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Un pastrocchio francese

JEAN RENOIR , PARTE PRIMA

1. Apollo e Dioniso che giocano alla guerra

1.2. Un pastrocchio francese

I detrattori di Hollywood immaginano che l’errore dell’industria sia quello di voler fare denaro a tutti i costi. […] Il vero pericolo, a mio parere, risiede in un amore cieco per la perfezione. […] Un grande film a Hollywood viene servito come un melone, a fette separate296.

Queste le considerazioni di Jean Renoir sull’esperienza hollywoodiana. Beninteso, l’orizzonte di riferimento non è solo il sistema di produzione e distribuzione statunitense: in altre occasioni il cineasta dichiara che «la storia del cinema in Francia è quella della lotta tra individuo e industria»297. Il campo di battaglia tra personalità stilistica e industria non è quindi limitato agli Studios californiani, ma assume un valore estetico e filosofico ben più esteso, che finisce col travalicare i limiti della storia del cinema; e la stessa accezione dei termini individuo e industria non si risolve nel semplice bisticcio tra la professionalità dei tecnici della 20th Century Fox e l’approssimativo disadattamento di un artista francese. L’industria è quella che definisce con esattezza le dimensioni delle fette di melone che vanno servite al pubblico, ma è anche il grande e compatto sistema culturale cui si riferiscono Adorno e Horckeimer nel loro Dialektik der Aufklärung, che mira alla costituzione di un pubblico di consumatori, il più omologati possibile, da cui siano rimosse le difformità298.

Per accostarci al significato di questa antica e attualissima battaglia, possiamo trarre spunto da un altro divertente passaggio del libro dedicato da Jean Renoir al padre pittore. Pare che la famiglia di Pierre-Auguste bambino, domiciliata a Parigi in boulevard Rochechouart, ricevesse spesso a cena la visita del vicino di casa. L’uomo aveva più di ottant’anni, e, da ragazzo, era stato aiutante del celebre boia Sanson, durante il Terrore: aveva dunque collaborato al taglio delle teste di Luigi XVI e Maria Antonietta. L’anziano reduce di un’epoca così remota andava molto d’accordo con Léonard Renoir, sarto e padre di Pierre-Auguste: «erano entrambi bravi artigiani: l’uno tagliava la stoffa; l’altro, in modo altrettanto coscienzioso, aveva tagliato le teste»299. Entrambi, inoltre, condividevano il biasimo nei confronti dei nuovi tempi, in cui il valore dell’artigianato andava perdendosi, e nuovi dispositivi meccanici rendevano il lavoro troppo facile: l’invenzione del dottor Guillotin aveva permesso di dimenticare che prima della ghigliottina, per staccare teste, ci voleva mestiere, mano ferma, colpo d’occhio. «Che merito c’è, invece, nell’azionare un meccanismo che fa tutto da sé?»300.

                                                                                                               

296 J. Renoir, La mia vita, i miei film, cit., p. 173.

297 Citato in G. De Vincenti, Renoir, la vita, i film, cit., p. 4.

298 T. W. Adorno, M. Horkheimer, Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente, tr. it. Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi,

Torino 1966.

299 J. Renoir, Renoir, mio padre, cit., p. 39. 300 Ibid.

Pierre-Auguste Renoir si dice d’accordo con le affermazioni del boia della Rivoluzione e del sarto coscienzioso: anche il pittore impressionista, infatti, dichiara di amare un oggetto solo se esso è espressione dell’artigiano che ci ha lavorato; quando l’autore diviene una folla, l’interesse, per forza di cosa, viene a cadere, perché l’oggetto diviene anonimo – figlio di troppi padri301.

Le cene si svolgevano nella Francia di metà Ottocento. Di lì a pochissimi anni, dopo il rapido e vano bagliore dei moti del 1848, il trionfo della classe borghese, che già con Luigi Filippo aveva ottenuto il suo re negli anni ’30, diverrà concreto e prepotente con la nascita del Secondo Impero di Luigi Napoleone Bonaparte, che avvierà anche in territorio francese la Rivoluzione industriale, con qualche decennio di ritardo su altri paesi europei – Inghilterra innanzitutto. Così, a partire dalla seconda metà del XIX secolo, la solida alleanza tra stato e borghesia determina un profondo mutamento della fisionomia e della società francese, così come, in tempi e momenti diversi, accade nel resto d’Europa.

Mentre le ramificazioni della rete ferroviaria invadono il territorio nazionale, i centri urbani si ampliano, le campagne intraprendono un percorso di spopolamento che durerà circa un secolo; in alcune regioni – la Languedoc, ad esempio – la tradizionale varietà di colture è abbandonata, e si predilige l’uniformità di un unico prodotto agricolo, secondo le leggi di una razionale convenienza. Il paesaggio rurale, così, cambia progressivamente di aspetto. Nasce e si rinforza anche in Francia l’industria metallurgica, sostenuta dalle grandi banche e dalle agevolazioni statali. Il Grande Magazzino, deriso ferocemente da Émile Zola nel suo Au bonheur des dames, ripulisce pian piano le vie cittadine da ambulanti e piccoli commercianti302.

Si impongono presto e potentemente i valori del progresso, del dominio tecnologico e razionale sulla natura. Il filosofo francese Auguste Comte, padre del Positivismo, può affermare nei suoi scritti che l’umanità, raccogliendo l’eredità di Bacon, Descartes e Galilei, ha finalmente raggiunto l’età positiva, quella in cui si esprime pienamente una virile intelligenza303. Nel suo Discours sur l’esprit positif, egli fornisce al lettore un interessante ventaglio di accezioni del termine «positivo»: reale, utile, certo, preciso, costruttivo304. Nella seconda metà del secolo, il padre della scienza sociologica passerà al cosiddetto Secondo Positivismo, in cui propone quella visione del rapporto uomo-natura che i critici definiscono scientismo, o «religione della scienza»305. Malgrado le tante riserve e le numerose critiche espresse dagli studiosi su quest’ultima fase del pensiero comtiano306, la sua fede religiosa nelle smisurate possibilità offerte all’uomo dall’attività scientifica è un fenomeno tutt’altro che isolato: ne L’Avenir de la                                                                                                                

301 Ibid.

302É. Zola, Au bonheur des dames, Flammarion, Paris 1971.

303 A. Comte, Discours sur l’esprit positif, Arbousse-Bastide, Paris 1963, tr. it. Discorso sullo spirito positivo, Laterza, Roma-Bari

2003.

304 Ibid.

305 A. Negri, Introduzione a Comte, Laterza, Roma-Bari 1983, pp. 147 sgg.

306 Ibid., p. 160. Antimo Negri, ad esempio, individua alcune evidenti contraddizioni nell’ultima fase dell’evoluzione del

pensiero comteano, fino a derive paradossali. In particolare vi è una contraddittoria compresenza di esaltato sentimento religioso e lucida oggettività scientifica.

Science, pubblicato nel 1890, ma redatto già alla fine degli anni ’40, il filosofo e storico delle religioni

Ernest Renan sosterrà che la scienza è una religione in grado di dare ogni spiegazione dei fenomeni naturali307. È in un clima simile che, sul finire del secolo borghese, i Lumière organizzeranno a Parigi la prima proiezione cinematografica della storia.

Questo sistema socio-culturale, tuttavia, nonostante i propositi totalizzanti, è tutt’altro che compatto. La Francia, malgrado la posizione di dominio raggiunta dalla classe borghese nel corso del XIX secolo, conserva comunque un carattere eterogeneo e internamente conflittuale. Accanto alla certezza, alla precisione, all’utilità positiva celebrate da Comte, vi è un’eccedenza, una resistenza. Un’imprecisione. La si può leggere nel tagliente sarcasmo che Zola rivolge alla falsa libertà offerta dal Grande Magazzino; nella caustica ironia con cui Maupassant descrive la gita domenicale del borghese parigino soddisfatto308; ed è il medesimo spirito entusiasta e disadattato che si esprimerà, alcuni decenni più tardi, nelle lettere del poeta Henri Focillon, quando scrive a Jean Epstein che l’arte si rinnova nella violenza, non nella pace309, lungo una linea articolata in rotture e scoperte, e dunque in una condizione virtualmente anti-sociale: un’estetica che, come afferma lo storico dell’arte Francois Mathey, spaventa la società, la scandalizza310.

Si consideri, ad esempio, la vicenda del movimento impressionista, così strettamente legato alla formazione di Jean Renoir. Di consueto si indica come anno di nascita dell’Impressionismo il 1863. Cosa accade in quell’anno? Va premesso che l’esposizione biennale del Salon, allestita al Louvre già da circa due secoli, rappresentava uno dei momenti di maggiore importanza, nell’ambito della vita parigina, e dunque assumeva un significato ben più ampio di quello meramente artistico. È ancora Mathey a rilevare quanto stretto fosse il rapporto tra il governo del Secondo Impero e le scelte degli organizzatori del Salon:

In questa metà del secolo, assistiamo a una trasformazione della civiltà materiale tale che non può non toccare le arti attraverso nuove condizioni economiche. Profitto, potenza, agiatezza sono le parole d’ordine della classe dominante. L’ordine nuovo doveva necessariamente respingere gli artisti inadatti a una società mercantile e soddisfatta311.

E così i criteri di selezione del Salon si fanno più rigidi proprio a partire dalla fine degli anni ‘40, finché, proprio nel 1863, ben tremila artisti vengono rifiutati dalla più prestigiosa mostra di arte francese. Il numero è così elevato da indurre lo stesso Napoleone III ad autorizzare l’allestimento del                                                                                                                

307 E. Renan, L’Avenir de la Science, Flammarion, Paris 2014.

308 G. de Maupassant, Une partie de campagne, in Contes et Nouvelles, Albin Michel, Paris 1956, pp. 371 sgg.

309 F. Mathey, Les Impressionistes et leur temp, Fernand Hazard Editeur, Paris 1959, tr. It. Gli impressionisti e il loro tempo, Il

Saggiatore, Milano 1960, p. 15.

310 Ibid. 311 Ibid., p. 34.

famoso Salon des Refusés, all’interno del Palais de l’Industrie – con un accostamento di termini involontariamente simbolico. Tra le innumerevoli critiche, le polemiche e la derisione dei presenti – la partecipazione a una simile mostra non poteva certo rappresentare motivo di orgoglio per un artista –, il trionfatore dell’esposizione è Édouard Manet, col suo celebre e scandaloso Le déjeuner sur l’herbe, un dipinto che inaugura uno tra i movimenti pittorici più rilevanti dell’intera storia dell’arte. È proprio nel

Palais de l’Industrie, dunque, che l’arte degli esclusi traccia una crepa in un sistema politico-culturale con

ambizioni totalitarie: «più che una tecnica o uno stile, fu un nuovo stato d’animo. […] Un nuovo atteggiamento dell’artista di fronte alla natura»312. Sono infatti gli impressionisti ad aprire le porte degli

ateliers, e muoversi verso la pittura en plein air.

Sia ben chiaro, non si vuole qui affermare che la linea degli artisti esclusi e inattuali sia incompatibile con il progresso scientifico: la contrapposizione tra l’ottimismo borghese della Francia del Secondo Impero e lo spirito impressionista non si gioca su un nostalgico primitivismo o sul secco rifiuto delle innovazioni tecnologiche. Tutt’altro. Manet, Renoir, Monet destano scandalo proprio in quanto fanno tesoro delle recenti scoperte scientifiche – gli studi dei fisici sulla luce, ad esempio –, e tracciano sulla tela l’impronta artistica di una nuova comprensione della realtà313. E così anche la recente invenzione della fotografia si integra perfettamente con lo spirito che pervade il grande salone dei rifiutati: le splendide composizioni fotografiche di Adolphe Braun, intorno al 1860, che raffigurano paesaggi naturali, mostrano clamorosamente quanta ricchezza di sfumature abbia la luce catturata dalla macchina fotografica, e quanta varietà di toni vada perduta nella riproduzione seriale operata dai pittori più blasonati, nel chiuso dei loro ateliers. Gli impressionisti accolgono e rielaborano le informazioni che silenziosamente il nuovo dispositivo fornisce loro sulla sfuggente ricchezza della natura, e sperimentano nuove tecniche di composizione pittorica. E avverrà così anche mezzo secolo più tardi, quando Jean Epstein, Marcel L’Herbier, Abel Gance, Fernand Léger, Luis Buñuel, esponenti dell’avanguardia cinematografica francese degli anni Venti del XX secolo, con la medesima urgenza sperimentale, faranno largo uso del ralenti, della sovraimpressione e di altri effetti speciali, per offrire una rappresentazione della soggettività dello sguardo o dell’illogicità dell’universo onirico314.

Jean Renoir affonda le radici in questo terreno culturale. La lotta che, a suo parere, l’artista ingaggia con l’industria assume dunque una doppia accezione: è l’esigenza dell’individuo di collocarsi nelle zone marginali del sistema socio-culturale in cui opera, e dunque assumere una prospettiva critica nei confronti dei valori vigenti, dei canoni estetici e culturali. Ma significa anche interpretare il lavoro dell’artista come sperimentazione continua:

                                                                                                               

312 Ibid., p. 15.

313 «Sono i colori in tubetti facilmente trasportabili che ci hanno consentito di dipingere all’aperto in maniera completa.

Senza colori in tubetti, niente Cézanne, niente Monet, niente Sisley, né Pissarro». J. Renoir. Renoir, mio padre, cit., p. 76.

Io non trovo il senso di una scena, di una recitazione, di una parola, se non quando queste si sono materializzate, quando esistono. […] Come direbbe Sartre, io credo che l’essenza venga dopo l’esistenza. Quello che è importante è non partire credendo di conoscere il senso della scena […]. Ogni scena deve essere un’esplorazione315.

È quindi necessario che l’artista lotti contro la materia: l’eccesso di fluidità descritto da Jacques Feyder, il velluto su cui naviga il cineasta, grazie all’esercito di tecnici collaudati messi a disposizione dagli Studios, ha lo stesso effetto della ghigliottina dell’artigiano-boia, limita infatti quel che di specifico risiede nel lavoro di artista, la battaglia contro una materia che resiste. Prendendo in prestito i termini della filosofia di Friedrich Nietzsche, se l’opera d’arte è concepita come danza e conflitto tra il caotico Dioniso e l’armonico Apollo316 – la materia informe che diviene figura –, il passaggio dall’artigianato all’industria contribuisce a una significativa limitazione della lotta tra uomo e materia, determinando un assorbimento del dionisiaco nella produzione meccanica di figure apollinee in serie.

In questi termini, nel confronto tra Jean Renoir e John Ford è possibile individuare un significativo elemento di asimmetria. Il maestro americano è stato giustamente ritenuto tra i più affidabili cineasti hollywoodiani, e ha manifestato una straordinaria intesa con il punto di vista estetico del produttore Darryl F. Zanuck: «Finite le riprese potevo andarmene a pescare e lasciare tutto a lui. Con fiducia»317. È pertanto condivisibile la scelta di Sandro Bernardi di indicarlo come esempio più limpido di integrazione tra stile personale e sistema318. Anche nel confronto col contesto socio-culturale statunitense, come già ampiamente mostrato nei precedenti capitoli, i film di Ford confermano e raramente contraddicono i valori fondanti l’identità americana: «Il Western è stato uno dei maggiori elementi di unificazione del paese»319. Non a caso, The Grapes of Wrath era la pellicola prediletta di Frank D. Roosevelt, lo ricordiamo.

Il quadro risulta ben diverso se si esamina il cinema di Jean Renoir: malgrado il cineasta sia stato indicato da colleghi del calibro di François Truffaut e Charles Chaplin come «il più grande regista al mondo»320 – non si tratta quindi di una figura marginale, nell’ambito della storia del cinema –, il suo rapporto con l’industria cinematografica francese, senza dubbio molto meno compatta di quella statunitense, è stato sempre tutt’altro che idilliaco: per anni Renoir è stato considerato un regista poco professionale321 – il medesimo giudizio con cui lo congederà Hollywood –, e molti suoi capolavori hanno registrato scarsissimi incassi. In termini socio-culturali, poi, il cinema di Renoir si è sempre collocato in posizione decentrata e critica rispetto al sistema: se si eccettua la breve parentesi del Front                                                                                                                

315 J. Narboni (a cura di), Jean Renoir, Entretiens et propos, Ramsay-Poche, Paris 1986, p. 114.

316 F. Nietzsche, Die Geburt der Tragödie aus dem Geiste der Musik, tr. it. La nascita della tragedia, Adelphi, Milano 1977. 317 L. Anderson, op. cit., p. 188. Traduzione mia.

318 S. Bernardi, L’avventura del cinematografo, cit., pp. 174 sgg. 319 Ibid.

320 A. Bazin, Jean Renoir, cit., p. 67.

Populaire, di cui parleremo tra breve, i capolavori diretti dal cineasta francese sono quasi sempre stati

selezionati per essere esposti nel Salone degli esclusi. Sul piano estetico-stilistico, su quello tematico e su quello produttivo, dunque, il fil rouge che percorre la filmografia di Jean Renoir è l’elemento della la dis- integrazione.

Al riguardo, può essere utile soffermarsi su due pellicole dirette dal regista nel 1936, La vie est à nous e Partie de campagne, due opere profondamente diverse, nella fisionomia del progetto iniziale, nel carattere della lavorazione e nel risultato conclusivo; due film che, tuttavia, presentano importanti punti di contatto, utili al nostro percorso di indagine.

Ci concentreremo più a lungo su Partie de campagne nel prossimo capitolo, seguendo alcuni passaggi della narrazione e focalizzando l’attenzione sulle scelte di regia. Nelle poche righe che qui dedichiamo alla più breve tra le pellicole di Renoir, esamineremo solo un aspetto del film ricchissimo di interesse, quello produttivo. L’opera è definita da alcuni «un intermezzo»322, per le sue dimensioni – poco più di quaranta minuti: né corto né lungometraggio –, e perché realizzata nelle pause di lavorazione a un film con una produzione più regolare come Les Bas-fonds. Renoir voleva già da tempo trasporre in immagini l’omonimo racconto di Guy de Maupassant, del 1881, in cui si descrive la gita domenicale fuori porta di un commerciante parigino e della sua famigliola. Il regista prepara personalmente la sceneggiatura, quindi si stabilisce con la sua troupe – composta tra gli altri da Henri Cartier-Bresson e Luchino Visconti – sulle rive del fiume Loing, nella Francia centrale. Il progetto prevede inquadrature inondate dal sole, ma durante le riprese cambia il vento, e il personaggio più rilevante del film finisce con l’essere una pioggia battente: «La storia mi piaceva troppo: cambiai la sceneggiatura»323. La concomitante lavorazione a Les Bas-fonds causa ripetuti momenti di assenza di Renoir, ma non compromette affatto la qualità del girato: pare che il produttore Braubenger, visionate le riprese, abbia proposto con entusiasmo al cineasta di effettuare alcune aggiunte per raggiungere la lunghezza canonica di un lungometraggio. Renoir si oppone, per non compromettere la vicinanza allo spirito del racconto di Maupassant. La scelta, tuttavia, rimane in sospeso a lungo, e così il girato. Con la partenza di Jean per l’America, nel ’40, l’interruzione della lavorazione si prolunga ulteriormente. Durante l’occupazione nazista, poi, i tedeschi, che nutrivano una forte avversione per l’anti-militarsita Renoir, distruggono la prima, provvisoria versione del montaggio che era stata realizzata a conclusione delle riprese. Fortunatamente, Henri Langlois, il fondatore della Cinémathèque Française, aveva conservato una copia del girato.

Malgrado Braubenger non abbia mai abbandonato del tutto l’idea di fare di Partie de campagne un lungometraggio, il protrarsi del soggiorno del regista negli Stati Uniti impedì che dal film fosse eliminato quel carattere frammentario, che lo colloca nell’intervallo che separa il corto dal                                                                                                                

322 C.F. Venegoni, op. cit., p. 52.

lungometraggio – una parzialità che, d’altro canto, il regista desiderava mantenere. Marguerite Renoir effettua così il montaggio con il girato a disposizione, e così, dopo circa dieci anni di una lavorazione disseminata di falle e lacune, il film può essere proiettato pubblicamente nel maggio del 1946, con l’aggiunta di alcune didascalie che cercano vanamente di colmare la vistosa frammentarietà narrativa provocata da una produzione così accidentata.

Circa sessant’anni dopo, in occasione del centenario della nascita di Jean Renoir, presso la Cinémathèque Française viene casualmente rinvenuta una cassa abbandonata da decenni, contenente tutto il materiale scartato da Marguerite Renoir, durante il lavoro di post-produzione. I tanti metri di pellicola sono consegnati ad Alain Fleischer, regista e fotografo francese, con l’obiettivo di realizzarne un documentario. Commentando la visione del materiale di scarto, Fleischer constata stupefatto l’altissima qualità del girato rimasto inutilizzato: il confronto tra il film ultimato e i tagli messi da parte, spiega il fotografo, è uno straordinario esempio di come, durante il montaggio, la scelta di un’inquadratura al posto di un’altra non risponda affatto a criteri selettivi assoluti: «scoprii che nei ciak scartati di ogni sequenza c’erano delle cose straordinarie»324. Ed è proprio osservando la ricchezza di questo materiale eccedente, i profondi cambiamenti apportati alla scena dal regista tra un ciak e un altro, l’esplorazione che la macchina da presa effettua del volto degli attori, che è possibile riconoscere come Jean Renoir abbia lavorato cercando il senso di ogni immagine girando, senza un’idea predeterminata che si inveri nel lavoro di tournage325.

Il film risulta dunque un capolavoro di debolezza: la produzione è tutt’altro che solida; il produttore Braubenger non riesce a imporsi sui capricci di un cineasta che preferisce la fedeltà allo spirito di Maupassant alla vendibilità del prodotto; la sceneggiatura è così fragile da essere subordinata ai cambiamenti di direzione del vento; la compattezza narrativa è gravemente compromessa dalla discontinuità della lavorazione; il montaggio è realizzato senza un’idea chiaramente definita, e pregevoli esempi di regia sono riposti in una cassa, dove restano dimenticati per decenni. La critica all’ottimismo