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Come un turacciolo nell’acqua

JEAN RENOIR , PARTE SECONDA

1.2. Come un turacciolo nell’acqua

Abbiamo introdotto quest’ultimo capitolo della nostra ricerca, facendo riferimento a due aneddoti, tratti dalla biografia di Gustave Flaubert e Jean Renoir, nei quali il «sentimento oceanico», come senso di illimitatezza e di fusione, si richiama alla forte emozione di un bambino, che lo porta a perdere il controllo di sé, e a farsi la pipì addosso. Il sentimento oceanico e la pipì, dunque. Due condizioni estatiche, nelle quali l’elemento principale – in termini fisici o metaforici – sembra proprio essere il liquido. L’acqua.

In più di un’occasione, Jean Renoir, descrivendo la propria estetica o, con orizzonte più ampio, la propria filosofia di vita, si richiama a una metafora utilizzata spesso da suo padre Pierre-Auguste, secondo il quale, in arte, come nell’esistenza quotidiana, bisogna imparare a lasciarsi trasportare dalla vita, come un turacciolo nel fiume408. L’immagine è senza dubbio molto efficace, e sembra di facile e immediata interpretazione. Eppure, a ben riflettere, può presentare qualche punto oscuro, dando luogo a equivoci, soprattutto tenendo conto che la similitudine si riferisce al rapporto tra individuo e vita, e dunque tra uomo e natura – il territorio in cui ci stiamo muovendo da molte pagine.

Si può incorrere in equivoco in quanto, abitualmente, le due possibili alternative che la relazione Io/Altro sembra offrirci sono il rapporto di dominio – l’Io governa una materia che non riesce a resistergli –, o quello di sottomissione – l’Io accetta passivamente le leggi imposte dalla natura, come la ginestra china il capo di fronte al vulcano409. La proposta di Renoir sembra avvicinarsi a questa seconda opzione: la leggera impotenza di un tappo si sughero si adegua al movimento della corrente, e non si espone dunque al rischio di una lotta per il dominio che può rivelarsi fallimentare. Osservata da questa prospettiva, l’opposizione tra l’uomo di John Ford e quello di Jean Renoir sembra risolversi dunque in un confronto tra l’attivo civilizzatore armato di Colt, e il passivo, bonario uomo ordinario, che rinuncia saggiamente alla lotta, e segue docilmente il percorso delle cose.

La metafora del turacciolo, tuttavia, può avere un’ulteriore interpretazione, che ci conduce fino a tradizioni in apparenza molto distanti da quella in cui i nostri registi sono cresciuti. Si pensi ad esempio al Taoismo cinese, in cui l’acqua assume un valore metaforico importantissimo: è l’elemento più forte, dicono gli antichi maestri cinesi, proprio in virtù della sua mancanza di forma, che le consente di                                                                                                                

408 J. Renoir, Renoir, mio padre, cit., p. 77.

adattarsi alle altre. Un elemento, quindi, che, a quanto pare, condensa e risolve in sé l’opposizione tra dominante e dominato410. E se si vuole ricondurre la similitudine al più ristretto campo dell’arte, il suggerimento di Pierre-Auguste Renoir ci ricorda quella storia narrata nel Chuang-tzu411, uno dei testi fondamentali della tradizione taoista, che descrive un falegname che, dovendo lavorare il legno per costruire un oggetto commissionatogli dall’Imperatore, resta per giorni fermo, in silenzio, rinunciando al lavoro. A chi gli chiede il motivo di questa sua scelta bizzarra – che peraltro rischia di determinare un grave ritardo nella consegna –, l’artigiano spiega di aver atteso che i contorni dell’Io sfumassero, verso una condizione di fusione, continuità con il legno, in cui il rapporto tra soggetto e materia fosse dissolto. Raggiunta questa particolare unione con il materiale, l’artigiano procede con grande rapidità, e consegna all’Imperatore un oggetto realizzato magnificamente412. E così, raccontando a Louise Colet la particolare condizione estatica avvertita durante la redazione di Madame Bovary, Flaubert non afferma di scrivere di foglie, sole e cavalli, ma di essere la natura di cui la sua penna sta tracciando su un foglio la descrizione. Come l’acqua, che non ha forma e ne può assumere di infinite.

Chiunque abbia modo di scorrere la filmografia di Jean Renoir può cogliere con facilità il carattere liquido del suo cinema, anche senza aver letto i passaggi dell’autobiografia in cui il cineasta racconta di questa sottile e inesplicabile affinità.

Un elemento che senza dubbio ha influenzato la mia formazione in quanto autore di film è l’acqua. Non posso concepire il cinema senz’acqua. Nel movimento del film c’è un aspetto ineluttabile che lo accosta alla corrente dei ruscelli, allo scorrere dei fiumi. La mia è solo una poco abile spiegazione di una sensazione. In realtà i legami che collegano il cinema al fiume sono più sottili e forti perché inesplicabili413.

Il primo film diretto dal regista è La fille de l’eau, del 1924, con lunghe sequenze girate su un fiume, e una regia in costante navigazione, che influenzerà qualche anno più tardi Jean Vigo, nella realizzazione del suo capolavoro, L’Atalante (1934). Abbiamo già ampiamente chiarito quanto rilevante sia l’acqua in

Boudu, in Partie de campagne e in Swamp Water, opere dirette e realizzate quasi interamente a ridosso di un

ruscello, di un fiume o, nell’ultimo caso, una palude. All’inizio degli anni ’50, Renoir dirige in India il primo film successivo all’esperienza americana, The River (1951), in cui l’acqua assume un valore dichiaratamente filosofico, strettamente affine alla sacralità che gli indiani attribuiscono al Gange, vero protagonista della pellicola.

                                                                                                               

410 L.V. Arena, Vivere il Taoismo, Mondadori, Milano 1996, pp. 146-148. 411 Id. (a cura di), Chuang-tzu. Il vero libro di Nan-hua, Mondadori, Milano 1998.

412 Si tratta del metodo del wu-wei, «non azione», largamente presente nella filosofia taoista. Vedi L.V. Arena, Vivere il taoismo,

cit., pp. 132-133.

Ma al di là del riferimento diretto o della tematizzazione esplicita del valore di questo elemento naturale, nel cinema di Renoir si verificano continue, improvvise emersioni e immersioni nell’acqua, come si trattasse di una costante, incessante, piacevole ripetizione dell’episodio in cui, ancora bambino, di fronte alla magia del teatro, il piccolo Jean ha vissuto un momento di gioiosa incontinenza. Va tuttavia sottolineato che, sebbene la descrizione della condizione di estasi liquida che abbiamo ritrovato nel nostro cineasta come in Flaubert sembri riferirsi a un’esperienza comunque benefica, il simbolo dell’acqua nel cinema di Renoir non è affatto univoco, e dunque non univocamente positivo. E come potrebbe? L’univocità non si accorda affatto con l’incontinenza.

Si pensi ad esempio alla sequenza iniziale di The Woman on the Beach (1947), sesto e ultimo film hollywoodiano diretto dal regista. Un’opera che, a giudizio dell’autore, avrebbe potuto collocarsi bene trent’anni prima, tra il Caligari (Wiene, 1919) e Nosferatu (Murnau, 1922), ma che in realtà fu l’ennesimo insuccesso del Renoir americano, sia in termini di pubblico che in relazione alla produzione: ai dirigenti della RKO, già intervenuti durante la lavorazione con numerosi tagli, il film non piacque affatto, e dunque, ormai convinto della propria incompatibilità con lo Studio System, il cineasta decise di non girare più un metro di pellicola negli Stati Uniti414.

Non ci soffermeremo a lungo sull’opera, basterà solo dire che gli elementi principali della vicenda sono l’acqua, l’arte e il desiderio: Scott Burnettt (Robert Ryan), ufficiale della Guardia Costiera, soffre di un incubo ricorrente, in cui si ritrova sul fondo del mare, accanto al relitto di una nave affondata; lì incontra regolarmente una donna che somiglia molto alla sua fidanzata Eve (Nann Leslie). Durante una passeggiata mattutina su una spiaggia, Scott incontra Peggy (Joan Bennet), moglie di Tod (Charles Bickford), pittore non vedente. I quattro personaggi stabiliscono un rapporto fatto di tradimento, desiderio e dipendenza morbosa, in un film diretto interamente a ridosso del mare, in cui l’acqua assume un valore simbolico molto evidente.

Nei primi minuti del film, l’incubo ricorrente di Scott è descritto attraverso un montaggio che rinvia direttamente al cinema sperimentale francese degli anni ’20: il naufragio di una nave porta l’uomo ad affondare nelle profondità del mare, e la scena che mostra la discesa in un paesaggio onirico è montata al ralenti, piena di sovraimpressioni, dissolvenze incrociate molto lente e figure evanescenti che ricordano l’apparizione del fantasma di Juliette (Dita Parlo), nella celebre sequenza di L’Atalante, girata interamente sott’acqua.

Quel che ci interessa, di questo breve e significativo incubo, è la parte conclusiva: Scott, camminando sul fondo sabbioso dell’oceano, scorge una figura femminile, una donna molto bella e sorridente (come Eve, interpretata da Nann Leslie), che cammina verso di lui, richiedendo esplicitamente un abbraccio. Questo paesaggio, insieme interiore e fantascientifico, assume quindi un tono idilliaco, come luogo di un possibile appagamento pieno dei desideri inconsci. Eppure, mentre                                                                                                                

l’uomo e la donna si muovono desiderosi l’uno verso l’altra, Renoir dedica un dettaglio alle ossa umane e agli scheletri che Scott calpesta, camminando sul fondo del mare. L’acqua non è dunque un simbolo univoco, tutt’altro: il desiderio erotico, che l’attività onirica – come quella cinematografica – permette di esplicitare liberamente in immagine, contiene una contraddizione interna, i resti di uomini annegati e decomposti, che rinviano al riflesso oscuro di Eros, Thanatos, suo gemello antitetico e complementare.

L’incontinenza liquida rappresentata dall’acqua non è dunque portatrice di soluzioni ma di contraddizioni, secondo una filosofia che Renoir chiarirà ulteriormente qualche anno più tardi, nell’immagine conclusiva di The River, in cui una ripresa in movimento, dall’alto, ci mostra tre barche che navigano sul Gange, seguendo tre direzioni diverse, nella grande e irrisolvibile contraddizione rappresentata dal fiume.

La particolare affinità che lega il cinema all’acqua non è però specifica solo del nostro cineasta. Gilles Deleuze arriva a definirla come elemento caratteristico della scuola francese415, ed è difficile contraddirlo. In alcune sequenze di Finis Terrae (Jean Epstein, 1929), il movimento al ralenti del mare intercala con cadenza regolare e ipnotica la narrazione, come momento di sospensione insignificante del procedere del dramma; e così accade nel già citato La chute de la Maison Usher, in cui, sulle note di chitarra suonate dal protagonista, si avvia una sequenza di immagini, in apparenza del tutto scollegate dal percorso narrativo, che hanno come elementi comune l’acqua, il movimento delle onde, l’impalpabilità dei riflessi. Abbiamo già parlato di L’Atalante, ultima pellicola diretta da Jean Vigo, interamente filmata su una barca che viaggia su un fiume, e con una tecnica di ripresa e montaggio che ha nella transitorietà e nella deviazione il suo carattere più specifico. Si consideri, inoltre, Le Quai de

brumes (Marcel Carné, 1938), film che, soprattutto nei primi minuti, attraverso la nebbiosità di una

narrazione sfumata, restituisce il sapore delle esistenze marginali che abitano il racconto. Pensiamo, infine, all’inquadratura che, in Pierrot le fou (1965), Jean-Luc Godard rivolge a Ferdinand (Jean-Paul Belmondo) il quale, contro lo sfondo del mare, guardando in macchina, spiega che il cinema, come la scrittura fluida di James Joyce, non deve raccontare le cose, ma l’intervallo impalpabile che si apre tra le cose.

Nel primo capitolo di questa ricerca abbiamo fatto riferimento al concetto di sublime che, nel suo

Kritik der Urteilskraft, Immanuel Kant utilizza per definire un sentimento diverso dal bello, che il soggetto

avverte di fronte alla composta simmetria di un paesaggio o di un quadro. Il sublime porta con sé il senso della sproporzione, una sorta di dissonanza interiore che l’osservatore percepisce al cospetto di fenomeni che lo inducono ad avvertire la propria insufficienza416. Secondo la ripartizione proposta dal filosofo di Königsberg, il senso del sublime si distingue in dinamico e matematico: se il primo è dato dall’impatto che un uragano ha sulla piccolezza dell’uomo, che sperimenta così la propria impotenza di

                                                                                                               

415G. Deleuze, L’image-mouvement, cit., p. 59. 416 I. Kant, op. cit.