In I prigionieri di guerra 60
di Tamara Jadrejčić la guerra è quasi sempre per- cepita dalla dimensione chiusa per non dire claustrale degli spazi domestici e lavora- tivi. I protagonisti dei sette racconti dell’autrice croata si aggirano nel breve circuito
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E. Dones, Piccola guerra perfetta, cit., pp. 56 – 57.
60 T. Jadrejčić, I prigionieri di guerra, Eks&Tra Editore, San Giovanni in Persiceto (Bo)
delle loro case, siedono tutti insieme nelle cantine in attesa che finiscano i bombar- damenti, continuano a lavorare nei loro negozi. La guerra si materializza solo nel si- bilo delle bombe o sotto forma di tristi messaggi: lettere di parenti che raccontano una difficile sopravvivenza o comunicazioni degli uffici preposti al riconoscimento dei cadaveri. Il conflitto che devasta l’entroterra risparmia ancora Dubrovnik, dove è ambientata la maggior parte dei racconti, e tuttavia sin dal titolo l’autrice ci presenta i suoi personaggi come I prigionieri di guerra. Per quanto liberi vivono infatti in una sorta di cattività psicologica: sono irretiti dalla paura che si manifesta in piccole e grandi ossessioni oppure hanno trovato ormai rifugio in una zona interiore che non permette più l’accesso all’altro.
Nel primo racconto assistiamo a un conflitto nella stanza da bagno fra una madre e un bambino che non si vuole lavare: una consueta scena di vita familiare che i protagonisti recitano però su un registro tragico. Il padre è partito per la guerra da due settimane e Sanja, la madre, è sola a fronteggiare quella che sembra la bizza di un bambino particolarmente testardo:
– Anche se mi lasci per sempre qui con i pantaloni calati e la canottiera, non entrerò nella vasca, mai – pensò Ivan con la ostinazione propria ai bambini, che pen- sano di possedere tutto il tempo del mondo.61
Lo scontro fra di due personaggi è orchestrato in vari round in cui la madre adotta tecniche diverse che vanno dall’esortazione all’ingiunzione, dal ceffone alla richiesta di spiegazioni in un crescendo di reciproco sfinimento che l’autrice sonda
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attraverso lunghe pause introspettive dedicate a entrambi i personaggi. Dalla cucina la voce del telegiornale regala occasioni supplementari di angoscia:
La voce professionale della signorina rivelava il colpevole da odiare e de- scriveva le “nostre” vittorie che dovevano riempire di gioia ed orgoglio tutti gli a- scoltatori. Ma Sanja non credeva di corrispondere a quell’esemplare cittadino croato a cui era destinata la retorica di quegli anni. Per lei quel telegiornale era stato solo una fonte di orrore e malessere. All’inizio della guerra, le immagini di persone che vivevano eventi agghiaccianti e che, per fortuna non succedevano nella loro cittadina costiera, rinforzavano in lei la convinzione che fossero diversi, lontani da tutto e che tutto ciò non li riguardasse. I primi tempi si trattava di un mondo astratto e remoto: catodico. Però, poco alla volta, le immagini venivano collegate a ricordi personali, a conoscenze familiari e amicizie.62
La guerra è per Sanja un evento mediatico che moltiplica l’ostilità del conflit- to reale e che impone agli spettatori una ricezione orientata in base al principio della propria appartenenza etnica. La didattica mediatica del conflitto permanente prescri- ve un modello identitario basato sull’opposizione fra individui di diversa specie im- ponendo l’identificazione dello spettatore nel ruolo di nemico etnico ad oltranza. Si tratta di una comunicazione totalitaria che spinge nel territorio della in-appartenenza chi non consente con i suoi contenuti mentre al contrario enfatizza i legami fra gli spettatori consenzienti creando un’identità collettiva di esemplari cittadini croati.
Mentre le notizie del telegiornale erodono la sicurezza di Sanja di vivere in un lembo di pace, la guerra le porta via il marito costringendola ad una brutale presa d’atto della sua immanenza. Dopo il suo addio la donna resiste giorno per giorno con
le armi della speranza non riuscendo nemmeno a immaginare che Ivan, il suo figlio più piccolo, stia combattendo a sua volta una guerra di resistenza: il bambino ha in- fatti deciso che non si laverà fino al ritorno del padre.
La voce calma e candida di Ivan la fece tornare tra le pareti sudate del ba- gno.
– Io sono un maschietto e faccio il bagno solo con papà.63
Le armi che il figlio sfodera contro il buio dell’assenza sono dunque il collo sporco e le unghie nere che dovranno rimanere tali finché il babbo non ritornerà. Il bambino si affida così a una pratica scaramantica che evoca la forza magica del cor- po in funzione di richiamo dell’assente. Quando infine Sanja capisce il significato simbolico del suo rifiuto, il dialogo bloccato con il figlio riprende con un balbettio di domande e di risposte che affrontano il tabù della guerra e della mancanza del padre. Proprio a questo punto assistiamo al disgelo emotivo dei due personaggi che dalla contrazione e dalla fissità dei ruoli iniziali si sciolgono in un abbraccio:
Lo abbracciò. La sua testa le arrivava all’altezza del seno e attraverso il ma- glione sentiva il calore del suo respiro. […] Il viso di Ivan era triste e inconsolabile. Sanja avvertì al centro del suo corpo, lì da qualche parte dove stava appoggiata la te- sta di suo figlio, una bolla, un palloncino d’aria che cresceva; respirava soltanto con la parte superiore dei polmoni. Mentre il pallone saliva verso la gola, lacrime calde e perfette cominciarono a scendere sul suo volto. […] Con l’orecchio appoggiato sul suo seno sentiva i suoi singhiozzi già sul nascere. Gli sembrava come se dentro di lei
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qualcosa si fosse strappato e adesso, gorgogliando e palpitando, cercasse in ogni modo di uscire.64
Ma l’espressione del dolore materno troppo a lungo trattenuto rappresenta so- lo l’effetto collaterale di una ben più significativa epifania. Ivan durante l’abbraccio riesce infatti a percepire, sia pure in forma incorporea, la presenza del padre: “Chiuse gli occhi e gli sembrò di sentirlo: «Insomma, che sta succedendo qui? È morto qual- cuno?»”65
L’atto scaramantico ha prodotto dunque il suo effetto perché anche se in mo- do del tutto immateriale il padre ha fatto ritorno. Il pensiero ha riempito l’assenza. Nella condizione di prigionia, che è soprattutto stato di privazione, il pensiero mostra il suo potere di opposizione alla realtà data e di ricostruzione di una realtà altra. In questo senso le ossessioni, che molti protagonisti dei racconti manifestano, hanno un valore ambivalente: da una parte testimoniano la coercizione psichica del soggetto ma dall’altra esprimono anche la forza riparatrice di cui la psiche è capace quando il danno che le deriva dal reale rischierebbe di annientarla. I Prigionieri di guerra si collocano infatti in un arco che va dalla temporanea evasione alla completa aliena- zione dalla realtà.
Katarina, la madre di un giovane disperso in guerra, pratica da sette anni un culto ossessivo andandosi a inginocchiare ogni giorno per ore davanti a una mediocre statua della Madonna sotto lo sguardo inquieto del marito che ne controlla gli spo- stamenti. Nonostante ogni ragionevole evidenza, anche quando la coppia viene con-
64 Ivi, pp. 20 – 21. 65 Ivi, p. 21.
vocata dal Distretto militare di Spalato per riconoscere alcuni oggetti personali ap- partenuti al figlio, Katarina rifiuta di ammetterne la morte perché sostiene di aver ri- cevuto dalla Madonna ben altra certezza: “-No, Ivo, lei mi ha rassicurato che è vivo. È vivo. Punto.” 66
Come già ne Il bambino che non si lavava anche qui l’immagine conclusiva è quella di due corpi che si toccano, ma a differenza di quanto avviene nel primo rac- conto il contatto non genera una trasformazione vitale: “Ivo, continuando a starle se- duto accanto, mano nella mano, si sentì più solo e vecchio che mai.”67
Di tutt’altra natura è l’evasione che il bizzarro personaggio di Il gioco del ca- vallo e dei topi assicura ai condomini della Kranjčević14, prigionieri della propria paura nella cantina in cui si sono rifugiati all’inizio dei bombardamenti: durante un’incursione aerea il vecchio Vule si ostina a raccontare le mosse di una partita a scacchi del suo nipotino contro un ambasciatore richiamando all’ordine i distratti e sedando i rissosi. Incurante del motivo per cui si trova lì e dell’esito del bombarda- mento Vule incarna il ruolo di vate del sottosuolo e gode del prestigio che il pubblico gli tributa:
Nell’oscurità della tana umana, tutti gli occhi cercavano la faccia scheletrica del vecchio Vule, il vedovo del terzo piano, come fosse un faro in mezzo all’oceano o un profeta collaudato. Chi per scaramanzia, chi per abitudine. Dalla penombra la sua voce, lavorata da cinquant’anni di sigarette Drina senza filtro, arrivava come un
66 Ivi, p. 65. 67 Ibidem.
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profondo mormorio ai quattro lati della cantina spoglia, umida e arrangiata alla me- glio.68
La narrazione è fatta oggetto di un piccolo culto scaramantico che si basa sul- la speranza di ottenere la salvezza attraverso l’ascolto. La magia, per quanto insidiata e interrotta dall’intervento degli scettici e dall’aggressività di un giovane folle, si ri- pete grazie all’ostinazione di Vule che ogni volta riannoda il filo del discorso e ri- prende a parlare, consapevole della forza della sua voce: “la voce del vecchio Vule era di quelle che non si potevano ignorare”69
. Dal vecchio non emana soltanto autori- tà ma anche compassione. Quando il giovane folle corteggia sguaiatamente una don- na sposata provocandone il marito, Vule interviene con dolcezza:
Il vecchio Vule, si avvicinò con il suo passo tentennante e con il resto della sigaretta penzoloni tra le labbra. Riusciva a parlare senza che gli cadesse.
“Sediamoci, cari vicini! Non vi ho ancora raccontato la fine della partita! Dunque, dove eravamo rimasti? Ah, sì, con l’ambasciatore senza la regina e il ragaz- zino senza più biscotti. Però, dovete sapere che qualche minuto dopo…”70
La guerra simulata degli scacchi, squisitamente stilizzata dall’estetica del gio- co e rispondente a norme precise, sostituisce la guerra sporca, materiale e caotica del mondo esterno indicando un’alternativa virtuosa all’espressione dell’aggressività umana. 68 Ivi, p. 68. 69 Ivi, p. 71. 70 Ivi, p. 73.
In realtà quasi tutti i personaggi della raccolta sono dei resistenti che ingannano la paura della morte con artifici scaramantici combattendo una battaglia fatta di simboli a latere della guerra vera. Vi sono tuttavia due casi in cui la resistenza travalica dal suo aspetto simbolico e si fa concreta scelta di vita e di morte: in L’abito da sposa la sarta che si rifiuta di cucire le mostrine sulle divise dei soldati va infatti incontro a una sorta di martirio laico e in La guerra di Mira la protagonista uccide il marito che durante le licenze la terrorizza con la sua brutalità. Si tratta degli unici racconti in cui la strategia di resistenza culmina con la morte, ma in entrambi i casi la narrazione si ferma a un passo dalla fine con una reticenza che è scelta di campo sia stilistico che ideologico. Questa narrazione di guerra tiene infatti rigorosamente fuori dal suo pe- rimetro la violenza con una scelta lessicale che adotta la perifrasi o la metafora ogni qualvolta deve posarsi sulle armi e sulla morte.
Mira, che vive nell’ansia del ritorno del marito perché la picchia e la degrada, ha nascosto fra le riserve alimentari nello sgabuzzino di casa un “mostro freddo e pe- sante, che odorava di grasso lubrificante” e ne ha mascherato la parte superiore con il collo dell’aspirapolvere. Durante l’ennesimo tentativo di violenza, il marito perde l’equilibrio, stramazza al suolo e per qualche attimo sembra morto, poi invece rin- viene. Allora:
La donna lo guardò con profonda delusione e disprezzo, o forse, questa vol- ta, era odio vero, poi si girò, aprì la porta ed entrò nello sgabuzzino cercando quello che sapeva lei.71
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Il racconto finisce prima della detonazione che libererà Mira dal suo aguzzino ma senza mai aver nominato l’arma.
Allo stesso modo Ljubica, la sarta che pratica l’obiezione di coscienza rifiu- tandosi di cucire i gradi sulle divise dei soldati del suo stesso esercito, viene accom- pagnata alla morte con un tocco narrativo leggero. I soldati imbestialiti per il suo ri- fiuto le devastano il negozio e infine il “capo” del gruppo estrae un accendino per in- cendiarlo:
Ljubica non si mosse di un millimetro. Stava seduta davanti alla sua Singer preferita, la vecchia “5802c”, immobile e zitta con le mani che pendevano, le spalle alzate e la testa incastrata dentro, come una tartaruga. Sentiva come una lama di col- tello, ficcarsi sempre più a fondo nel centro del suo corpo, intorno al quarto chakra, dove gli yogin dicono che tutto comincia e tutto finisce.72
I prigionieri sono rimasti intrappolati in una guerra che hanno sottovalutato o che addirittura sin dall’inizio non hanno condiviso ma che hanno comunque creduto distante o circoscrivibile. La storia ha avuto per ognuno di loro un’evoluzione, tal- volta tragica talvolta solo imbarazzante, ma pur sempre impensabile. Sia che si tratti di Marko Urošević, ufficiale in pensione dell’esercito popolare jugoslavo che subisce un’involontaria metamorfosi e viene trattato come nemico dai suoi compatrioti croati sia che si tratti di Sanja rimasta da sola a gestire la famiglia o della sarta che cuce a- biti da sposa, nessuno mostra la benché minima adesione alle ragioni della guerra. La guerra è data in tutti i racconti come un fatto di cui si sono perse le cause e che si de- ve affrontare con la strategia del giorno per giorno. Le piccole pratiche scaramanti-
che adottate dai personaggi dimostrano come la deriva della storia provochi lo slit- tamento nell’irrazionale: l’individuo, privato della possibilità di incidere sul corso degli eventi, riattiva il pensiero magico per mantenere un controllo sul reale. Ma ri- spetto a una realtà degradata dalla guerra l’irrazionale, il fantastico, il magico non sono necessariamente via di fuga ma temporanei rifugi dove l’io coltiva la sua resi- stenza.