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E Dio separò la luce dall’ombra

JOHN FORD , PARTE PRIMA

2. La frontiera, tra essere e non-essere

2.1. E Dio separò la luce dall’ombra

Tra le tante pellicole dirette da John Ford, quella in cui, a nostro giudizio, si esprime con maggiore potenza la filosofia parmenidea (e manichea) della distinzione tra luce e ombra, con le infinite declinazioni che l’opposizione può assumere, è My Darling Clementine, un film cui abbiamo già fatto cenno, in apertura di capitolo, e su cui torniamo adesso con maggiore attenzione.

La vicenda, come si è detto, trae spunto dalle vicissidtudini di un personaggio storicamente esistito, Wyatt Earp, e dall’episodio del duello dell’O.K. Corral, accaduto il 26 ottobre del 1881, nella cittadina di Tombstone (Arizona). Il protagonista è in viaggio verso la California, insiema ai suoi fratelli Morgan, James e Virgil (Ward Bond, Tim Holt, Don Garner), e a una mandria di bovini. Tuttavia, durante il passaggio nella cupa e disordinata città, descritta con i tratti di una Sodoma del West, il più giovane di loro viene ucciso dai Clanton, una famiglia di ladri e assassini composta dal vecchio padre e dai suoi quattro figli. Earp decide allora di recuperare il proprio antico ruolo di sceriffo, al fine di vendicare la morte del ragazzo. La vendetta si consuma in un duello leggendario in cui l’uomo di legge, coadiuvato dal fratello Morgan e da un altro personaggio tratto dall’epopea del West, Doc Holliday (Victor Mature), uccide i giovani Clanton e ne scaccia il padre, l’unico della banda che riesce a sopravvivere alla sparatoria. Consumato dalla tisi, e colpito durante il duello, anche Doc morirà. La giovane Clementine, maestrina di Boston innamorata di Holliday, ma da questi respinta, finirà per legarsi a Wyatt Earp, e la pellicola si conclude con l’intenso commiato tra i due che abbiamo già descritto nel paragrafo precedente.

                                                                                                               

161 Parmenide, Poema sulla natura, Rusconi, Milano 1991. 162 F.J. Turner, op. cit.

Come affermato da Jean Mitry, la fotografia curatissima di Joseph McDonald ha un carattere insieme espressivo ed espressionista164. Espressivo perché i contrasti, nel film, assumono valore narrativo, come in tutto il cinema di Ford: l’incremento e la riduzione dell’intensità fotografica mantengono sempre una precisa funzione nell’ambito dell’economia della narrazione. Allo stesso tempo, però, il conflitto tra luce e ombra, come nei fotogrammi-quadro dei cineasti tedeschi degli anni ’20, rinvia a un significato filosofico profondo, alla battaglia metafisica tra Bene e Male, a quella logica tra vero e falso, a quella digitale tra 1 e 0, all’opposizione invocata da Dio, sin dalle prime righe della creazione, quale fondamento stesso dell’opera di costruzione della narrazione universale.

Il film è affollato di opposizioni e dualismi. Abbiamo già in qualche modo individuato la linea di separazione che, allontanando Clementine da Wyatt Earp, nel finale, insiste sul secolare tema della distanza e dell’incontro tra East e West, negli Stati Uniti, come dissociazione interna alla personalità americana, e come ricerca continua di una conciliazione difficoltosa.

Vi è poi, naturalmente, la grande opposizione che fa da filo conduttore alla narrazione: quella tra le due famiglie degli Earp e dei Clanton, con la ricchezza di riferimenti religiosi cui essa rinvia. La specularità tra i due gruppi familiari è evidente: quattro fratelli in entrambi i casi, governati da un padre che, nel caso dei malvagi Clanton è un personaggio concretamente umano – interpretato da Walter Brennan –, mentre per gli Earp si configura come punto di fuga lontano, ma fortemente presente come costante riferimento etico. Non dimentichiamo infatti che, nella sequenza conclusiva, Wyatt si allontana da Clementine chiamato dal senso del dovere che lo porta verso l’anziano padre, a cui dovrà annunciare la morte di due figli.

Marchiati dal proprio cognome, i feroci Clanton rinviano perennemente all’irrazionalità di un’orda primitiva, in chiara contraddizione coi principi che governano la civiltà. Nella dottrina freudiana, la condizione dell’orda, in cui il gruppo dei fratelli è sottomesso a un padre teocrate, che detiene il potere assoluto sui figli e sulle donne, si conclude con l’atto parricida con cui i fratelli, alleati, uccidono, fanno a pezzi il sovrano e ne divorano il corpo, istituendo così un nuovo sistema, non più monarchico ma repubblicano165. Secondo tale prospettiva, se i Clanton rappresentano l’orda, gli Earp, tagliata la testa al re d’Inghilterra (è la testa di Carlo I, tagliata dalla Rivoluzione Inglese, ed è quella di Giorgio III, virtualmente decapitato dalla Rivoluzione Americana), costituiscono la repubblica degli uguali, governata da principi astratti (il padre assente/presente) e democratici.

È la medesima alterità assoluta che Ford, quattro anni dopo, racconterà in una sequenza del film

Wagon Master (1950), allorché la carovana di mormoni che dà il titolo alla versione italiana della pellicola,

nel corso del viaggio attraverso lo Utah, subisce l’imboscata dei minacciosi Clegg, banditi in fuga in seguito a una rapina. Anche in questo caso, la specularità e l’inconciliabile opposizione tra la banda di                                                                                                                

164 J. Mitry, John Ford, Éditions Universitaires, Paris 1965.

165 S. Freud, Totem und Tabu: Einige Übereinstimmungen im Seelenleben der Wilden und der Neurotiker, Beacon Press, Boston 1913, tr.

fuorilegge e la comunità mormona è comunicata con inequivocabile nettezza da Ford, attraverso una serie di primi piani molto simmetrici: ai quattro close-up dei banditi seguono altrettanti primi piani dei quattro mormoni che li fronteggiano. Bocca volgarmente aperta, barbe incolte e sciattezza congenita, nei visi dei Clegg; sobria compostezza e fiera onestà sui volti dei coloni ben pettinati166. E così anche l’irrisolvibile contraddizione tra Earp e Clanton è espressa attraverso descrizioni fortemente caratterizzate, dense di riferimenti religiosi: il giovane Jesse, prima di essere ucciso, ha acquistato una croce, il regalo per la ragazza sua promessa sposa. A conclusione della sparatoria che abbatte i quattro Clanton, Wyatt, rivolto al vecchio, tormentato dalla morte dei figli, urla: «Feel just a little of what my pa’s gonna feel!»167, per poi aggiungere: «Now, get out of town and start wandering!», in un chiaro atto di esorcismo che rende definitivamente manifesto il carattere escatologico che fonda e pervade il film.

Vi è poi un’altra linea di demarcazione, più implicita e meno epica di quella che distingue la civiltà dalla barbarie. Si tratta dell’opposizione che si incarna nel duello/alleanza tra Doc Holliday e Wyatt Earp. Seguiamo la scena del primo incontro tra i due personaggi. Earp, neo-sceriffo, sbarbato da poco, sta giocando a poker in un rumoroso saloon. Al tavolo da gioco si avvicina la sensuale e torbida Chihuahua (Linda Darnell), con atteggiamento seduttivo. L’uomo di legge – legge civile e morale, naturalmente – non si lascia irretire nella ambigua oscurità della donna, la quale, probabilmente risentita per il rifiuto, si vendica segnalando all’avversario di Earp le carte che lo sceriffo ha in mano. Da notare che l’uomo che accoglie l’illecita informazione di Chihuaua è abbigliato in modo molto elegante, con il capo coperto da un voluminoso cilindro, e dunque rappresenta bene il carattere falso e inaffidabile del formalismo ipocrita di derivazione europea. Wyatt, scoperto il tranello della donna, provvede a punirla, gettandola nel lavacro purificatorio di un abbeveratoio, che ripulisce la sua falsa sofisticatezza con la genuinità dell’acqua per gli animali. Durante lo scambio con Earp, Chihuahua ci ha informato che la stella di latta, nella città di Tombstone, non vale nulla, perché il potere appartiene a Doc Holliday – di cui, evidentemente, la donna è infatuata. Doc arriva un minuto dopo. Aggredisce e punisce teatralmente l’uomo con cilindro – è il presagio della futura alleanza con Wyatt Earp –, e poi, con gentilezza precaria, si avvia verso il bancone, dove i due leggendari personaggi si incontrano.

Il contrasto tra i due è immediatamente segnalato dall’angolo che li divide: collocati a destra e a sinistra del vertice del bancone, Earp e Holliday possono sì convergere, ma allo stesso tempo si muovono lungo due assi diversi, perpendicolari e pertanto in conflitto. E come due rette perpendicolari si incroceranno in un punto (l’alleanza nel duello contro i Clanton), ma poi proseguiranno in direzioni distinte. Sebbene solo il percorso di Wyatt Earp seguirà la direzione giusta.

L’identificazione tra le due figure è indicata chiaramente da alcuni dettagli: Wyatt e Doc si conoscono reciprocamente, per fama; rappresentano entrambi il potere; sono due uomini in perenne                                                                                                                

166 In proposito, si veda L. Anderson, op. cit., pp. 128-129.

167 Le battute di My Darling Clementine e degli altri film che analizzeremo sono state da me trascritte ascoltando la versione in

movimento, e dunque vivono il continuo, mai stanco divenire della nazione americana. Infine, sia Holliday che Earp condivideranno il legame sentimentale con Clementine, sia pure con declinazioni diverse. A questi elementi di identificazione, tuttavia, corrispondono però chiare marche di dissociazione, che si condensano nel passaggio in cui lo sceriffo ordina del whisky, corretto poi da Holliday, che chiede champagne.

Doc è altro rispetto a Wyatt, nella misura in cui lo champagne francese, europeo, simbolo di mondanità parigina (rumorosa e disordinata come il saloon dove Doc impera), è distante dalla sobria schiettezza del whisky. Al riguardo, si può azzardare un parallelo con la figura del più popolare supereroe del Novecento, Superman, riferendoci anche all’analisi che ne fa Ilaria Moschini, nel suo studio sull’immaginario statunitense168.

Come noto, l’eroe dei fumetti – poi di televisione e cinema –, inventato negli anni ’30 da Jerry Siegel e Joe Shuster, è in realtà un alieno, spedito da Krypton sulla Terra dal padre Jor-El, per salvarlo dall’imminente distruzione del pianeta. Il riferimento, più o meno consapevole, alla fuga dei primi coloni da un’Europa sconvolta dalle guerre di religione del XVII secolo è piuttosto evidente. E altrettanto significativo è il valore simbolico della kryptonite, quel materiale, anch’esso proveniente dal pianeta d’origine di Kal-El, che, a contatto col supereroe, inibisce i poteri da lui acquisiti all’arrivo sulla Terra, riducendolo alla condizione di uomo ordinario. Se l’alieno, impattando il nostro pianeta, diviene un supereroe, i resti residui della sua antica patria vanificano, annullano, ammalano la sua superiorità. L’Atlantico sancisce dunque l’alterità tra due mondi, insieme congiunti e resi alieni da questa frontiera liquida.

Abbiamo già citato il senatore Thomas H. Benton, come esempio di retorica che fa ricorso a una simbologia spaziale, indicando la costa pacifica come meta della libera espansione statunitense, e quella atlantica, ancora invischiata con l’Europa, come inibizione della crescita naturale. Ma il discorso dello scrittore e politico del Missouri non è del tutto originale, in quanto recupera un argomento già proposto qualche decennio prima di lui da Crèvecœur, il quale, nel definire le qualità dello spirito americano, stabilisce una radicale distinzione tra i due continenti bagnati dall’Atlantico: se la vecchia Europa è concepita come terreno ormai sterile, non più in grado di far fruttare la migliore semenza dell’uomo, è il suolo americano che potrà consentire ai «pellegrini dell’ovest» di conseguire una rigenerazione, e dare vita a una nuova umanità169. Nel prossimo capitolo torneremo sul tema, e sul processo di transplantation che permette all’europeo di vivere la metamorfosi che lo rigenera in Superman, non trascurando quel significativo dettaglio, segnalato ancora da Moschini170, che consiste nel «ribaltamento semantico» operato da Crèvecœur nella descrizione del processo: se una millenaria tradizione iconografica aveva sempre tracciato la via del benefico pellegrinaggio come movimento da ovest a est – verso                                                                                                                

168 I. Moschini, op. cit., pp. 54-56.

169 J.H.St.J. de Crèvecœur, op. cit., pp. 42 sgg. 170 I. Moschini, op. cit., pp. 52-54.

Gerusalemme, verso il sorgere del Sole –, a partire da fine ‘700 il movimento rigeneratore è dato dalla fuga da un oriente buio, verso il luminoso occidente.

Una volta sancita categoricamente la dicotomia East/West, Europa/America, essa può divenire filo conduttore della grande narrazione che si distende nei successivi due secoli di storia del Stati Uniti. Nel 1839, O’Sullivan si chiederà, retoricamente, «Who will set limits to our onward march?» – la marcia del processo di rigenerazione –, consapevole che il freno è quello del vecchio feudalesimo europeo, definito dal giornalista «gate of Hell»171. E così anche Whitman, nella prefazione alla prima edizione di

Leaves of Grass, invita la società americana a emanciparsi dalla costa atlantica, ancora oscurata dall’ombra

della fumosa Europa, e la letteratura a divincolarsi dalle sofisticatezze e le convenzioni del passato172. Nell’ombra del Vecchio mondo, gli Stati Uniti di Theodore Roosevelt e Woodrow Wilson, nei primi decenni del XX secolo, porteranno la luce della democrazia, opponendo così alla tirannia e all’ingiustizia il proprio «international policy power»173. E più recentemente, uno scrittore e filosofo abitualmente estraneo alla magniloquenza di una retorica stereotipata come Robert M. Pirsig, autore del celebre Zen and the Art of Motorcycle Maintenance: an Inquiry into Values (1974), nel suo secondo libro, Lila:

an Inquiry into Morals (1991), definisce il gioco del mondo come equilibrio tra due forze, una spinta

dinamica e una statica: esaminando i valori e i costumi americani, lo scrittore individua nei residui di europeità l’espressione di una qualità statica, contraddetti e dinamizzati dagli elementi autoctoni della cultura statunitense174.

E così, per tornare al nostro film, il re Holliday si ubriaca di champagne europeo, e tossisce ripetutamente, consumato dalla tisi – la malattia romantica degli scrittori, dei letterati – che lo condurrà alla morte. Se dunque Earp e Doc hanno un ruolo di potere, Holliday rappresenta un potere in disfacimento, che, non a caso, si estende sulla città di Tombstone che, in apertutra di film, è presentata come luogo cupo, disorganico, una sorta di discarica dei prodotti del consumismo dell’East. La forza di Doc è ormai trascorsa, in decomposizione: più avanti l’uomo, logorato dalla malattia, in un sussulto di consapevolezza, rifiuterà la bellezza spirituale di Clementine, accettando in modo autodistruttivo la sensualità di Chihuahua. Beninteso, tra i due non si tratta di amore: accogliendola Doc dichiara con amaro entusiasmo: «The Queen is dead!». E pertanto la coppia Holliday/Chihuahua non è benedetta da Cupido, ma da Thanatos. Del resto Earp lo aveva preannunciato: durante il primo dialogo tra i due, all’angolo del bancone, dichiarava di riconoscere le tracce del passaggio di Holliday in ogni cimitero, dietro ogni simbolo di morte.

Se Doc Holliday si presenta come incarnazione della fase di decadimento e corruzione di uno spirito americano ubriacato, falsificato dallo champagne francese, è dunque Wyatt Earp che, sbarbandosi e                                                                                                                

171 J. L. O’Sullivan, «The Great Nation of Futurity», in The United Sates Magazines and Democratic Review, Vol. VI, n. 23,

November 1839.

172 W. Whitman, op. cit., p. IV.

173 T. Roosevelt, The Works of Theodore Roosevelt, National Edition, 1926, Vol. XX, p. 74. 174 R. Pirsig, Lila: an Inquiry into Morals, Bentam Books, New York 1991.

indossando, sia pure provvisoriamente, la stella di latta, assume il ruolo di guida del processo di rigenerazione. A Chihuauha, l’uomo di legge preferisce Clementine.

Intorno al cinquantesimo minuto, la narrazione giunge a un punto ricco di interesse. Clementine sta per partire: ritorna a est, delusa e amareggiata dal rifiuto di Doc. Earp la incrocia casualmente prima della partenza. Lo scambio tra i due è pieno di reticenze e, al solito, condito dall’impaccio di Wyatt: la donna, sebbene ben educata, lo punge sottolineando la sua scarsa conoscenza delle donne. L’uomo, vestito con l’eleganza della domenica, è d’accordo. E anche noi spettatori. La disinvolta spregiudicatezza di Doc e Chihuahua si riflette capovolta nella goffa tenerezza di Earp e Clementine. Suona una campana: la prima che risuona qui a Tombstone, dove non è mai stata eretta una chiesa. Clementine, improvvisamente, chiede a Wyatt di poterlo accompagnare alla prima funzione religiosa della città. Nelle due successive inquadrature si condensano numerosi simboli dell’opposizione identità/alterità. Esaminiamoli.

L’uomo e la donna si prendono sottobraccio e si avviano, lenti e solenni, verso la chiesa. Il passo è quello di due sposi che incedono verso l’altare. Ma il matrimonio non c’è: è una parvenza di cerimonia, e dunque una linea ideale distingue il matrimonio vero (rinviato a chissà quando) da quello che si sta svolgendo adesso. Per di più, il legame tra sceriffo e maestrina è segnato da un’altra significativa espressione di alterità: Clementine è la donna di un altro, la donna di Doc. L’uomo del West, impacciato e sconosciuto alle donne, vive con la civilizzata donna dell’East un simulacro di rito matrimoniale, un matrimonio altro, con la consapevolezza che la donna che tiene sottobraccio non è sua, ma appartiene ancora a un altro re (sia pure prossimo all’abdicazione). La sequenza è dunque un reticolo di limitazioni, di frontiere e dissociazioni. E le scelte stilistiche confermano l’interpretazione.

Il tragitto che conduce le due anime degli USA all’altare è diviso in due inquadrature – ancora il doppio. Nella prima, Wyatt e Clementine sono ripresi di fronte, in tutta la figura, mentre si avvicinano alla cinepresa. Sulla destra dello schermo osserviamo l’edificio scuro della boarding house, mentre sulla sinistra, in profondità, svetta maestosa una delle solite torri di pietra, impassibile e ben illuminata, simbolo di una natura in cui ancora non riecheggiano le campane della funzione religiosa. L’inquadratura successiva è costruita in modo speculare e simmetrico. Ora i due sposi ideali sono ripresi di schiena, mentre si allontanano: il venire da si è ora mutato in andare verso. Al centro dell’inquadratura, con le stesse dimensioni della torre di pietra che dominava l’immagine precedente, si staglia ora lo scheletro del campanile in costruzione, altrettanto illuminato. Lì dove si collocava l’arida assenza di Dio – la wilderness descritta come Devil’s Land dal poeta e pastore Michael Wigglesworth, a fine ‘600175 –, si edifica ora il segno inequivocabile della presenza divina. Una presenza evidentemente veicolata dall’azione dell’uomo (il campanile è ancora in cantiere, segno del suo carattere artificiale). Una                                                                                                                

presenza insieme civile e religiosa: una terza inquadratura provvede a chiarirlo, presentando, accanto al campanile, due bandiere a stelle e strisce sventolate dal vento.

Un coro, in cui si mescolano motivi patriottici e toni biblici, fa da tessuto connettivo, cementando il raccordo tra le due inquadrature, simmetriche e irrimediabilmente estranee, ricordandoci che la costruzione dell’identità americana affonda dunque le radici nella frontiera, nella separazione, nella dissociazione, nell’alterità: nelle innumerevoli declinazioni che l’antichissima logica 1/0 ha assunto nel corso dei secoli. Dalla Genesi ai pixel dell’immagine digitale.