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JOHN FORD , PARTE PRIMA

2. La frontiera, tra essere e non-essere

2.2. La follia del meticcio

Sebbene dalle nostre analisi sia emerso con chiarezza il ruolo costante della frontiera nel cinema di John Ford – e come sorprendersene, visto che parliamo di Western, – possiamo affermare che il più acclamato e popolare tra i cantori del West non è, in realtà, un uomo di frontiera. John Ford non è un artista del limite. Cerchiamo di chiarire le ragioni della nostra interpretazione.

Nella monografia dedicata al regista, Franco Ferrini sottolinea in più occasioni come, nelle pellicole dirette da Ford, le istanze opposte siano in realtà dinamiche, scivolino continuamente l’una nell’altra, in una sorta di continuo scambio tra bianco e nero che rende il cinema fordiano tutt’altro che monolitico, come una critica frettolosa ha invece voluto credere. La condizione semi-primitiva dei Clanton, infatti, rappresenta una spinta arcaica interna all’istituzione familiare: vi è dunque una originaria affinità Clanton/Earp, ed è solo attraverso un lavoro di progressiva civilizzazione che la ferocia del clan può mutarsi nella misurata compostezza degli Earp176. L’ambiguità delle numerose figure dirette da Ford è confermata dalla profonda affinità che alcuni studiosi, già segnalati nelle pagine precedenti, individuano tra il cineasta americano e il teatro di Shakespeare, citato a più riprese nelle pellicole: il soliloquio di Amleto, declamato da Granville Thorndyke (Alan Mowbray) in My Darling Clementine, con il significativo apprezzamento espresso da Doc Holliday, è sintomo dell’animo shakespeareano, amletico dello stesso Ford, che disegna personaggi dai contorni sfumati, solo in apparenza definiti da nette opposizioni.

E l’ambiguità abita il regista stesso anche in merito al valore da attribuire alla legge e alle regole: se Lindsay Anderson si sorprende della compresenza di un profondo anarchismo e di un sincero rispetto della tradizione – tanto nell’uomo John Ford quanto nel cineasta177 –, Fabio Troncarelli individua un positivo mescolamento di spirito patriottico e desiderio di ribellione nell’animo dei tanti alter-ego che il regista ha distribuito nei suoi numerosi film178. Si tratta di punti di vista in parte condivisibili. Tuttavia, vi sono esempi che ci consentono di affermare che, sebbene attratto dall’ambiguità e dalle zone di                                                                                                                

176 F. Ferrini, op. cit., p. 47. 177 L. Anderson, op. cit., p. 205. 178 F. Troncarelli, op. cit., p. 138.

confine, nondimeno John Ford mostra in modo piuttosto netto una costante idiosincrasia per la figura del meticcio.

Uno dei film in cui la presenza dell’ibrido si fa più marcata è senza dubbio The Searchers. Abitualmente si sostiene che Ford, più anziano e irruvidito dal cambiamento dei tempi – siamo verso la fine degli anni ’50, Hollywood versa in grave crisi, il regista ha circa sessant’anni –, decide in questa pellicola di confrontarsi con una realtà nuova, in cui le vecchie distinzioni e gli antichi valori sono avviati verso un inesorabile tramonto. Sua proiezione nella vicenda è Ethan Edwards (John Wayne), che per tutto il film resiste all’adattamento, respinge la trasformazione e il mescolamento – che egli vive ancora come contaminazione –, ma alla fine deve arrendersi all’evidenza di una realtà ormai mutata. E così Ford, a giudizio di alcuni critici, mantiene la sua fiducia nel progresso, celebrandone ancora il cammino, sia pur sottolineando la tormentata e personale difficoltà a tenere il passo179. Espressione di questo difficile ma benefico rinnovamento è Martin (Jeffrey Hunters). Definiamo il personaggio.

Abbiamo già descritto come i Comanche, a inizio film, abbiano aggredito e sterminato la famiglia Edwards: unica superstite dell’eccidio è la piccola Debbie (Lana Wood, poi Natalie Wood), che viene rapita e diviene moglie di Scar (Henry Brandon), capo dei selvaggi. La ricerca della piccola nipote è la missione di cui si incarica Ethan, che, nel prolungato tragitto lungo sentieri selvaggi, è accompagnato da Martin, figlio adottivo del fratello ormai morto, e dunque fratellastro di Debbie. Il ragazzo non è «di razza pura»: il sangue che scorre nelle sue vene è per un quarto indiano. Il duro pistolero interpretato da Wayne gli manifesta per tutto il film una esplicità ostilità: non vuole che lo chiami zio, non lo porterebbe con sé nel viaggio, non lo considera parte della famiglia. È un meticcio.

Ecco dunque l’esempio della capacità di Ford di confrontarsi con il limite, e di valorizzarlo come carburante della storia: a conclusione della narrazione, il vecchio e stanco Ethan muta finalmente atteggiamento verso Martin, lo investe del ruolo di unico erede, in caso di sua morte, e accetta che egli entri nella stessa famiglia che ha accolto Debbie. China dunque il capo di fronte al mutamento dei tempi, e accoglie un mezzo-indiano al di qua della frontiera. Non va inoltre trascurato che la nuova famiglia che adotta Debbie e Martin porta il cognome di Jorgensen, di origine non anglosassone, dunque – come segnalato dal particolare accento del loro inglese. La comunità si è rinnovata. Eppure vi sono aspetti della questione tutt’altro che risolti.

Per tutto il film Martin replica all’ostilità respingente di Ethan, ma non lo fa affermando il valore di «quel quarto di sangue indiano» che gli scorre nelle vene, bensì riducendone il valore contaminante. «Quarter Cherokee! The rest is Welsh!», risponde fiero allo zio, che lo accusa di essere un intruder. Il che equivale ad affermare la propria americanità malgrado la piccola quantità di sangue alieno che porta con sé. Il ragazzo ha inoltre una relazione con Laurie (Vera Miles), la giovane figlia degli Jorgensen. La                                                                                                                

179 D. Pye, Double Vision: Miscegenation and Point of View in «The Searchers», in The Book of Westerns. (Eds. I. Cameron and D.

relazione tra i due si esprime secono clichés del tutto in linea con la tradizione narrativa classica: Martin, chiamato dal senso del dovere, vuole partire insieme a Ethan, mentre Laurie, imbronciata, cerca invano di trattenerlo. Quando la ragazza decide di sposare un altro uomo, Martin si lancia in una comica scazzottata con il rivale, finché alla fine riesce a riconquistarle il cuore e a stanziarsi insieme a lei.

Il personaggio, al di là delle informazioni che la narrazione ci offre su di lui, è totalmente privo di comportamenti che risultino alieni o dissonanti, se confrontati con quelli degli eroi più tradizionali dei film di Ford – o, più in generale, del cinema hollywoodiano e della letteratura Western ottocentesca. La sua gestualità, la prospettiva da cui osserva e interpreta i legami e la realtà non rinviano affatto a un orizzonte altro con cui fare i conti, rifiutandolo o integrandosi. Ed è dunque piuttosto facile digerire il personaggio, accogliere Martin nella grande carovana del popolo americano180. Senza trascurare il dettaglio, tutt’altro che marginale, che il ruolo dell’ibrido mezzo-sangue è interpretato da Jeffrey Hunter, attore di chiare origini europee, che pochi anni dopo interpreterà il ruolo di Gesù nel King of

Kings di Nicholas Ray (1961).

Altro passaggio della pellicola molto significativo è l’incontro che Ethan fa con un gruppo di donne, anch’esse rapite dai Comanche, e poi liberate dalla cavalleria. Wayne e Hunter entrano nella cappella del campo militare, e passano in rassegna le ragazze, alla ricerca di Debbie. Le donne sono rese folli dal trauma dell’esperienza trascorsa, vengono scrutate con attenzione, ma tra loro non vi è la sorellastra di Martin. John Ford ci mostra il confronto dialettico tra le due spinte antagoniste della storia, distinguendo nettamente l’atteggiamento di Ethan (conservatore) da quello di Martin (progressista). L’anziano zio dichiara crudelmente che le donne non sono più bianche, sono Comanche: sono ormai contaminate dal contatto sessuale con il selvaggio. Il giovane mantiene invece una posizione molto più moderna, accogliente verso l’ambiguità, e si muove con partecipazione e affetto verso le povere ragazze traumatizzate. La sequenza si conclude con un rapido carrello in avanti che ci offre il primo piano di John Wayne, che mostra tutto il suo animo oscuro, complesso, ma affascinante, mentre indirizza uno sguardo omicida alle donne ormai impure.

In realtà, quello che Ford ci presenta è un falso confronto dialettico. Lo snodo più problematico della sequenza non è rappresentato dall’antagonismo tra il conservatorismo esclusivo di Ethan e il progressismo accogliente di Martin, ma dalla follia delle donne. Prima di chiederci quale sia il comportamento più giusto da adottare, dobbiamo domandarci: perché le donne sono folli? Perché John Ford ci presenta la follia come inevitabile conseguenza della commistione con i Comanche? E ciò indipendentemente dal fatto che ad essa si scelga di rispondere con una punizione o con il perdono.

                                                                                                               

180 Si legga al riguardo B. Henderson, The Searchers: An American Dilemma, in Movies and Methods, Ed. Bill Nichols, California

University Press, Berkeley 1985, pp. 429-50. L’autore definisce il film come una rappresentazione del mito dell’integrazione dei nativi nella società bianca. Martin, infatti, è considerato «buono» in quanto rigetta le proprie origini, mentre Scar è mostruoso perché, al contrario, non rinnega la propria identità Comanche: è punito, quindi, ucciso e privato dello scalpo.

Tertium non datur, affermavano gli antichi. La maledizione di Parmenide, secondo cui Essere e Non-

essere sono destinati a non mescolarsi, implica che qualora si resti impigliati nella crepa che si apre tra i due termini, si finisca in contraddizione, e chi abita l’inter-regno della contraddizione è destinato a perdere la ragione, a essere preda del mostruoso demone della follia, come un pellegrino che continui a navigare sulle acque dell’Atlantico, senza mai toccare il Nuovo Mondo. E così l’orrore tutto puritano per la promiscuità fatica a essere dissolto181.

I veri uomini della wilderness non sono dunque queste folli figure ambigue. I film di John Ford sono ricchissimi di esempi del rifiuto che egli oppone a questa condizione confusa, indefinita, liquida. In Fort

Apache, Silas Meacham (Grant Whyters) vive in una zona di confine, responsabile governativo della

riserva Apache. I suoi modi ossequiosi verso il colonnello Thursday (Henry Fonda) nascondono un’animo da doppiogiochista, che inganna contemporaneamente Stati Uniti e nativi. Fracassato il coperchio di una delle casse del suo magazzino, su cui si trova la scritta «Bibles», i militari dell’esercito vi trovano pessimo whisky. Il Cheyenne che uccide il padre di David Brandon, in apertura di The Iron

Horse, come abbiamo visto, assume una posizione simile: si colloca nel mondo selvaggio, ma è solo un

bianco malvagio che fa il doppiogioco. La già citata Chihuahua di My Darling Clementine porta già nel nome i segni di una appartenenza di confine, che ne fa la figura torbida rifiutata da Earp e accettata – ma solo per autodistruzione – da Holliday.

No, non sono questi gli uomini che, collocati a cavallo del limite, rappresentano insieme il primo e l’ultimo baluardo del progresso americano. Una più profonda frontiera ideale distingue – e con nettezza – le due figure del falso e del vero uomo della wilderness. E tale nettezza ci impedisce di riconoscere la continuità che Ferrini individua tra l’orda dei Clanton e i civili Earp. La distinzione tra le due famiglie non è il risultato di una progressiva opera di elaborazione. C’è qualcosa in più. Così come, nella teoria creazionista, non è possibile accettare una vera continuità tra primate e uomo, in quanto all’essere umano è riconosciuta quella misteriosa qualità specifica che non può risultare da un semplice percorso di graduale evoluzione, quella unicità che, nell’ambito della dottrina cristiana, sancisce l’inconciliabile alterità uomo/animale definita col nome di anima182.

Nel prossimo capitolo proveremo a inquadrare l’anima di quello che abbiamo definito vero uomo della wilderness, quello che Ford racconta, recuperando e rielaborando la tradizione narrativa americana. Con lui, cercheremo di gettare uno sguardo di là dalla frontiera, puntando l’arma della cinepresa verso ciò che questo eroe, antichissimo e rinnovato, è in grado (o crede) di vedere.

                                                                                                               

181 F. Ferrini, op. cit. p. 64.

CAPITOLO IV