moglie di Aaron, è legata a Ethan da un amore illecito (benché casto) e dunque irrealizzabile. Il personaggio interpretato da Dorothy Jordan non ha ambiguità: ella custodisce silenziosamente un sentimento profondo, ma contemporaneamente mantiene un dignitoso rispetto per il sacro valore della famiglia; il suo desiderio si limita a esprimersi in piccoli gesti (ripiega con cura gli indumenti di Ethan, come una mamma) e in sguardi fortemente espressivi, ma discreti. Ben altro carattere ha il marito Aaron. All’uomo sono immediatamente assegnati i tratti negativi della venalità (accetta dal fratello denaro per il soggiorno in casa propria) e della debolezza: non c’è alcun dubbio, infatti, che la difesa che egli tenta di opporre all’attacco Comanche sia destinata al fallimento. A conferma della pessima opinione che John Ford ha del fratello di Ethan, allorché quest’ultimo giunge nella fattoria devastata dalla ferocia dei selvaggi, nessuna inquadratura e nessuna battuta sono spese per la morte di Aaron.

Al contrario, il cineasta indugia lungamente sullo stupro a cui è stata sottoposta Martha, prima di essere spietatamente uccisa. I resti del suo abito e l’espressione di Ethan dopo la visione del corpo straziato della donna – visione a noi negata, invece – rendono ancora più intenso l’orrore per la

violenza sessuale. A questa interessante compresenza di orrore e desiderio va aggiunto un dettaglio significativo: nelle poche inquadrature dedicate all’attacco indiano, abbiamo scorto una lapide, poco distante dalla casa. La pietra è conficcata nel terreno in cui giace il corpo della madre di Ethan, e una scritta ci informa che la donna, «a good wife and a good mother», è stata anche lei uccisa – e violentata, si suppone – dai Comanche, all’età di quarantun’anni. Su quella lapide cerca inutile rifugio la piccola Debbie, prima di essere rapita dai selvaggi che la tratterranno per molti anni.

La linea femminile della famiglia Edwards – madre, moglie e figlia – è dunque segnata da una terribile predestinazione: legate per dovere a uomini deboli, e che non amano, le donne finiscono inevitabilmente violentate. In ogni caso, che si tratti dell’uomo-bestia Comanche o di un uomo «addomesticato», due aspetti della questione ci risultano evidenti: la relazione con il corpo della donna è sempre un rapporto di proprietà – di appropriazione, per la precisione –, e tale proprietà è comunque negata al protagonista e concessa a un altro.

Come sappiamo, la narrazione di The Searchers prende avvio proprio dalla drammatica appartenenza della piccola Debbie al lignaggio delle donne altrui; e così lo zio Ethan e il fratellastro Martin si incammineranno lungo sentieri selvaggi, ossessionati – ma anche animati – dall’orrore dello stupro che anche la bambina sta certamente subendo, durante il prolungato e forzato soggiorno presso i selvaggi. La trama recupera così un topos narrativo diffusissimo nella letteratura popolare americana dell’Ottocento: le vicende di donne sequestrate o uccise da feroci nativi, e la descrizione delle successive operazioni di caccia, salvifica o vendicativa, effettuate da prodi cowboy, riempiono le pagine delle dime

novels, e lo stesso Buffalo Bill presenta un curriculum ricchissimo di aggressioni e omicidi compiuti per

soccorrere fanciulle rapite249.

Soffermiamoci ora sulla seconda figura femminile importante del film: la bambina-donna Debbie, un personaggio, si badi bene, la cui ricerca è motore della narrazione, ma alla cui immagine sono dedicati meno di dieci minuti di film. Abbiamo già visto come la orribile compromissione fisica della piccola con i Comanche provochi due reazioni diverse in Ethan e in Martin: il primo, conservatore, vuole ritrovarla per ucciderla – e dunque intende virtualmente punire con la morte anche la propria madre e l’amata Martha, che hanno vissuto la stessa contaminazione. Il ragazzo, progressista, è intenzionato a impedire l’omicidio, e vuole dunque accogliere la ragazza in una famiglia rinnovata e più tollerante. A conclusione della storia, il vecchio John Wayne, ritrovata la nipote, si lancia all’inseguimento della piccola – ormai drammaticamente resa donna dai selvaggi, – e la sequenza è resa incalzante e ritmica dalla tensione che lo spettatore avverte nel vedere la ragazza esposta alla furia vendicatrice del rude zio. La vicenda, tuttavia, giunge a un lieto fine: invece di uccidere Debbie, contaminata da una sessualità                                                                                                                

249 Il plot di The Searchers riprende il cliché narrativo tipico del genere Indian Captivity Narrative ottocentesco: ricerca e

liberazione di donne bianche rapite e violentate da feroci nativi. Nel XIX secolo, vale la pena ricordarlo, l’Indian era ancora interpretato come figura sospesa tra l’umano e il bestiale. Al riguardo si veda M.A. Samyn, Captivity Narrative, Ohio State University, 1999.

selvaggia, Ethan la solleva come una sposa, e così la riporta a casa, in una sequenza che da circa sessant’anni intenerisce l’intero mondo della critica cinematografica250.

Vi sono alcuni aspetti della questione senza dubbio molto rilevanti. In primo luogo, il finale emozionante della narrazione, al di là della partecipazione commossa dei tanti critici, non rappresenta un reale mutamento della prospettiva di Ethan-Ford: la Debbie sollevata e condotta in braccio alla soglia dallo zio è del tutto analoga a quella di Dallas, la cui orribile impurità sessuale è riassorbita e redenta nella figura della donna-sposa, e dunque elaborata per assimilazione. Su questo tema ci siamo già dilungati nel paragrafo precedente, quindi non ci soffermeremo oltre.

In secondo luogo, vi è una modifica significativa che il regista ha apportato alla storia raccontata da Alan LeMay, l’autore del romanzo che ha ispirato il film251. Mentre il protagonista del ritrovamento e del recupero di Debbie, nell’intepretazioine di John Ford, è il personaggio interpretato da John Wayne, nel racconto di LeMay l’anziano zio finisce assassinato, e la storia si conclude con un abbraccio tra Martin e la ragazza, indubbiamente di significato diverso: il contatto fisico tra i due fratellastri ha qualcosa di incestuoso e, allo stesso tempo, rende il racconto maggiormente disposto ad aprirsi a una visione nuova, più complessa dell’eros e dei legami affettivi. Sostituire l’abbraccio del fratellastro con quello dello zio ha per lo meno due conseguenze simboliche: innanzitutto è evidente come John Ford, per la risoluzione dei drammi moderni, proponga il recupero – piuttosto ostinato, per la verità – dei valori del passato, una posizione già sottolineata nell’analisi di Liberty Valance. L’abbraccio tra zio e nipote, inoltre, ridimensiona (censura, si può dire) in modo deciso il carattere erotico del contatto: ancora una volta, l’ossessione dell’attrazione sessuale, che evidentemente pervade tutto il film, è rimossa attraverso il suo riassorbimento nelle dinamiche rassicuranti che governano i legami familiari, si tratti pure di una famiglia con fisionomia rinnovata e maggiormente aperta alla «contaminazione».

In ogni caso, Ethan deciderà di allontanarsi malinconicamente anche da questo nuovo nucleo familiare, lasciando che Debbie, come sua madre e sua nonna prima di lei, restino donne altrui. È la medesima malinconia che abbiamo visto oscurare il finale di The Man Who Shot Liberty Valance: Tom ha lasciato che la donna che amava fosse portata via dall’infiacchito uomo dell’est; il senatore viaggia accanto a una donna innamorata di un altro; Hallie, sposa di un uomo che non ama più, cerca fuori campo il ricordo di un pistolero ormai morto.

                                                                                                               

250 In un articolo comparso recentemente su L’Unità, Alberto Crespi scrive: «Noi amiamo appassionatamente John Wayne

quando prende in braccio Natalie Wood alla fine di Sentieri selvaggi». A giudizio dell’autore, si tratta del medesimo sentimento che tocca Jean-Luc Godard quando (retoricamente) si chiede: «Perché odio John Wayne quando fa I berretti verdi e lo amo quando prende in braccio Natalie Wood alla fine di Sentieri selvaggi?». Vedi A. Crespi, «John Wayne, è di destra ma lo amo», in L’Unità, 29 maggio 2007.