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La trasmissione della memoria rappresenta l’atto di volontà preliminare di un romanzo che si apre con la doppia dedica Per mio padre e mio figlio e che si chiude nel nome collettivo dei padri:

Ai nostri padri non possiamo più domandare niente. Possiamo solo ricordare le loro vite e le loro verità, anche quando assumono la forma della diceria inverifica- bile, o si coprono della pietà mai abbastanza grande, mai abbastanza impermeabile, della menzogna.113

Colpisce che sia proprio la parola menzogna a siglare un romanzo in cui la storia della seconda guerra mondiale e, al suo interno, la storia degli ebrei costitui- scono l’ordito della trama narrativa, ma l’autrice con questa clausola ribadisce un concetto su cui ha già più volte insistito e che di fatto costituisce la conditio sine qua non di tutto il romanzo: il falso storico, pronunciato o scritto da chi per le sofferenze subite è stato degradato nella sua dignità di uomo, non può essere espunto come

menzogna ma deve essere al contrario accolto come espressione di una volontà di ri- parazione a cui la storia ufficiale non ha potuto dar corso.

A questo principio si ispira il racconto della deportazione dei personaggi che fanno parte del cotè materno e che costituisce uno dei principali filoni narrativi del romanzo; oltre alla madre, che è già stata figura centrale in Lezioni di tenebre e che adesso riappare in veste di depositaria dei ricordi familiari, ci sono i parenti, i nume- rosi cugini Szer che fuggiti dalla Polonia nazista sono stati internati in un gulag so- vietico e la moglie di uno di loro Irena Levick, ovvero Irka, c’è infine l’amico ebreo Steinwurzel che da Samuel diviene Emilio una volta radicatosi in Italia. Attorno a ognuno di questi sopravvissuti viene evocato un drappello di morti nei campi di con- centramento e nei ghetti: la madre di Irka, i genitori e i fratelli di Samuel, i genitori dei cugini Szer e l’unico cugino ritornato in Polonia dopo la fuga in Russia nell’illusione di salvarli. L’autrice ha puntigliosamente ricostruito le vite dei som- mersi sia attraverso le testimonianze dei salvati sia attraverso una scrupolosa ricerca storica a Yad Vashem ed ha apertamente condiviso i suoi dubbi quando le testimo- nianze raccolte apparivano più approssimative o non sembravano corrispondere alla realtà storica successivamente documentata 114 Ha seguito di Irka, la cugina acquisita

114 Helena si reca a Tel Aviv per incontrare la ormai ottuagenaria Irka, l’ebrea Irena Levick,

cugina acquisita della madre, e ascoltare la sua storia. Nata in Lituania a Giedraičai, un paese che l’autrice non riesce a trovare sulle mappe, si trasferisce dopo la morte del padre medico da uno zio a Wilno, ossia nella Vilnius allora polacca, poi dai nonni materni a Łódź dove la madre si risposa con un vedovo che ha un figlio di qualche anno più piccolo di lei. All’arrivo dei tedeschi la madre rimane a Łódź da dove verrà poi deportata, mentre il marito con il primo figlio si trasferisce nella sovietica Leopoli. Irka su insistenza materna li raggiunge affrontando da sola, all’età di sedici anni, cinquecento chilometri di cui solo gli ultimi cento non occupati dai nazisti. Giunta salva a destinazione grazie al suo aspetto ariano e alla sua ottima conoscenza del tedesco deciderà di seguire nella deportazione il

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di sua madre, nella sua incredibile odissea dimostrando verso questo personaggio una totale empatia ma ciò non le ha impedito di esprimere i suoi dubbi ogni qualvolta i ricordi della vecchia signora non corrispondevano alle informazioni storiche.

Giunta alle pagine finali infine rivela il dosaggio di verità storica e finzione letteraria presente in ogni personaggio in una sorta show down letterario. Di Samuel Steinwurzel, ormai morto, dice che l’unica cosa certa è che ha combattuto a Monte- cassino come prova il suo certificato di smobilitazione in cui sono segnalate anche alcune decorazioni al valor militare. Tutto ciò che precede il suo arrivo al fronte è stato ricostruito grazie all’aiuto del figlio che ha messo a disposizione di Helena dei documenti ma non ha potuto condividere con lei dei ricordi perché suo padre non gli ha mai raccontato niente del suo passato. In Dolek Szer, anch’esso ormai morto, con- fluiscono i dati emersi dall’archivio informatico dello Yad Vashem, i ricordi di sua madre e la testimonianza di sua cognata Irka ma laddove tutto questo non basta a dar vita al personaggio, l’autrice ammette di aver fatto ricorso all’invenzione. C’è dun-

patrigno e il fratello che vengono trasferiti in un Gulag in seguito al Patto Ribbentrop - Molotov. Nel vagone merci piombato che la conduce in un campo della regione di Arcangelo conosce tre cugini e- brei della madre dell’autrice, anche loro emigrati in territorio sovietico. Nel gulag si sposa con il più giovane di loro, Zygmunt, e con lui e i suoi fratelli, dopo la firma del patto fra l’Unione sovietica e l’Inghilterra, affronta un viaggio di liberazione che fa tappa a Samarcanda dove ritrova il patrigno che morirà di lì a poco per le sofferenze patite. In seguito ad un’epidemia rischia di morire di tifo, ma vie- ne salvata dalle cure del cognato medico Doleck. Poi attraversa il mar Caspio con la sua nuova fami- glia e riceve ospitalità dai ricchi ebrei di Teheran. Da qui si reca in Palestina. L’autrice esprime le sue perplessità in due occasioni. Quando Irena dice che sua madre è morta nel campo “dove seppellivano uomini vivi” (p.181) e poi specifica a Treblinka, la Janeczek ricorda che nessuno veniva sepolto vivo nelle fosse se non per errore, ma ritiene impensabile chiedere maggiori informazioni perché questo significherebbe soltanto aggravare il terribile dolore della testimonianza. Anche quando Irena defini- sce un lager il campo della regione di Arcangelo in cui ha lavorato al taglio dei boschi, la Janeczek obietta che, dal tenore di vita descritto, il luogo non corrisponde a un lager.

que, riguardo ai personaggi realmente esistiti, uno scrupolo tenace nel voler discerne- re fra verità e immaginazione, uno scrupolo che nasce certo dal rispetto della vita al- trui ma in cui confluisce anche un’intenzione meta letteraria. Niente avviene per caso o per puro arbitrio, sembra infatti dirci Helena Janeczek, ogni volta che entra nel det- taglio di certe sue invenzioni presentandole come sviluppi di potenzialità insite nella storia e attuate dalla pagina letteraria: amicizie nate sul fronte fra soldati i cui nomi sono iscritti nello stesso battaglione oppure probabili ma non provate compresenze in un dato luogo dei suoi personaggi letterari con personaggi storici. L’invenzione non è dunque il contrario della verità ma un’ipotesi sulla verità sconosciuta a cui l’autrice decide di dar corso supplendo così ai vuoti della storia. Ma anche nel caso in cui la verità sia conosciuta, esistono invenzioni che non sono sanzionabili, si tratta delle menzogne con cui le vittime resistono alla violenza così come ha fatto il padre dell’autrice con la sua falsa identità:

Ma il nome falso di mio padre è il mio cognome. Con quello sono nata e cre- sciuta, ne ho spiegato mille volte l’origine, e finisco spesso scambiata per immigrata, per badante, persino per donna facile perché in Italia, oggi, porto un cognome slavo. Come posso considerare falso qualcosa che mi ha impresso il suo marchio? Come può esserlo quel nome a cui mio padre deve la vita e io la mia? Che cos’è una fin- zione quando si incarna, quando detiene il potere di modificare il corso della storia, quando agisce sulla realtà e ne viene trasformata a sua volta? Cosa diventa la men- zogna quando è salvifica?115

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Falsità e verità perdono la loro valenza astratta di principi: la menzogna del padre è lo strumento della sua salvezza ma è anche una scelta da cui consegue una responsabilità esistenziale che si concretizzerà poi nella nascita di Helena. La men- zogna quand’è salvifica è dunque certamente un bene, ma ciò non toglie che l’atto costitutivo di un’esistenza, se falso, possa generare dei disguidi e creare dei problemi a chi quell’esistenza si trova a viverla. L’invenzione paterna racchiude infatti una tale complessità e drammaticità di ragioni da renderla, ad esempio, difficilmente declina- bile nella comunicazione interpersonale quotidiana. L’identità polacca assicurata dal cognome Janeczek non corrisponde in Helena a una serie di attributi, primo fra tutti la conoscenza della lingua, a cui quell’identità di solito si lega, e questa coincidenza imperfetta fra nome e sostanza o se si vuole questa sfasatura identitaria non è spiega- bile nell’ambito di una conversazione occasionale con formule sintetiche e rassicu- ranti. Nelle pagine iniziali del romanzo l’autrice si descrive alle prese con le doman- de di un tassista polacco a cui risponde con bugie sempre più incerte.

Arrancavo dietro risposte credibili, pagavo con la goffaggine delle bugie e- stemporanee che fosse stata veritiera la mia prima replica. Mi ero solo attribuita una madre italiana per giustificare la scarsa conoscenza del polacco, ma non avevo calco- lato le altre domande. Così mi ci impigliavo dentro, rispondendo mezze verità e sco- prendo che l’invenzione riesce male quando sgorga dalla costrizione, che le menzo- gne nate per caso sono brutte.116

Che cos’è un romanzo se non un’invenzione sgorgata dalla libera creatività e sostenuta da un progetto? potremmo a questo punto chiederci parafrasando l’autrice.

Se ereditare una “menzogna” pone un problema di corresponsabilità, la scrittura de Le rondini di Montecassino rappresenta il tentativo, a mio avviso riuscito, di dare un senso etico all’invenzione. Il romanzo realizza infatti su un diverso piano il parados- so insito nella prima menzogna paterna, ovvero la possibilità di far conseguire degli effetti salvifici o quantomeno benefici dal falso. Questo avviene perché nel suo in- treccio l’autrice inserisce i fili della denuncia sociale seguendo le tracce dei lavorato- ri polacchi scomparsi ma anche e soprattutto perché a fronte di un nome falso evoca molti nomi veri, sommersi dall’oblio e divenuti ormai astratti perché il tempo ha sciolto e cancellato il legame con i corpi a cui appartenevano. In questi segni disin- carnati e ormai fossili grazie all’invenzione la scrittrice immette una nuova vita: “Ri- disegnare un corpo immaginario quale tributo alla sua vera vita: vorrei pervenisse a questo il potere simbolico dell’invenzione.”117

Il potere simbolico della menzogna letteraria non è dunque quello di occultare la verità ma di rigenerarla a dispetto dell’azione del tempo che cancella la materialità dei corpi. Fingere storie significa, con un ritorno al significato etimologico del verbo, plasmarle e dar loro origine. Sia che la menzogna serva a correggere la biografia pa- terna riscrivendo in altra chiave le pagine dell’umiliazione e della paura sia che serva a donare una seconda vita alle esistenze travolte dal tempo si propone infatti come atto generativo.

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