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Due statue che si guardano

Sullo sfondo del confronto tra i due cineasti che guardano al di là della frontiera, e delle due tradizioni cinematografiche in cui entrambi sono stati allevati, possiamo scorgere il grande tema dell’incontro tra due culture, quella statunitense e quella francese. Due contesti culturali separati dalle acque dell’Atlantico, ma con radici che affondano nel medesimo terreno.

Lo studioso di Letterature comparate Armando Gnisci ci offre subito uno spunto utile per il nostro percorso, affermando che, sin dalle sue origini, l’America è già immagine96, è già una figura dell’immaginario. O una poesia, per riprendere le parole del filosofo trascendentalista Ralph Waldo Emerson, che dichiara solennemente: «America is a poem in our eyes»97. Il poeta William Carlos Williams ha una visione meno idilliaca, ma tutto sommato attinente, quando individua l’origine della cultura americana nel senso di estraneità vissuto da chi abita la terra altrui. «No, we are not Indians, but we are men of their world»98. L’America come immagine, dunque, e come poema negli occhi. Gli occhi di chi? A chi appartiene questa immagine? A chi appartengono gli occhi velati dai versi di una poesia che si chiama America? Un’immagine poetica proiettata su una terra estranea, altrui.

Il primo personaggio a chiedersi «What is an American?», sul finire del XVIII secolo, fu un uomo nato in Normandia nel 1735, Michel Guillaime Jean de Crèvecœur, e la raccolta di scritti in cui è contenuta la domanda che egli rivolge alla storia ha il titolo di Letters form an American Farmer99. Il primo attore che interpreta il ruolo più rappresentativo della nuova società inaugurata al di là dell’Atlantico, il primo farmer, è dunque un francese. Più vecchio di circa un secolo e mezzo dell’agricoltore texano che combatte con la natura indifferente, nel terzo film americano di Renoir.

Le figure e le maschere si confondono, dunque, e, restringendo l’inquadraduta, ci accorgiamo quanta poca nettezza vi sia nel confine che separa le due culture – è un confine liquido, dopotutto, una enorme distesa liquida. Non è forse vero che l’evento tra i più clamorosi che hanno segnato la storia d’Europa, la Rivoluzione francese del 1789, ha tratto ispirazione da quella americana, che la precede di pochi anni? E non è altrettanto vero che la Rivoluzione americana, che consente alle colonie di liberarsi dal giogo della madrepatria inglese, produce una costituzione in cui si incarna – o vuole incarnarsi – lo spirito dell’Illuminismo europeo settecentesco?100

Illuminismo. Enlightenment. Un fascio di luce razionale proiettato per dissipare le ombre, i fantasmi del passato, i residui, le superstizioni, l’irrazionalità feudale. Ma si tratta anche di un fascio di luce che, come il primo cinematografo, proietta sullo schermo i fantasmi e le immagini partorite dalla memoria di                                                                                                                

96 A. Gnisci, Da noialtri europei a noitutti insieme, Bulzoni, Roma 2002, p. 23. 97 R.W. Emerson, Emerson’s Essays, Ed. Sherman Paul, London 1980, p. 224. 98 W.C. Williams, In the American Grain, New Directions, New York 2004.

99 J.H.St.J. de Crèvecœur, Letters form an American Farmer, Lettera III, Oxford University Press, Oxford 1999, p. 42. 100 O. Bergamini, Storia degli Stati Uniti, Laterza, Bari-Roma 2010, pp. 26 sgg.

quello che Edgar Morin chiama «uomo immaginario»101. Nel 1886, al centro della baia di Manhattan, nella città di New York, viene inaugurata la Statua della Libertà, il monumento simbolo dello spirito americano, progettato dall’architetto francese – ancora un francese – Frédéric Auguste Bartholdi. Tre anni più tardi, in prossimità del pont de Grenelle, a Parigi, fa la sua comparsa una copia della statua, di dimensioni ridotte; è rivolta verso l’Oceano Atlantico, e guarda dunque idealmente negli occhi la sorella maggiore newyorchese. Entrambe hanno il braccio sollevato, mantenendo alta la fiaccola della libertà. La luce della libertà. Una luce che può virtualmente illuminare il mondo intero, dissolvendo ogni ombra.

Quel che distingue le due rivoluzioni di fine Settecento, quella americana e quella francese, dalle due inglesi del secolo precedente – durante le quali si è comunque tagliata la testa a un re, Carlo I Stuart –, è la vocazione universalistica contenuta nel messaggio che esse annunciano al mondo. La volontà di abbattere le vecchie strutture, e di procedere a un rinnovamento radicale della società sotto l’egida della democratica dea Ragione, non riguarda solo il ristretto ambito di una condizione socio-politica particolare e circoscritta, ma si trasforma in una fiaccola sufficientemente potente da illuminare tutte le nazioni del mondo, proiettate verso una liberazione futura102.

L’universalismo della razionalità illuminista, tradotto dai rivoluzionari in battaglie, sangue e articoli di legge, si interseca così con i simboli in cui si snoda la storia della cultura americana, fortemente imbevuta di suggestioni bibliche: si pensi alla metafore della «city upon a hill» e del beacon – il faro –, adoperate da John Winthrop, sulla nave che lo conduceva in America, nel 1630, per descrivere una nascente società che avrebbe indicato alla comunità mondiale la via verso il futuro, verso la Civitas Dei; si tratta di simboli, metafore, narrazioni che percorrono e pervadono l’intera storia statunitense, e che ancora John F. Kennedy, nel 1961, adopera nel discorso pronunciato davanti alla General Court of the

Commonwealth of Massachusetts103.

Se l’episodio del discorso pronunciato dall’europeo John Winthrop, teologo e politico, sulla nave

Arbella, fosse solo il passaggio di un film da recensire, il dettaglio simbolico su cui indirezzeremmo

immediatamente l’attenzione dello spettatore è proprio la sequenza in cui il predicatore, futuro governatore del Massachusetts, pronuncia un discorso che assumerà valore fondativo per la nascente cultura nordamericana, tratteggiando l’immagine suggestiva di una nuova città ideale, che faccia da modello di carità cristiana per l’intera comunità mondiale; e lo fa sulle acque dell’oceano, sull’imbarcazione che lo conduce in America. Prima di atterrare. Prima di incontrare l’America.

Gli occhi di un predicatore europeo, prima ancora di impattare nella durezza di una terra nuova, di una terra altrui – per dirla con Williams –, sono riempiti, velati dalla visione poetica di un nuovo mondo                                                                                                                

101 E. Morin, Le cinéma ou l’homme imaginaire. Essay d’anthropologie sociologique, Minuit, Paris 1956. 102 I. Moschini, Il grande cerchio, Le Lettere, Firenze 2014, pp. 38 sgg.

luminoso che sostituisca, ripulisca le oscurità del vecchio. È dunque l’Europa che proietta sullo schermo di un continente sconosciuto le figure del proprio immaginario.

Nelle prime pagine del suo saggio sull’immaginario americano, Ilaria Moschini descrive con cura come, nei decenni a cavallo tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo, la pubblicistica diffondesse illustrazioni con immagini idilliache che raffiguravano l’America, o, per essere più precisi, l’immagine paradisiaca che dell’America si erano formati gli europei, per tutto il Cinquecento; il luogo dove Adamo ed Eva avrebbero recuperato il loro posto nel Paradise Lost104. Il Nuovo Mondo è dunque «una dimensione esistenziale, prima che territoriale»105, conclude Moschini. Una dimensione esistenziale europea, proiettata sul territorio americano.

L’ostinazione di Renoir, che vuole viaggiare fino alla Georgia per osservarne la natura primitiva e imprevista, prima di proiettarle addosso le figure immaginate dagli sceneggiatori; e la fermezza di Zanuck, che preferisce ricostruirne il simulacro in studio, dove uilizzerà tutto quello che della Georgia può servire per fare della sceneggiatura un film; queste due modalità di comportamento, questi due metodi di gestione dell’immaginario, rappresentano la biforcazione di un’unica dimensione esistenziale, quella europea, di matrice borghese e illuminista.

In che punto avviene la biforcazione? Dove puntare l’obbiettivo, per individuare il discrimine tra i due volti dell’Europa, dislocati al di qua e al di là dell’Atlantico? Il 12 luglio del 1893, durante un meeting della American Historical Association svoltosi a Chicago, nell’ambito della World Columbian Exposition, Frederick J. Turner pronuncia un celebre discorso, denso di significato per l’intera storia americana (ed europea), e preziosissimo per il percorso che stiamo svolgendo.

La concezione della frontiera americana, dice lo storico, è diversa da quella europea. Radicalmente, sostanzialmente diversa. Se nel Vecchio Continente essa è concepita come linea di confine che attraversa e separa due stati – due regioni abitate da popolazioni comunque civilizzate –, la frontiera americana si apre invece sulla straordinaria estensione di una «free land». Si tratta, pertanto, di una frontiera elastica, in movimento. In perenne progresso, potremmo dire. Ed è proprio grazie a questa concezione rinnovata del concetto di frontiera che il germe europeo si sviluppa nell’environment americano, sostiene Turner106.

È forse questo il punto d’origine della biforcazione? Una nuova interpretazione della frontiera. Quella al di là della quale si sporge John Wayne, mentre il suo compagno esclama «It looks like Hell!», in Fort Apache (1949); quella – diversa, per Turner – che separa la Germania in guerra dalla neutrale Svizzera, e che Jean Gabin non riesce a vedere, nella sequenza finale de La grande illusion (1937), mentre il suo compagno ebreo esclama ironico: «La nature s’en fout!».

                                                                                                               

104 Ibid., p. 1 sgg. 105 Ibid., p. 10. 106 F.J. Turner, op. cit.

Nei prossimi capitoli approfondiremo la questione, che si presenta già adesso come snodo cruciale della ricerca, e ci soffermeremo su quella concezione di uomo nuovo che, nel processo di autorappresentazione, vive una rebirth, una rigenerazione dovuta all’incontro con una terra libera, evidentemente impregnata di sacralità. Quello stesso incontro che, nelle parole di Williams, provoca l’angosciosa amarezza di trovarsi in una terra altrui.

Se, dunque, è nel ventre di una Virgin Land fecondato dall’idea europea che può sorgere quest’uomo nuovo, attraverso lo sguardo di John Ford e Jean Renoir cercheremo di capire in che misura questa fecondazione sia il risultato di un atto d’amore o di uno stupro.