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JOHN FORD , PARTE PRIMA

1. La linea di fuga

1.1. Diritto alla felicità

Le sequenze costruite intorno a figure femminili che osservano cavalieri erranti che varcano uno steccato affollano i film di John Ford. A più riprese il cliché è riproposto in The Searchers (1956), quando gli uomini, guidati da Ethan Edwards (John Wayne), si avviano verso il pericoloso territorio dei Comanche. E così si conclude anche Grapes of Wrath (1940), quando Mà Joad (Jane Darwell), la solida donna che sostiene la famiglia nel tragitto tormentato della ricostruzione che segue alla Grande Depressione, osserva il figlio Tom (Henry Fonda) scavalcare gli steccati, e allontanarsi verso la costruzione di un possibile futuro migliore.

La rappresentazione che l’America offre di sé, ci dice Armando Gnisci, si caratterizza come quella di una società a venire, dove gli eventi sembrano accadere nel futuro109. Si tratta di un paradigma rappresentativo che riconosciamo nell’immaginario cinematografico, nella retorica dei politici, nella lirica dei poeti. Si pensi alla configurazione che il tempo assume in Passage to India, di Walt Whitman: il poeta osserva e ascolta esaltato locomotive, passeggeri e scienza, mentre «rushing and roaring» si muovono verso l’avvenire, e avverte il binario del progresso come la traiettoria di un proiettile scagliato dal passato verso il futuro110. O, se si vuole passare dalla lirica alla prosa, si legga William Gilpin, scrittore e politico tra i più influenti del XIX secolo, fervente promotore del movimento westward, che descrive il cammino della società americana con il tono misticheggiante che pervade l’intero Ottocento americano: la missione che Dio e la storia hanno affidato agli Stati Uniti, scrive Gilpin, si distende lungo la linea che congiunge idealmente (e tecnologicamente, potremmo aggiungere) la costa atlantica a quella                                                                                                                

109 A. Gnisci, op. cit., p. 114.

pacifica, determinando la progressiva dissoluzione della tirannia e la rigenerazione dell’intera specie umana111. È naturale che una simile concezione del tempo, come figura geometrica a una dimensione – per riprendere Herbert Marcuse112 –, determini una coerente interpretazione dello spazio.

Nel 1795, Nicolas de Condorcet pubblica a Parigi il suo Esquisse d'un tableau historique des progres de

l'esprit humain. Il saggio viene presto tradotto in inglese, e conosce una notevole diffusione in America, a

testimonianza di quella particolare affinità tra Stati Uniti e Illuminismo francese che abbiamo discusso nel capitolo precedente. Nel testo, Condorcet descrive i vari stadi della civiltà, procedendo dalla barbarie fino a quello che potremmo definire illuminismo universale113. Nella giovane società statunitense, la filosofia della storia proposta dal francese è accolta nell’ambito di nuove teorie riguardanti il progresso: William Darby, ad esempio, compila la sua Emigrants guide nel 1818, affermando che in America, a differenza di quanto accade nel Vecchio Continente, la progressiva stratificazione delle epoche dello spirito si esprime spazialmente. Partendo da New Orleans, e viaggiando verso occidente, si può arrivare fino alla condizione primitiva dell’uomo, dopo aver attraversato tutte le età del progressivo sviluppo della civiltà114. Thomas Jefferson stesso, terzo presidente degli Stati Uniti, nonché principale autore della Declaration of Indipendence, commentando l’incontro con Adam Hodgson, al termine di un viaggio da questi compiuto da ovest a est, sottolinea come nel territorio racchiuso tra le due coste siano contenute tutte le fasi dell’evoluzione umana, dall’infanzia fino al grado sommo di civilizzazione115. E così Francisco Berrian, protagonista di un racconto di Timothy Flint, pubblicato nel 1826, giunto in Texas dalla Louisiana, può affermare di aver percorso seicento anni in pochi giorni116. Un binario o un proiettile sparati dall’Atlantico verso il Pacifico. Lungo il percorso graduale della

civilization.

Gli autori di monografie dedicate a John Ford sono soliti sostenere che la produzione migliore del cineasta sia quella che va dagli anni ’30 ai ’60, e probabilmente non sbagliano. Proviamo però a muoverci in direzione opposta, arretrando di qualche passo, fino al 1924, in pieno cinema muto, quando il regista gira il suo primo film di grande successo, una pellicola che gli permetterà di affermarsi nella giovane Hollywood per la sua grande abilità a girare in esterni, nei suggestivi paesaggi del West:

The Iron Horse. La pellicola sembra pensata appositamente per la nostra ricerca, perché racconta l’epopea

della costruzione della prima linea ferroviara transcontinentale, negli anni ’60 del XIX secolo. Cominciamo con la descrizione, il più breve possibile, della trama piuttosto complessa.

                                                                                                               

111 W. Gilpin, The Central Gold Region. The Grain, Pastoral and Gold Regions of North America, Sower, Barnes & Co., Philadelphia

and St. Louis, 1860, pp 132-133.

112 H. Marcuse, One-Dimensional Man: Studies in the Ideology of Advanced Industrial Society, Beacon Press, Boston 1964, tr. it.

L’uomo a una dimensione. L'ideologia della società industriale avanzata, Einaudi, Torino 1967.

113 N. de Condorcet, Esquisse d'un tableau historique des progres de l'esprit humain, Paris 1795.

114 W. Darby, The Emigrant's Guide to the Western and Southwestern States and Territories, Kirk and Merein, New York 1818, pp.

61-62.

115 T. Jefferson, Writings, Taylor & Maury, Washington 1853-54, pp. 377-378. 116 T. Flint, Francis Berrian; or, The Mexican Patriot, Gale, Sabin Americana 2012, p. 39.

La vicenda prende avvio intorno alla metà del secolo, in Illinois, da dove il piccolo David Brandon (Winston Miller) parte, insieme al padre topografo, in direzione West: David Senior (James Gordon) sogna infatti una linea ferroviaria transcontinentale, e si mette in viaggio lungo le rotaie della sua immaginazione. Per seguire il sogno paterno, il ragazzo è costretto a lasciare la piccola Miriam Marsh (Peggy Cartwright), la giovane figlia di un imprenditore (Will Walling): i due si amano teneramente, ma il loro sentimento è bruscamente interrotto dalla partenza forzata. Durante il viaggio, i due Brandon vengono assaliti da un gruppo di Cheyenne, il cui capo (che in realtà viene riconosciuto come bianco camuffato) uccide il padre di David, lasciando il ragazzo solo e abbandonato a se stesso. Trascorrono molti anni. Il sogno di Brandon è ora un progetto concreto: la ferrovia è in lavorazione, e l’imprenditore Marsh (il padre di Miriam) presiede la Union Pacific, compagnia incaricata della costruzione del tratto tra il Nebraska e lo Utah. Miriam, ora donna (Madge Bellamy), è fidanzata con Jesson (Chiryl Chadwick), ingegnere al servizio del padre. Alla costruzione di questa imponente linea lavora un gruppo nutrito di vivaci e ottimisti operai, la gran parte di origine irlandese, che devono quotidianamente affrontare una gran quantità di avversità: l’inclemenza della natura selvaggia e le incursioni dei cosiddetti Indians, i nativi, aggravano notevolmente le già difficili operazioni di costruzione delle rotaie. Ci si mette, però, anche la malvagità di chi prepone il proprio interesse allo sviluppo collettivo: il ricco possidente Deroux (Fred Kohler) fa di tutto per impedire alla ferrovia di seguire un percorso lineare, suggerendo a Marsh e Jesson una vantaggiosa (ma solo per lui) deviazione nelle sue terre. Il destino (o la Provvidenza) impedisce tuttavia che gli obiettivi egoistici di Deroux si realizzino: David Brandon (ora interpretato da George O’Brian) ricompare fortunosamente nella nostra storia. Dopo aver svolto per anni il lavoro di Pony Express, il giovane interseca casualmente il percorso della ferrovia, e suggerisce a Marsh una scorciatoia, uno shorter pass – quello individuato col padre anni prima, il giorno dell’assassinio – che consenta alle rotaie di proseguire, rapide e lineari, verso la costa. Naturalmente il feroce imprenditore fa di tutto per impedire a David di indicare alla Union una via più breve per il progresso, e cerca di eliminarlo con la complicità di Jesson, geloso del rifiorito amore tra David e Miriam. Il giovane eroe riesce comunque nell’intento, e dunque a Deroux non rimane che scatenare un gruppo di agguerriti Cheyenne: questi aggrediscono i lavoratori, li accerchiano, e rischiano di interrompere definitivamente il progredire della «civiltà», se non fosse che l’intera cittadina di Cheyenne City, costituita da immigrati irlandesi, cinesi, italiani (un po’ riluttanti, questi ultimi), si anima e corre in aiuto degli operai. Il pericolo è scongiurato; mentre David e Deroux si lanciano in un duello mortale, Brandon riconosce nel malvagio possidente il falso Cheyenne che lo ha privato del padre. La pellicola si conclude nel momento in cui le due compagnie ferroviarie, la Central e la Union – una proveniente dall’East, l’altra dal West – si congiungono, e un rappresentante del governo pianta l’ultimo chiodo dorato: il sogno di David Senior diviene finalmente realtà.

Le due ore e venti di narrazione scorrono sorvegliate dallo sguardo paterno e rassicurante di Abraham Lincoln (interpretato da Charles E. Bull), il quale, nei primi minuti della pellicola, è un semplice avvocato che riconosce la realizzabilità del sogno di Brandon; a metà film è il Presidente che firma l’autorizzazione a trasformare il sogno in realtà; a conclusione del racconto figura come dedicatario dell’opera: sull’immagine del suo busto bianco compare la solenne frase: «His Truth is marching on».

La semplice e sommaria esposizione del plot spiega perché il film, in cui sono anticipate molte delle figure del cinema più maturo di John Ford, risulti molto prezioso per la nostra ricerca: la narrazione attinge direttamente dall’immaginario americano ottocentesco. La Verità marcia con la spedita regolarità di un treno. Con la velocità della luce proiettata da un faro, o da una fiaccola. Da un beacon. Dallo sguardo luminoso di Lincoln.

Non si creda tuttavia che la linearità del percorso del progresso descritto dal regista sia priva di discontinuità e contraddizioni. Jean-Loup Burget ci mette in guardia da questa interpretazione semplicistica: la concezione della storia di Ford è, a suo giudizio, del tutto simile a quella di De Gaulle e Churchill, ossia una visione agonistica, tanto sul piano individuale che su quello collettivo117. Mentre David W. Griffith può essere in qualche misura definito nostalgico o passatista, il cineasta Western assume una posizione progressista e dialettica: la donna (rappresentante della pace) ama il guerriero (il divenire dinamico), e dal loro conflitto/amore si sviluppa il percorso della storia, progressivo, certo, ma anche tragico118. E altri autori come Fabio Troncarelli ammoniscono coloro che leggono Ford come autore monolitico, giacché un esame più accurato dei suoi film può permettere di rilevare il carattere aperto che si nasconde in ogni immagine, e il fitto, complesso tessuto che soggiace a un percorso solo in apparenza lineare119. Non a caso entrambi gli autori, lo abbiamo già accennato, accostano il cinema fordiano alla conflittualità che pervade il teatro tragico di William Shakespeare. Proviamo allora a seguire gli ammonimenti di questi studiosi, e cerchiamo di inquadrare il tragico, identificare ciò che contraddice il percorso lineare del progresso, e, dunque, una visione monolitica e riduttiva della poetica e dell’estetica di Ford.

Dobbiamo per necessità partire da una constatazione piuttosto ovvia, ma utile: un film, in quanto opera d’arte, si può sviluppare solo a partire da un conflitto. Accade in musica (la sequenza degli accordi di un brano trae origine da una deviazione dalla tonica, e si sviluppa nella continua ricerca di un ritorno alla tonica); accade nelle più semplici fiabe: l’ordine iniziale si rompe, e il passaggio provvisorio nel caos consente il raggiungimento di un ordine nuovo, insieme ripristino e rinnovamento di quello iniziale120. E accade nel cinema. L’arroseur arrosé (1895) dei Lumière, che potremmo indicare come prima                                                                                                                

117 J.L. Burget, op. cit., p. 20. 118 Ibid., p. 28.

119 F. Troncarelli, op. cit., p. 10 sgg.

opera di finzione cinematografica, è una gag straordinariamente semplice, ma nei suoi cinquanta secondi ci presenta tutti i passaggi in cui si articola una tragedia greca: il giardiniere sta innaffiando serenamente le sue piante, il monello entra in campo e lo disturba con uno scherzo, il giardiniere lo insegue, lo acchiappa, ci consente di vivere la catarsi della punizione, infine riprende a innaffiare il giardino, di nuovo sereno, ma forse più consapevole del rischio che i monelli possano aggredirlo alle spalle.

Immaginare una storia senza conflitto, priva del suo carattere agonistico, significherebbe annullare la storia stessa: suonare solo una nota (la tonica), o filmare per un minuto un giardiniere sereno che innaffia l’Eden. Il pubblico va via. È dunque necessario che John Ford ponga ostacoli lungo il tragitto di costruzione del binario della transcontinentale, e lungo le rotaie della narrazione. David Bordwell ci chiarisce come la stesura di una sceneggiatura, nel cinema classico, si sviluppi proprio a partire dal confronto agonistico tra presente e futuro: il protagonista, con cui lo spettatore è chiamato a identificarsi, pone a una certa distanza da sé un obiettivo. La storia è data dal tragitto che si distende lungo la linea di fuga che unisce l’eroe a questo obiettivo121. Il percorso, tuttavia, non va concepito con troppa fluidità, ma deve necessariamente presentare un certo grado di resistenza, un buon numero di ostacoli che impediscano per un’ora e mezza il raggiungimento della meta; in caso contrario, di nuovo, il pubblico si annoia, si alza e abbandona la sala. Gli innumerevoli ostacoli – la fitta complessità di cui parla Troncarelli – devono corrompere, sia pure provvisoriamente, la linearità dello sviluppo narrativo. A ogni passo allo spettatore è suggerita una domanda: «Il protagonista riuscirà o no? David Brandon riuscirà a uccidere Deroux o no?» La linea si biforca. La verità di Lincoln diviene biforcuta, come la menzogna. Ma è solo un passaggio: allo spettatore si rivela presto come solo uno dei due sentieri sia quello giusto; l’eroe si avvia così lungo quella strada, e in questa continua battaglia tra verità e menzogna, tra luce e ombra, si articola il percorso di avvicinamento alla meta, alla costa pacifica dell’America122.

Qual è dunque l’ostacolo, la deviazione, il momento di alienazione che il percorso lineare della trascontinentale vive, prima che il chiodo dorato dell’unione sia piantato, sotto lo sguardo benevolo di Lincoln? In cosa consiste la frattura? La risposta sembra semplice: l’attraversamento del «selvaggio», inteso nella sua duplice accezione. È il binario che deve attraversare una terra selvaggia, ed è il selvaggio che cerca di attraversare il binario. Si tratta del tema più ricorrente nel cinema di John Ford, ed è anche il topos su cui si fonda l’intero genere Western. The Searchers è il resoconto di lunghi anni spesi da due uomini alla ricerca di una bambina rapita, nel territorio ostile dei Comanche. Grapes of Wrath (1940) racconta il cammino travagliato di una famiglia, resa nomade dalla Grande Depressione, e l’attraversamento di una terra arida, punteggiata di ostacoli, verso il miraggio di una California fertile e lussurregiante. Cheyenne Autumn (1964) descrive l’esodo tormentato di una tribù di nativi, privati della                                                                                                                

121 D. Bordwell, J. Staiger, K. Thompson, op. cit., pp. 42 sgg. 122 Ibid.

terra dei propri padri, ma non dell’orgoglio e della strenua fierezza con cui proseguono nel loro percorso, alla ricerca della stabilità e della Terra Promessa. Perché si costruisca una storia – perché si costruisca la Storia – l’ordine, la civiltà, deve vivere il suo momento selvaggio. L’Idea, diceva Hegel, deve alienarsi nella Natura, prima di fare ritorno a sé123.

Si pensi alla sequenza che apre uno dei capolavori diretti da Ford, Stagecoach (1939). In una piccola cittadina dell’Arizona giunge la notizia che gli Apache sono sul piede di guerra. Dopo qualche inquadratura in esterni, che riprende due figure a cavallo che percorrono agitate gli spazi aperti del deserto, ci ritroviamo nel chiuso di una caserma militare. Uno dei due personaggi, sceso da cavallo, spiega a un ufficiale seduto alla scrivania che le colline sono infestate dai bellicosi indiani. L’ufficiale, preoccupato, si volta e chiede al telegrafista di preparare la linea di comunicazione per Lordsburgh, città situata nel New Mexico, e dunque più a ovest. Gli viene risposto che dalla città sta già arrivando una comunicazione urgente. L’ufficile si avvicina al telegrafo e l’inquadratura cambia, si fa più stretta, dunque più tesa. La comunicazione non arriva. Il comandante ne chiede spiegazioni al soldato. «The line went dead, Sir». La comunicazione è interrotta. Da Lordsburgh hanno potuto inviare solo la prima parola, «Geronimo». Tutti i presenti restano in un lugubre silenzio, e la frattura che Geronimo ha provocato nella linea del telegrafo è riempita solo dalla colonna sonora, improvvisa, grave, piena di semitoni e sinistre dissonanze: un chiaro invito lanciato allo spettatore a preoccuparsi seriamente.

«The line went dead», dice il soldato. La linea di comunicazione è morta. La linea di comunicazione si è improvvisamente trasformata in un binario morto. Si è fratturata. L’unione si è fatta divisione. E in questa frattura si è inserito il nome di Geronimo, il selvaggio, accompagnato da un accordo musicale disarmonico. Ecco dunque cosa determina il carattere tragico, agonistico del percorso della storia: la possibile frattura del binario provocata dall’imboscata tesa dal selvaggio. La dinamica e ottimistica mobilità del progresso muta improvvisamente in stasi. Nel caos della stasi.

Non è forse il caos della stasi quello contro cui combatte la bella e gigantesca donna raffigurata nel dipinto American Progress, realizzato da John Gast nel 1872? Nel quadro, una figura femminile, bianca e luminosa, procede da est a ovest, tenendo tra le mani un libro e i fili del telegrafo (quello che Geronimo ha tagliato); alle sue spalle, e nella stessa direzione, procedono i vagoni di un treno, mentre alla sua sinistra, più in primo piano nel dipinto, uomini armati di aratro camminano con calma su una strada dritta. I tre personaggi, la donna, il treno e i farmers, avanzano lungo tracciati paralleli e ordinati. La parte sinistra del dipinto, quella a ovest, è invece occupata da figure disposte in modo decisamente più irregolare: si tratta di nativi e animali che fuggono incivilmente, spinti fuori campo dall’incedere

                                                                                                               

123 G.W.F. Hegel, Enzyclopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, Heidelberg 1830, tr. it. Enciclopedia delle scienze

rassicurante del progresso. Scappano dal quadro, avvolte dalla cupezza di una natura oscura e arricciata, ben diversa dalla chiarezza del mondo rurale che riempie la porzione est del dipinto124.

Ma torniamo a The Iron Horse, di cui abbiamo solo esposto la trama, peraltro già molto significativa. Dopo circa due ore di immagini, la narrazione giunge a uno dei momenti cruciali: l’assalto del treno da parte dei Cheyenne. Come già anticipato, i selvaggi sono stati aizzati dal malvagio possidente Deroux, al fine di sabotare l’avanzata della ferrovia. Gli operai sono dunque a lavoro, quando, improvvisamente, una freccia colpisce alle spalle uno tra i più anziani. Per circa cinque minuti Ford filma l’aggressione, che si svolge «at the end of track». Accortisi improvvisamente di essere bersaglio di un attacco indiano, i lavoratori, guidati da David Brandon (il protagonista del film), imbracciano le armi e si rifugiano al di sotto dei vagoni, tra i binari, immediatamente trasformati in trincea. È da lì che rispondono ai selvaggi aggressori. I Cheyenne, dal canto loro, arrivano numerosi e feroci, e accerchiano il gruppo di operai, avviando una battaglia che si protrae a lungo.

Vanno subito segnalati alcuni dettagli di regia. I Cheyenne arrivano da ovest, e il movimento assume un significato duplice: in primo luogo sono minacce provenienti dal West – e dunque da una terra non ancora «civile». In secondo luogo essi si muovono in direzione opposta alla costruzione della transcontinentale, e dunque contraddicono la marcia del progresso. L’opposizione al progredire della

civilization è resa ancora più manifesta da un dettaglio fortemente significativo: il percorso di attacco dei

selvaggi, orientato da ovest a est, confluisce in un cerchio, quello di assedio che costringe i lavoratori a restare tra i binari per cinque lunghi minuti, impegnati in una estenuante ed eroica difesa. Ford sottolinea con estrema chiarezza la particolare configurazione geometrica dell’assalto: la battaglia è infatti intercalata da una serie di campi lunghissimi che consentono allo spettatore di vedere con chiarezza come, nella cornice di una natura grigia e monotona, la linea della ferrovia sia interrotta dal movimento continuo e circolare dei Cheyenne, un movimento condotto in senso antiorario.

Il cerchio contraddice la linea, in due concezioni antitetiche del tempo. È il tempo ciclico delle antiche tradizioni, quello della ruota del nascere, vivere e morire che le religioni indiane (quelle asiatiche, stavolta) chiamano sasāra125; è il cerchio dell’Ouroboros, il serpente che divora se stesso, simbolo cosmico presente, sin dall’antichità, in svariati contesti culturali, e che la tradizione alchemica ha adottato come rappresentazione dell’unità del Tutto126; è l’anello dell’Ewige Wiederkunft des Gleichen, la