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Percorrendo sentieri selvagg

Una volta individuati i luoghi e le figure professionali che hanno rappresentato le occasioni di un incontro reale, concreto, storicamente certificato tra Ford e Renoir, proveremo a muoverci più in profondità, cercando le ragioni di un possibile confronto tra i due cineasti, sia in relazione ai temi trattati nei numerosi film da loro diretti, sia nelle scelte stilistiche che li hanno resi così significativi e influenti nella storia del linguaggio cinematografico.

Scorrendo le filmografie di John Ford e Jean Renoir, balza immediatamente agli occhi che i due artisti hanno mantenuto un costante riferimento al confronto uomo/natura, con le tante declinazioni che i due termini possono assumere, tanto da poter affermare che la macchina da presa abbia rappresentato per entrambi il medium migliore per lanciare uno sguardo al di là della frontiera della civiltà, verso la natura selvaggia.

Si è già ricordato come il genere Western e John Ford siano indissolubilmente legati: è davvero difficile pensare all’uno senza l’altro. Sebbene il regista americano abbia diretto anche molte pellicole che non rientrano nell’ambito del più originale tra i generi del cinema americano, è proprio nel raccontare per immagini la conquista del West che lo stile di Ford si è espresso nel modo più esemplare. Douglas Pye, nel suo saggio del ’75, spiega come il cinema, attraverso le formule specifiche dei generi, permetta di riproporre e rielaborare i medesimi archetipi universali che facevano da sfondo alla tragedia greca78. E cos’è il Western se non la riproposizione – martellante e ossessiva, a volte – della rappresentazione del formarsi di una cultura, attraverso un continuo confronto/conflitto con il grande Altro della natura? Nello specifico, il Western cinematografico, in continuità con quello letterario che ha avuto successo in tutto il XIX secolo79, ha rielaborato questa opposizione archetipica inscrivendola nell’orizzonte del mito di fondazione della nazione statunitense, e dunque attingendo a tutta la retorica con cui, nel corso dell’Ottocento, politici e intellettuali hanno celebrato il movimento progressivo verso Ovest – si pensi al principio del Manifest Destiny di O’Sullivan80 –, e investito la frontiera americana di un valore fondativo81.

Dal canto suo, Jean Renoir, senza dubbio influenzato dall’arte paterna, lungo il corso della sua vita professionale effettua una continua problematizzazione del rapporto dello sguardo dell’uomo rivolto alla natura, mantenendo una maggiore e più esplicita attenzione alla contemporaneità, rispetto a quanto non faccia il collega americano. Ricche di valore simbolico sono sequenze come l’uscita di casa del borghese Lestingois per salvare il clochard prossimo al suicidio, in Boudu sauvé des eaux (1932); la scampagnata domenicale – un’altra uscita, questa volta dalle mura cittadine – effettuata dalla famigliola                                                                                                                

78 D. Pye, The Western (Genre and Movies), in B.K. Grant (ed.), Film Genre Reader, Texas University Press, Austin 1975, pp. 143-

158.

79 Il tema è trattato ampiamente in H. Nash Smith, Virgin Land: The American West as Symbol and Myth, Harvard University

Press, Cambridge 1971, in particolare nei capitoli VIII-X.

80 J.L. O’Sullivan, «Annexation», in United States Magazine and Democratic Review, Vol. XVII, n.1, August 1845. 81 F.J. Turner, The Frontier in American History, Henry Holt and Company, New York 1953.

del commericiante Dufour, in Partie de campagne (1936); la straordinaria e terribile sequenza della caccia, in La règle du jeu (1939), in cui il regista descrive con sobria spietatezza un gruppo di altolocati che, usciti (ancora una volta) dalle mura domestiche, penetrano nel bosco, e giocano a sterminare gli animali che lo popolano. Abbiamo già fatto riferimento alla natura seducente e pericolosa che attraeva Renoir durante la lavorazione di Swamp Water, la prima pellicola diretta al di là dell’Atlantico. Ma è con The

Southerner (1945) che si può affermare che l’estetica del cineasta francese stabilisca un contatto diretto

con quella di John Ford: conquistata maggiore libertà di movimento, rispetto ai due precedenti film girati a Hollywood, Renoir decide di raccontare la vicenda di un giovane agricoltore che, con la sua famiglia, vive una lotta tormentata con la durezza della natura texana. Uno dei maestri del cinema europeo inquadra la più rappresentativa tra le figure dell’immaginario americano: il farmer che cerca di sottomettere la wilderness. Su alcuni passaggi di questo film dovremo necessariamente soffermarci a lungo.

La battaglia tra Sam Tucker (Zachary Scott) e l’inclemenza del paesaggio texano ci permette di definire altre due figure proprie del cinema dei due autori: la prima è la frontiera; l’altra, strettamente legata all’idea di confine, è quella che potremmo definire «uomo della wilderness», un personaggio la cui esistenza si svolge sulla sottile linea di confine che idealmente separa cultura e natura, e che con entrambe mantiene contemporaneamente un rapporto di appartenenza e di insofferente estraneità.

I protagonisti di Ford sono tutti figure mitiche collocate a metà strada tra il cittadino civilizzato e il nomade selvaggio. Con straordinaria frequenza, i personaggi interpretati da John Wayne fanno la loro comparsa non appena un gruppo di cittadini ha varcato la soglia della civiltà, allontanandosi dalla città (come in Stagecoach); oppure sono pistoleri tragici che rientrano in casa dopo aver vagato per un tempo indefinito nei luoghi pericolosi della Devil’s Land82, come Ethan in The Searchers (1956). In quanto ibridi, irrisolti prodotti del difficile incontro tra la progettualità umana e il carattere primitivo della natura, questi uomini bellicosi, più o meno consapevolmente, ne rappresentano la problematizzazione.

Seguendo percorsi diversi, Renoir gioca con le stesse figure. In gran parte dei suoi film ritroviamo l’amicizia/opposizione tra due personaggi collocati, per così dire, al di qua e al di là della frontiera. Lestingois e Boudu, nel già citato film del ’32; Pepèl e il barone, in Les Bas-fonds (1936); Maréchal e De Boëldieu, in La grande illusion (1937); Ben Ragan e Tom Keefer, in Swamp Water83. Come vedremo, il cineasta francese elabora questa dissociazione con una scrittura meno netta e contrastata di quanto non faccia Ford, inquadrando la frontiera che distingue i due volti dell’umano proprio nei punti dove il

                                                                                                               

82 H. Nash Smith, op. cit., p. 4.

83 Giorgio De Vincenti, nel saggio Jean Renoir. La vita, i film (Marsilio, Venezia 1996), sottolinea in numerose occasioni la

ricorrenza dell’opposizione borghese/vagabondo, nelle sue tante declinazioni, presente nell’intera filmografia del cineasta francese.

confine si fa più sfumato e sfuggente, in linea con la lezione dell’Impressionismo pittorico di fine Ottocento, e di quello cinematografico degli anni ’2084.

Ferma restando questa importante distinzione – che dallo stile procede fino a una vera e propria differenza di prospettiva filosofica –, va però sottolineato come per entrambi i cineasti la linea di demarcazione che distingue convenzionalmente la cultura dalla natura non è solo una figura collocata all’esterno del personaggio, in una specifica posizione storica e geografica; la dissociazione – esaltante e tragicamente dolorosa – attraversa internamente i personaggi descritti dai due registi, determinando un conflitto interiore che si configura come motore e alimento del cinema di entrambi, e che ha portato Jean-Loup Burget e Fabio Troncarelli a riconoscere affinità tra l’opera di John Ford e quella di William Shakespeare85, e André Bazin a parlare di Renoir come di un artista primariamente morale86.

I protagonisti della nostra storia, dunque, lavorano con le stesse figure, o con figure simili, si aggirano negli stessi territori o in regioni adiacenti, lavorando su una materia che, come abbiamo visto, assume portata universale, coinvolgendo gli archetipi stessi del nostro immaginario. Il motivo per cui può risultare interessante effettuare un confronto tra le due angolazioni che Renoir e Ford scelgono per inquadrare ciò che si colloca oltre la frontiera è che, al di là delle affinità fin qui segnalate, si tratta indubbiamente di punti di vista nettamente diversi. Questa, naturalmente, può apparire come un’affermazione di disarmante banalità: tutti i cineasti, gli artisti, gli individui, in quanto entità finite e irripetibili, hanno per necessità un proprio, personale angolo visuale da cui osservano e interpretano il mondo. Il cupo pessimismo con cui Herzog guarda l’indifferenza del grizzly (Grizzly Man, 2006) non è lo stesso con cui Murnau osserva l’impotenza dell’uomo di fronte al tabù (Tabù, 1932), e non è nemmeno l’incanto di Malick che descrive la fluida pulizia della natura, ancora incontaminata e primitiva (The New World, 2005).

Tuttavia, ciò che di specifico si può individuare nello sguardo dei registi che abbiamo scelto, e nelle differenze importanti che distinguono stile e Weltanschauung di entrambi, è che, a una lettura attenta, vi si possono ritrovare le dissociazioni, le dicotomie, le opposizioni che in precedenza abbiamo presentato come componenti essenziali della visione sfocata e della schizofrenia originaria del mezzo cinematografico – e dunque della cultura che ha prodotto e fatto uso di questo medium. John Ford e Jean Renoir, dunque, si configurano come espressioni esemplari di una inguaribile antitesi contenuta nell’arte cinematografica stessa; ossia, come paradigmi di due disposizioni, antitetiche e complementari, dello sguardo umano di fronte al mistero.

Il nostro discorso dovrà per necessità eccedere di continuo dai limiti dell’orizzonte visuale del singolo artista, rinviando direttamente alla cultura che lo ha cresciuto e di cui si è alimentato, portandoci                                                                                                                

84 R. Durgnat, op. cit., pp. 224 sgg.

85 J.L. Burget, John Ford, Éditions Rivages, Paris 1990, trad. it. John Ford, Le Mani, Genova 1994, pp. 98 sgg. Il confronto

Ford/Shakespeare è il tema principale del saggio di F. Troncarelli, Le maschere della malinconia. John Ford tra Shakespeare e Hollywood, Dedalo, Bari 1994.

così a condurre un confronto tra due contesti culturali (non solo cinematografici, naturalmente) senza dubbio ben distinti, ma, come vedremo, così strettamente connessi da apparire come riflessi della duplicazione della stessa figura, come due ritratti dello stesso viso, o due copie di un originale perduto.