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Le due velocità del cinema

Esaminando la figura artistica di Jean Renoir, Giorgio De Vincenti effettua una riflessione che trascende i limiti della monografia dedicata al regista francese. Se l’interpretazione romantica e idealistica dell’artista lo ha descritto come titanico creatore di un’opera prodotta da una volontà unica, il Novecento ha effettuato una revisione di questa filosofia dell’arte, riconoscendo che un regista, un pittore, un compositore vanno osservati come punti di intersezione tra molteplici linee che li attraversano, provenienti dall’esterno, e che proseguono al di là di di essi87.

Negli anni ’60 il nascente cinema sudamericano, quello di Glauber Rocha, di Gutierrez Alea e Sanjinès, arriverà a radicalizzare questa posizione, fino alla proposta rivoluzionaria di riconoscere il film non già come opera di un regista, ma come voce dell’intero popolo88. La posizione che ci proponiamo di assumere, nell’esaminare le figure di Ford e Renoir, si colloca a metà strada tra l’individualismo ottocentesco e la visione collettiva del Cinema Nuevo. Un artista, in linea con quanto afferma De Vincenti, non è un genio isolato, ma nemmeno il prodotto anonimo di una collettività pienamente omogenea. In caso contrario, sarebbe arduo distinguere tra lo stile specifico di Marco Bellocchio e quello dei fratelli Vanzina; pur riconoscendo a entrambi una particolare modalità di declinazione della comune appartenenza alla cultura (cinematografica) italiana.

Una riflessione sull’estetica di John Ford e di Jean Renoir, a partire dalle peculiarità dei due sguardi, conduce quindi a un confronto tra la tradizione culturale cinematografica statunitense e quella francese. Non ci riferiamo solo agli espliciti contenuti di alcuni film diretti dai due autori, come La Marseillaise (1938) o Fort Apache (1949), in cui si fa riferimento diretto a eventi significativi rispettivamente della storia della Francia o degli USA (la Rivoluzione francese e le vicende del Generale Custer). Se Viktor Šklovskij sostiene che un artista è il punto di intersezione tra le innumerevoli linee che lo attraversano, e che ne definiscono l’identità89, le tracce di questo multiverso, insieme individuale e collettivo, vanno rinvenute anche nei piccoli dettagli dello stile di regia, nella durata che Renoir assegna a una singola inquadratura, nella particolare soluzione fotografica che Ford richiede a Gregg Toland, nel suono registrato in presa diretta o ridoppiato in studio.

                                                                                                               

87 G. De Vincenti, op. cit., p. 13. L’autore riprende l’interpretazione di V. Šklovskij, Iskusstvo kak priëm, in O teorii prozy, Mosca

1929, tr. it. L’arte come procedimento, in T. Todorov (a cura di), I formalisti russi, Einaudi, Torino 2003.

88 F. Casetti, Teorie del cinema 1945-1990, cit., pp. 89 sgg. 89 V. Šklovskij, op. cit.

L’interrogativo a cui abbiamo provato a rispondere in precedenza va dunque riformulato, e dobbiamo chiederci il perché di un confronto tra le due tradizioni cinematografiche, e tra le due memorie culturali, che così profondamente si riflettono nell’opera e nello sguardo dei due cineasti. Restando all’interno dell’orizzonte della storia del cinema, il legame tra Francia e Stati Uniti è profondo e profondamente conflittuale. Non è un caso che la tormentata relazione tra alcuni personaggi immaginati da Jean-Luc Godard – Michel e Patricia, in À bout de souffle (1960), o lo sceneggiatore Paul e il produttore Prokosch, in Le mépris (1963) – rinvii sempre a una irrisolvibile frattura che si consuma nella distanza tra la costa europea e quella americana dell’Atlantico. Le due tradizioni confliggono sin dalla nascita stessa del cinema: a chi attribuire la paternità della settima arte, ai Lumière di Besançon o a Thomas Edison, originario dell’Ohio?

Se il linguaggio cinematografico, nei primissimi anni di vita, è stato modellato dalle mani francesi di Lumière e Méliès, è negli Stati Uniti, con David W. Griffith, che esso guadagna autonomia dalla letteratura e dal teatro, e acquisisce quel carattere narrativo che, nei tanti mutamenti, si manterrà stabile per i successivi cento anni. Ed è ancora negli States, a Hollywood, che il cinema guadagnerà quella capacità di diffusione e penetrazione che ne farà la forma d’arte in cui meglio si è rispecchiato il Novecento.

Uno dei tanti possibili modi per raccontare, sintetizzare la sterminata memoria del linguaggio cinematografico è quella di descriverla come progressivo sviluppo che si distende lungo una linea orientata, fatta di tanti momenti ordinati in successione consequenziale. Ovviamente si tratta di una pericolosa semplificazione: il cinema, così come la storia, non è una figura geometrica a una sola dimensione. Nella stessa epoca convivono, si sovrappongono, si contraddicono esperienze, prospettive, soluzioni, scritture profondamente diverse; e anche il singolo autore, se costretto negli angusti confini di due pagine di manuale, oppone una giustificata resistenza. Se tuttavia vogliamo adottare, sia pure con molta cautela, l’interpretazione della storia del cinema come trasformazione, più o meno coerente e più o meno progressiva, di un linguaggio, il modello da seguire non può essere quello del treno che corre su un binario – ne abbiamo già intravisto i pericoli nelle scorse pagine –, ma muoverci, ancora una volta, sul doppio binario della contraddizione e del conflitto. E tracciare così l’identikit dei due volti della memoria del cinema.

A metà degli anni ‘10 del XX secolo, lo abbiamo appena ricordato, Griffith introduce nel linguaggio cinematografico alcune innovazioni – montaggio analitico, tecnica dei raccordi, etc. – che determinano il passaggio dal cosiddetto cinema primitivo a quello narrativo. Si tratta di una trasformazione che, nel giro di pochi anni, sarà eretta a sistema, dando vita a quello che la tradizione ha indicato col nome di «cinema americano classico», che ha avuto in Hollywood la sua capitale, ma il cui modello narrativo e produttivo si è presto diffuso in tutti gli angoli del mondo. Torneremo sulla fisionomia dell’industria cinematografica hollywoodiana. Basterà qui anticipare che il carattere fondamentale del cinema classico

è stato – e in fondo lo è ancora – la capacità di costruire un sistema ordinato, regolare e funzionale, dotato di un forte spirito di autoconservazione, che dunque si muova con cautela, cercando di mantenersi stabile attraverso gli inevitabili mutamenti che ogni forma di vita deve necessariamente vivere90.

Uno dei due binari della storia del cinema è quindi percorso da una locomotiva costruita nell’americanissima Hollywood: è un mezzo di trasporto solido, robusto, che procede con regolarità, nel modo più fluido possibile, condotto con straordinaria professionalità da macchinisti esperti e attenti, che garantiscono ai passeggeri un viaggio comodo e confortevole. Senza sbalzi, né apprensioni.

Spostiamoci ora sull’altro binario. Al sistema e all’ordine deve per necessità corrispondere un elemento destabilizzante, caotico, critico. E così, la solida e ottimistica avanzata del cinema classico lungo i binari del Novecento è accompagnata – disturbata, potremmo anche dire – dal movimento di un altro mezzo di trasporto, che procede in modo molto meno regolare, discontinuo, malsicuro; con improvvisi slanci entusiasti, a cui corrispondono lunghi periodi di silenzio e immersione. Si tratta del cinema delle innovazioni, delle avanguardie, di quella grande famiglia di artisti in diaspora che, in ogni epoca, hanno cercato, e cercano ancora, di posizionare la macchina da presa in punti inusuali, per guadagnare prospettive alternative da cui osservare la realtà.

La storia del cinema è ricchissima di esempi di viaggiatori che portano avanti il treno dell’innovazione. Si pensi, negli anni ‘20, alla scuola sovietica, o a quella espressionista tedesca (con buona pace di Aumont che ne nega l’esistenza91), ai già citati neorealisti italiani degli anni ‘40, alla scuola iraniana degli ultimi decenni. Se si può sostenere che in ogni terreno in cui il seme del cinema è stato piantato, lì è fiorita anche un’avanguardia – Giappone, Turchia, Africa subsahariana, Portogallo –, non crediamo però di forzare troppo la narrazione se affermiamo che il contesto culturale che con più forza e costanza ha dialogato e contraddetto la visione sistematica hollywoodiana è quello francese.

Potremmo elencare una nutrita serie di artisti e teorici del cinema che, sin dalle origini, hanno approfondito il linguaggio cinematografico, trasformandolo da semplice fenomeno di intrattenimento nella forma espressiva più originale degli ultimi secoli. Dulac, Epstein, Gance, L’Herbier, Vigo, Carné, Clair, Tati; e poi i giovani che appartengono al variopinto paesaggio della Nouvelle vague; e ancora i cineasti di origine extraeuropea, africana o asiatica, che hanno trovato nel contesto francese la loro consacrazione, Tsai Ming-liang o Abdellatif Kechiche, ad esempio. Percorrere la storia del cinema francese significa seguire il percorso della continua ricerca di una distonia: dal taglio nell’occhio surrealista, ai piani-sequenza di Renoir, ai disturbanti jump-cut di Godard; si tratta di innovazioni stilistiche determinanti per lo sviluppo dell’immagine in movimento, spesso recuperate dall’industria

                                                                                                               

90 D. Bordwell, J. Staiger, K. Thompson, op. cit. 91 J. Aumont, op. cit., pp. 152 sgg.

hollywoodiana stessa, e assorbite nel grande sistema del cinema classico, che, lo dicevamo poc’anzi, procede con attenzione, cercando nel cambiamento lo strumento per mantenere la propria stabilità.

John Ford e Jean Renoir sono, a nostro parere, due figure che rappresentano in modo eccezionalmente limpido le due anime del cinema, quella sistematica e quella a-sistematica: basterà ricordare che Ford è forse il regista in cui ripongono più fiducia i produttori hollywoodiani – è in grado di individuare sempre il punto giusto in cui posizionare la macchina da presa92 –, ed è dunque uno dei macchinisti più competenti tra quelli posti alla guida del treno di Hollywood. Dal canto suo, il collega francese è da Bazin (e non solo) indicato come colui che, grazie allo sguardo prolungato, largo e profondo della sua regia, ha annunciato la fine della tradizione classica, inaugurando la stagione del cinema moderno93.

Si potrebbe proseguire ancora con le considerazioni relative al confronto tra le due culture cinematografiche, osservate attraverso due esponenti così rappresentativi. Ci limiteremo a segnalarne un’ultima, che può fare da spunto per riflessioni ulteriori.

Nelle pagine dedicate al cinema prodotto in Francia tra le due guerre, Colin Crisp individua un’importante differenza nella configurazione delle industrie cinematografiche francese e americana. Se a Hollywood abbiamo un sistema produttivo regolamentato con minuziosa razionalità, omogeneo, articolato in processi di lavorazione ben collaudati, figure professionali chiaramente definite, divisione della produzione in generi, a garanzia di un altissimo livello di controllabilità della produzione e della distribuzione dei film, la Francia è invece caratterizzata da un paesaggio decisamente più frammentato, lacunoso, discontinuo, senz’altro privo di vera coesione, in cui opera una miriade di case di produzione – a volte nate e morte per realizzare un solo film –, con una modalità di lavorazione molto più vicina all’artigianato che all’industria94.

Questa differente fisionomia, che si riflette così bene nel cinema di Ford e Renoir, assume ancora una volta un valore duplice, nient’affatto univoco: se da una parte un’industria cinematografica debole fatica a formarsi un’identità chiara, e rischia di arrivare al confronto con il potere e con i governi priva della giusta coesione e della forza necessaria a ottenere lo spazio che alla cultura spetta di diritto95, è pur vero che il paesaggio frammentato della Francia del cinema artigianale ha offerto ai numerosi singoli artisti-artigiani quel grado di libertà di espressione che il sistema professionale e totalizzante degli studios difficilmente ha potuto garantire. Come vederemo, studiare il cinema di John Ford e Jean Renoir significherà parlare anche di come essi si sono mossi nei due differenti paesaggi, e di due diverse modalità di relazione con il sistema socio-politico in cui hanno operato.

                                                                                                               

92 L. Albano, Il canto di un gigante, in Ead. (a cura di), John Ford, Marsilio, Venezia 2011, p. 6. 93 A. Bazin, Qu’est-ce que le cinéma?, cit., p. 86.

94 C. Crisp, Genre, Myth, and Convention in the French Cinema, 1929-1939, Indiana University Press, Bloomington 2002, p. XIV. 95 F. Sojcher, Cinéma européen et identites culturelles, Editions de l’Université de Bruxelles, 1996, pp. 5 sgg.