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Né dentro né fuori città

JEAN RENOIR , PARTE PRIMA

2. L’illusione delle frontiere

2.2. Né dentro né fuori città

Una volta chiarita la posizione di Jean Renoir, e la sua personale interpretazione fenomenologica della frontiera – i confini non hanno esistenza oggettiva, ma è su di essi che si costruisce ogni progetto esistenziale –, ritorniamo negli Stati Uniti, ed esaminiamo il modo in cui il cineasta francese si è confrontato con una cultura in cui la nozione di frontiera ha assunto un significato di ben altra natura e portata.

Dopo il risultato un po’ annacquato di Swamp Water, e i continui esempi di incompatibilità con i metodi produttivi e l’estetica della 20th Century Fox, Renoir rescinde il contratto con Zanuck355, e per qualche tempo resta in una condizione di identità incerta: né francese, né americano. Il film successivo, infatti, This Land is Mine (1943), prodotto dalla RKO, e sceneggiato nuovamente da Dudley Nichols, rappresenta una concessione – quasi una resa, in realtà – al proposito con cui Hollywood aveva accolto il cineasta europeo appena sbarcato, immaginando di metterlo a proprio agio affidandogli la regia di soggetti francesi. La pellicola è ambientata in Francia – ed è dunque in contrasto con l’esigenza di Renoir di dirigere film che gli consentissero di esplorare l’America –, ma il villaggio francese in cui si svolge la vicenda è interamente ricostruito in studio, illuminato da una fotografia fatta di contrasti netti, interpretato da un cast interamente americano. Si tratta probabilmente del punto di maggiore snaturamento dell’estetica renoiriana, nel’ambito dell’esperienza statunitense. Ed è significativo che l’unico riconoscimento ottenuto dal regista, al di là dell’Atlantico, sia un premio Oscar per il sonoro pulito e innaturale di questo film, così marcatamente artificiale.

Realizzato in pochi mesi un cortometraggio di propaganda, Salute to France (1944), in previsione dell’imminente sbarco dell’esercito statunitense in Normandia, Jean Renoir, nel 1945, riceve la proposta di realizzare un film tratto dal romanzo Hold Autumn in Your Hand, di George Sessions Perry, già trasposto in sceneggiatura da Hugo Butler. Il lungometraggio sarà distribuito dalla United Artists, e rappresenta per Renoir sia l’occasione di recuperare credibilità, dopo i risultati piuttosto incerti dei precedenti anni, sia di lavorare mantenendo un buon margine di autonomia: gli è infatti consentito di rielaborare interamente la sceneggiatura (in collaborazione con William Faulkner), di selezionare un cast di attori poco conosciuti (Zachary Scott, il protagonista, viene scelto per il suo autentico accento texano356), effettuare riprese in location reali, utilizzare attrezzature e troupe a basso costo357. Il film che ne risulta è The Southerner, considerato dai critici come il miglior risultato dell’esperienza hollywoodiana di Renoir, un riuscito compromesso tra l’estetica del periodo francese e il nuovo contesto americano358.

Oltre alla opportunità di divincolarsi dai pressanti vincoli produttivi ed estetici degli Studios, e dunque ritornare a una lavorazione più vicina al metodo artigianale, il film rappresenta per Renoir l’occasione di realizzare quel desiderio manifestato sin dallo sbarco a New York, il 31 dicembre del 1940, ma sempre rinviato a causa delle divergenze di prospettiva avute con i produttori: il confronto con la natura americana; o, più precisamente, l’esplorazione del rapporto tra cultura statunitense e natura. Protagonista del film è infatti una famigliola di freeholders – probabilmente il personaggio più ricorrente nell’immaginario degli States – che affronta la difficile, ancestrale, arcaica impresa di confrontarsi con la

                                                                                                               

355 G. De Vincenti, Jean Renoir. La vita, i film, cit., p. 202. 356 J. Renoir, La mia vita, i miei film, cit., p. 199.

357 G. De Vincenti, Jean Renoir. La vita, i film, cit., p. 218. 358 C.F. Venegoni, op. cit., pp. 88 sgg.

durezza della wilderness. La famiglia di un uomo che si colloca, per deliberata scelta, sulla frontiera che distingue la cultura dalla natura. Leggiamo la trama.

Sam Tucker (Zachary Scott) lavora come bracciante in una piantagione di cotone, in Texas, ma decide di avviare una propria fattoria, per sottrarsi alla dipendenza da un padrone. Insieme a sua moglie Nona (Betty Field), all’anziana nonna (Beulah Bondi) e ai due figli Jot e Daisy, si trasferisce in una casa dotata di terreno, collocata in prossimità del fiume. L’abitazione e il campo sono da lungo tempo abbandonati, e versano quindi in condizioni più che precarie: la casa è ridotta a baracca in rovina, la terra è piena di erbacce. La famigliola è però armata di entusiasmo, e cerca quindi di affrontare in modo energico la durezza dell’incontro/scontro con una natura ostile – malgrado l’anziana nonna mantenga lungamente un cupo e refrattario scetticismo sul rischioso progetto del nipote. Alle difficoltà dovute all’incontro con la natura si aggiunge quella del confronto con un vicino altrettanto inospitale e diffidente: di fronte alla richiesta di utilizzo del suo pozzo – quello dei Tuckers è provvisoriamente fuori uso – Devers (J. Carrol Naish) si mostra tutt’altro che generoso. In modo brusco e deciso l’uomo dichiara a Sam il proprio interesse sulla casa e sul terreno, e di essere dunque scontento del suo arrivo e del suo vivace entusiasmo. Devers ha vissuto una vita dura e tormentata: la sua fattoria ha faticato molto a decollare, i raccolti sono stati spesso disastrosi, sua moglie e suo figlio sono morti per la povertà. Col suo cupo spirito pessimista cerca quindi di dissuadere il giovane vicino dal proseguire nel suo progetto.

La situazione si aggrava quando il piccolo Jot si ammala di pellagra: serve del latte e Devers non è disposto ad aiutarli, rifiutando di concedergliene anche solo mezzo litro al giorno. Fortemente abbattuto, Sam incontra in città l’amico Tim (Charles Kemper), impiegato in fabbrica, il quale prova a convincerlo ad abbandonare il progetto della fattoria, e optare per una vita economicamente più stabile, come dipendente nella sua stessa fabbrica. Sam mostra incertezza, la vita del freeholder è senza dubbio molto faticosa; decide però di respingere l’offerta dell’amico: è convinto infatti di non essere portato per quel tipo di impiego.

Fortunatamente, in soccorso dei due sposi, e del piccolo ammalato di pellagra, interviene Harmie (Percy Kilbride), proprietario di uno spaccio, e innamorato della madre vedova di Sam: l’uomo offre in prestito ai Tuckers una vacca, che permette loro di avere la sicurezza di quel mezzo litro di latte quotidiano che consentirà al piccolo Jot di guarire. Tutto sembra procedere in modo più sereno: il bambino è tornato a star bene, il campo dà il suo raccolto; la situazione, tuttavia, precipita allorché una mattina Sam scopre che il vicino Devers ha portato il proprio bestiame oltre il recinto dei Tucker, perché calpestasse l’orto coltivato con cura da Nona. I due vicini rivali vengono alle mani, e Sam, più giovane e forte, ha la meglio. Devers, tuttavia, non si dà per vinto, e insegue Tucker armato di fucile, intenzionato a sparargli. Ma proprio quando sta per premere il grilletto, l’uomo si accorge che Sam, in piedi sulla sponda del fiume, è riuscito a pescare l’enorme pesce-gatto che abita quelle acque, e che il

duro Devers da anni cerca di catturare. I due uomini si aiutano vicendevolmente a tirare a riva il grosso animale, e Sam accetta di lasciare che in paese si creda che sia stato il vicino a catturare il pesce-gatto, in cambio dell’uso condiviso del pozzo e dell’orto.

La pace e l’ordine sembrano nuovamente regnare sulla fattoria: il cotone è alto, e la piccola comunità festeggia allegramente il matrimonio tra Harmie e la madre di Sam. A conclusione della serata, la vecchia nonna, con l’espressione finalmente rischiarata, riflette soddisfatta sulla benevolenza di Dio, che ha regalato un buon raccolto alla famiglia, perché Sam si è comportato bene. Ma la notte stessa una furiosa tempesta devasta casa e campo. Alla mattina, Tucker e il suo amico Tim sono costretti a inseguire bestiame e oggetti trascinati via dall’acqua che ha allagato il terreno, rovinando gran parte del cotone. E così anche l’abitazione, già precaria, è ulteriormente indebolita dalla violenza feroce della pioggia. Sam, stanco, logorato dalle continue difficoltà, si risolve ad accogliere il suggerimento dell’amico: decide dunque di rientrare in città e accettare una vita più regolare, sia pure meno autonoma. Entrando in casa per annunciarlo a Nona, però, è colpito dal sorriso della donna, la quale è riuscita a riordinare in qualche modo la casa traballante, e mostra al marito un entusiasmo rimasto vivo, malgrado la violenza delle avversità umane e naturali. La famiglia decide di restare.

«Ciò che mi ha affascinato in quella storia è proprio il fatto che non è una storia. È una serie di impressioni forti»359, spiega Renoir. E per ridurre ulteriormente il carattere di «storia» del romanzo, il regista decide di operare direttamente sulla sceneggiatura già preparata da Butler, il quale, a giudizio del cineasta, aveva incentrato tutto su Sam, e dunque aveva concepito il plot in modo tradizionale, gerarchico, con un protagonista al centro della vicenda e una serie di personaggi di contorno. «Io invece intravedevo una storia in cui ci sarebbero stati solo eroi»360, una narrazione in cui uomini, animali, natura e paesaggio avessero raggiunto il più alto grado di integrazione361.

È interessante osservare come The Southerner, nel corso dei decenni, abbia ottenuto dalla critica risposte discordanti e disomogenee. A differenza del giudizio pressoché unanime con cui gli studiosi hanno esaltato la grandezza di capolavori come Boudu sauvé des eaux (1932), Toni (1934) o La grande

illusion, e hanno segnalato la innaturalezza di un improbabile compromesso come This Land is Mine,

questo Western di Renoir – intendiamo il termine in senso letterale, ossia come tematizzazione della frontiera occidentale degli Stati Uniti – genera un diffuso disorientamento. Si è già detto che il film è considerato come miglior prova del regista francese in terra americana362. Malgrado ciò, un raffinato esperto di cinema come André Bazin fu negativamente colpito dalla inverosimiglianza di alcuni passaggi della storia: è davvero così difficile trovare mezzo litro di latte al giorno? Dove va a scuola la bambina,

                                                                                                               

359 J. Renoir, La mia vita, i miei film, cit., p. 197. 360 Ibid.

361 Ibid.

se la fattoria sembra così sperduta e isolata?363 Il film presenta dunque una certa fragilità narrativa. È pur vero che lo stesso critico francese riconosce che la severità del proprio giudizio dipende con ogni probabilità dalla difficoltà di ricollocare il regista di La règle du jeu in un contesto diverso da quello francese: «il carattere americano ci esclude dalla complicità dei film francesi»364. In ogni caso, però, il confronto tra Renoir e il tema fordiano per eccellenza – la frontiera – risulta in qualche misura spiazzante anche per «il migliore tra i critici cinematografici»365, come lo definisce Truffaut.

Carlo Venegoni arriva ad affermare che in questa pellicola «l’ottica renoiriana si è totalmente capovolta. All’uomo inteso soprattutto come entità sociale ha sostituito un uomo che intrattiene vincoli diretti con una realtà più complessa e più semplice allo stesso tempo: la natura»366. Il cineasta si sarebbe in qualche misura lasciato assimilare nella visione della realtà che, come abbiamo osservato nei capitoli precedenti, distingue la cultura statunitense: un confronto semplice diretto tra l’uomo, inteso come individuo autonomo e isolato, e la natura.

In termini stilistici, poi, Giorgio De Vincenti riconosce in The Southerner l’inizio di un progressivo avvicinamento di Renoir alla tecnica del montaggio invisibile – quello che manca totalmente in tutto il precedente periodo francese –, un mutamento provocato dall’incontro, più o meno forzato, con le regole del découpage classico che imperavano nel mondo cinematografico americano367.

Le considerazioni che esporremo nelle prossime pagine e nel seguente capitolo ci permetteranno di chiarire le ragioni per cui non condividiamo le critiche appena riportate. Come vedremo, infatti, i personaggi di The Southerner continuano a nostro giudizio a essere entità sociali, incardinate dunque in un tessuto culturale, così come lo sono le tante figure che si muovono ne La règle du jeu: la volontà di Renoir di ridurre la gerarchizzazione della storia e di costruirne una in cui siano «tutti eroi» chiarisce già l’orientamento anti-individualista del cineasta. Nel prossimo capitolo esamineremo anche lo stile di regia del film: è senza dubbio vero che si tratta di un’opera meno sperimentale e ariosa dei prolungati piani-sequenza di Le crime de Monsieur Lange (1935) o de La grande illusion, e che la visibilità della macchina da presa, come suggerisce De Vincenti, è meno clamorosa di quanto non fosse nelle opere del periodo francese. Ma è proprio il cambiamento di contesto a determinare anche un mutamento di valore delle scelte stilistiche: una sbavatura del ritmo di montaggio che compare in un film distribuito dalla United Artist assume tutt’altro significato della regia pienamente sperimentale di una produzione indipendente francese. Come già detto, però, torneremo su questo tema più avanti.

In merito poi alle lacune nella verosimiglianza della narrazione rilevate da Bazin, concordiamo con l’autocritica che il fondatore dei Cahiers du cinéma rivolge a se stesso: un certo disorientamento, provocato nei critici dal nuovo contesto in cui Renoir si colloca negli anni ‘40, fa sì che alcune qualità                                                                                                                

363 A. Bazin, Jean Renoir, cit., pp. 131-132. 364 Ibid., p. 132.

365 Ibid., p. 67.

366 C.F. Venegoni, op. cit., p. 89.

del cineasta finiscano per essere interpretate come limiti. Basti tener conto che Partie de campagne e Le

Bas-fonds, per citare solo due esempi, sono film disseminati di quei continui scivolamenti

nell’improbabile e nell’inverosimile che hanno rappresentato una cifra stilistica caratteristica del Renoir francese, e che contraddicono la riduttiva etichetta di realista che è stata spesso attribuita a un cineasta che, come Ozu o Rossellini, si è sempre accuratamente guardato dal costruire sceneggiature di ferro.

Al di là dei consensi e della perplessità provocati nei critici dalla visione di The Southerner, cerchiamo di definire i motivi per cui riteniamo il film estremamente utile per esaminare l’interpretazione della frontiera americana proposta da Jean Renoir.

In primo luogo, come si evince dalla lettura della trama, il regista francese, al suo quarto film diretto negli Stati Uniti, si propone di posizionare la sua macchina da presa proprio sull’orlo della wilderness, raccontando la vicenda di un uomo e della sua famiglia che si confrontano in modo diretto – chiariremo fino a che punto questa im-mediatezza sia davvero realizzabile – con la natura non ancora civilizzata. La cinepresa dunque inquadra l’uomo inteso nel suo carattere essenziale, originario, come colui che realizza la propria libertà nel lavoro: si tratta pertanto di un tema che attinge direttamente ai valori della cultura americana – la civilizzazione della wilderness –, malgrado la definizione relativa al lavoro come essenza dell’uomo, è bene ricordarlo, ci riporti alle riflessioni filosofiche di Hegel e Marx368.

In secondo luogo, a nostro parere, il film si presta a un interessantissimo confronto con la pellicola che ci ha permesso di esaminare l’interpretazione che John Ford propone della frontiera: The Man Who

Shot Liberty Valance, film con cui abbiamo definito più accuratamente il carattere dell’uomo della wilderness, distinguendolo da altre figure altrettanto cruciali dell’immaginario fordiano e statunitense.

Beninteso, si tratta di due opere senza alcun dubbio molto diverse: abbiamo definito The Southerner un Western; ma, al di là della tematizzazione del confronto tra l’uomo e la natura, nel difficile contesto della zona occidentale degli Stati Uniti, non si può certo affermare che la pellicola di Renoir rientri nello stesso genere di quella diretta da Ford. Va inoltre aggiunto che le due strutture narrative non presentano particolari simmetrie: The Man Who Shot Liberty Valance fa ampio uso della tecnica del

flashback, articolata dunque in due cornici narrative ben distinte: il racconto di Tom Doniphon in merito

al duello è contenuto all’interno di quello di Stoddard – che copre quasi tutto l’arco temporale in cui si dispiega il film. E non va dimenticato che un passaggio cruciale della vicenda, nel Western di Ford, è rappresentato dalla ripetizione della scena dell’uccisione di Valance, osservata da due diverse angolazioni: «oggettiva» la prima e semi-soggettiva la seconda.

Realizzato con vent’anni d’anticipo, The Southerner non subisce l’influenza di Citizen Kane né quella di

Rashomon, e presenta dunque un’articolazione dell’intreccio più semplificata, fatta eccezione per la

                                                                                                               

368 Vedi l’elaborazione che Karl Marx fa del concetto di lavoro definito da Hegel, in K. Marx, Ökonomisch-philosophischen

Manuskripte aus dem Jahre 1844, in Marx-Engels Werke, Diel Verlag, Berlin 1982, tr. it. Manoscritti economico-filosofici, in Opere di Marx-Engels, a cura di N. Merkel, Editori Riuniti, Roma 1986, vol. 3, pp. 298 sgg.

sequenza di apertura che, come vedremo, assume una funzione metafilmica che nel resto della pellicola si fa molto più discreta e implicita.

Quel che ci permette invece di effettuare un’analisi comparata delle due pellicole è la definizione di tre figure che, con caratteri, tratti e significati diversi, sono presenti in entrambi le storie. Si ricorderà, infatti, che, esaminando il Western diretto da John Ford, abbiamo effettuato tre primi piani sui personaggi maschili più rilevanti della narrazione: Ransom Stoddard, definito come incarnazione dell’uomo dell’East, gravemente esposto alla contaminazione con il vacuo formalismo europeo; Liberty Valance, il brutale selvaggio, abitante e signore di una wildernes concepita ancora come Devil’s Land; Tom Doniphon, il vero e autentico eroe fordiano, unico artefice della fondazione della civiltà, dotato per natura di una comprensione immediata e intuitiva della verità. In The Southerner, sebbene con quella caratterizzazione più sfumata che è tipica della scrittura di Renoir, ritroviamo tre personaggi collocati in posizione sorprendentemente simmetrica rispetto a quelli ritratti da Ford. Inquadriamoli più da vicino.

Sam Tucker è il protagonista dell’intera vicenda. Sin dalle prime battute del film manifesta l’urgenza di divincolarsi dal giogo della dipendenza da un padrone, e sceglie quindi di affrontare il carattere più arcaico del lavoro: si dirige proprio lì dove la frontiera distingue la civiltà dall’inclemenza della natura selvaggia – è un autentico farmer americano –, e lungo il corso della narrazione cerca strenuamente di avere ragione della dura resistenza della wilderness. Sam è dunque il corrispettivo renoiriano dell’eroe Tom Doniphon, colui che uccide – e dunque civilizza – il selvaggio.

Tim, amico cittadino di Sam, non avverte la medesima urgenza di autonomia che distingue l’agricoltore: lavora come salariato, alle dipendenze di un padrone, e propone in più occasioni a Sam l’opzione di una vita certamente meno libera, ma senza dubbio più sicura, fatta di comodità e garanzie regolari. Alcuni passaggi della narrazione ci permettono di cogliere alcune sfumature di pavidità, nel profilo caratteriale di Tim. Si tratta dunque di un buon rappresentante di quello spirito cittadino,

Eastern, che, secondo un’ottica fordiano-turneriana, è generata da un affievolimento del carattere

autenticamente americano, dato dal contatto diretto con la violenza della natura. Il personaggio di Tim si ricollega dunque a quello di Ransom Stoddard anziano, il politico che ha dimenticato l’entusiasmo giovanile e la durezza del deserto del West.

Infine abbiamo il vicino di Sam, Devers. Se il giovane farmer, lungo il corso della narrazione, è costretto ad affrontare la ferocia di una natura che gli distrugge il raccolto e che, in forma di pellagra, vuole uccidergli il piccolo figlio, egli deve anche confrontarsi con qualcosa di altrettanto duro e spaventoso: l’aggressiva ostilità di un simile. Privo di generosità sin dalle prime battute del film, Devers in più occasioni sembra incarnare davvero quello spirito malvagio ed egoistico che abita la wilderness americana ancora priva della benedizione della civiltà. È un uomo hobbesiano pre-civile, votato esclusivamente all’appropriazione delle risorse naturali e a guerreggiare con chi rappresenta un ostacolo al suo proposito auto-referenziale, in quella condizione di bellum omnium contra omnes descritta da Thomas

Hobbes nella sua opera principale pubblicata nel 1651369. Devers sembra dunque essere il Liberty Valance di Renoir, colui che incarna la violenza feroce di una libertà selvaggia.

Una volta definite le tre figure, proviamo a esaminare alcune sequenze del film che ci permettano di