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La battaglia di Montecassino: il luogo delle memorie parlanti e l’origine di tutte le cose

Il romanzo di Helena Janeczek si basa su una scommessa narrativa: trasfor- mare un luogo di morte e di silenzio, il cimitero di Montecassino, in una occasione di dialogo e di vita. Il paradosso viene enunciato sin dalla citazione eraclitea posta in limine “La guerra è il padre di tutte le cose”. Il frammento del filosofo greco contie- ne senza dubbio un riferimento alla genealogia personale dell’autrice che dopo poche pagine viene reso più esplicito dall’affermazione: “Seconda guerra mondiale: da lì, databile attraverso un passaporto falso, traggo le mie origini”107

ma allude anche a una conflittualità insita nel reale che rivela una funzione progressiva in quanto ne as- sicura il divenire. L’autrice ha già narrato in Lezioni di tenebre l’innamoramento del padre e della madre nel ghetto di Zawiercie in Polonia, la loro fuga dapprima insieme e poi divisi per potersi meglio nascondere, la cattura e la deportazione ad Auschwitz della madre, la vita alla macchia del padre con i fratelli e i nipoti. Nell’ultimo anno di guerra il padre vive a Vienna con un passaporto falso che con il nome di invenzione Janeczek lo dichiara polacco. Con questa nuova identità anagrafica sposa la sua compagna, sopravvissuta al campo di sterminio; infine, dopo altre fughe e disavven- ture, approda a Monaco e diviene padre di Helena che saprà della sua falsa identità

solo dopo la sua morte. La seconda guerra mondiale fornisce dunque le coordinate storiche della nascita di una famiglia, ma nel racconto della Janeczek la guerra è so- prattutto un fenomeno che realizza un nuovo campo di possibilità rispetto allo status quo della pace: è a causa della guerra, e nella fattispecie della persecuzione razziale, che la madre, ebrea di nascita ma polacca di elezione, non porta a buon fine il suo flirt con uno squisito corteggiatore della buona borghesia polacca e sceglie invece di legarsi a un ragazzo del ghetto che parla l’ yiddish e frequenta sionisti, socialisti e comunisti del Bund. Grazie alla guerra la minuta, elegante e ben coltivata Nina Lis si unisce a un giovane del ghetto, robusto, turbolento e intelligente e da questa coinci- dentia oppositorum, da questa unione fra diversi, sostenuta dalla comune “forza della voglia di vivere”, nasce Helena. Questo è dunque il motivo per cui la guerra può dirsi generatrice, ma è comunque possibile estendere la sua funzione paterna anche ad altri soggetti. Nella narrazione della Janeczek la battaglia di Montecassino è il punto di straordinaria convergenza di uomini che provengono da luoghi lontani: vi arriva dal Texas il sergente americano John Wilkins; dal Waikato di Hopuhopu, una regione nel South Auckland in Nuova Zelanda, il maori Charles Maui Hira, vi arrivano dopo esperienze di deportazione nei gulag sovietici anche Dolek Szer il cugino della ma- dre di Helena, Samuel Steinwurzel un amico di famiglia polacco e il soldato Gustaw Herling. Ognuno di loro attraversa la guerra con un obiettivo: il soldato semplice John, quinto figlio di piccoli rancher colpiti dalla Grande Depressione, parte a di- ciannove anni per evitare un futuro di ristrettezze ma sparisce nel fiume Rapido dopo un attacco disastroso. Charles Maui Hira si arruola volontario a ventuno anni e con- tro il parere del suo clan per “pagare il prezzo della cittadinanza” ovvero per poter

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ottenere, in cambio della sua partecipazione alla guerra, il pieno riconoscimento so- ciale e politico dai colonizzatori della sua terra. Montecassino, definito dalla Janec- zek “un luogo che ci contiene tutti”108

sia pure attraverso una prova durissima e tal- volta fatale fornisce a ogni personaggio l’occasione di uscire dallo stato di minorità in cui si trova per motivi economici o razziali e svolge dunque a livello simbolico una funzione paterna di iniziazione alla vita adulta intesa come esistenza consapevole dei propri diritti e del proprio ruolo all’interno del vasto orizzonte della storia.

Questa interpretazione si adatta in particolar modo alla scelta degli ebrei Do- lek Szer e Samuel Steinwurzel, che approdati dopo un lungo viaggio in Palestina, là dove potrebbero ricostruirsi una vita, decidono invece di continuare a militare nell’Armata polacca. Dolek, fuggito dalla Polonia nazista, internato in un gulag so- vietico – e dunque due volte vittima- troverà nell’Armata di Anders lo strumento di un duplice riscatto. Samuel sceglie la guerra perché vuole contribuire alla liberazione della sua famiglia che crede ancora viva a Leopoli e che invece è già stata annientata nel ghetto o uccisa nei campi di concentramento. Per John, Charles, Dolek e Samuel la partecipazione alla guerra è dunque una scelta, ma mentre per il primo le porte del tempio di Giano si aprono con facilità, per gli altri tre non è facile ottenere il diritto di imbracciare le armi. Per i maori e gli ebrei anche la porta della guerra è una porta stretta. I primi devono superare due ostacoli: il divieto del loro capo, la regina Te Puea Herangi, che non vuole fornire carne da macello agli invasori delle proprie terre e il sospetto delle autorità neozelandesi nei confronti di un popolo ritenuto indegno dell’onore delle armi. Il divieto della regina però si ammorbidisce nel ’39 e, sia pure

con difficoltà, il deputato del partito laburista sir Apirana Ngata ottiene la formazione di un’unità di combattimento composta da soli maori all’interno del 28° battaglione.

Non era stato facile per sir Apirana Ngata, deputato del partito laburista, ot- tenere in parlamento la formazione di un’unità composta esclusivamente da maori, affinché combattendo a fianco dei pakeha, mischiando il loro sangue con quello dei

pakeha, i maori potessero versare un tributo da riscuotere con il riconoscimento che

fossero neozelandesi uguali agli altri.109

Allo stesso modo l’ingresso degli ebrei nel corpo di Anders, che all’inizio viene facilitato in quanto funzionale al disegno politico di tracciare i confini della Po- lonia includendo tutti i suoi cittadini, diviene via via più difficile. Quando il dottore Doleck Szer si presenta alla visita militare è solo la disperata mancanza dei medici all’interno dell’Armata polacca a far sì che venga accettato. Per Samuel Steinwurzel, Helena Janeczek ipotizza invece che siano stati i meriti di buon soldato per cui si era già precedentemente distinto e l’assoluta mancanza di identificazione con le devia- zioni ideologiche del mondo ebraico (“Non era né sionista, né comunista, né ortodos- so […] non era insomma, ai propri occhi e agli altrui ebreo prima di tutto”110) a far sì

che la sua avventura partita con la chiamata alla leva prosegua fino a Montecassino. Per questi personaggi che hanno forzato con la loro volontà e il loro coraggio la regola dell’esclusione imponendosi come eccezioni, e dunque per Charles, Doleck e Samuel, la battaglia di Montecassino si configura come un luogo in cui il dolore, da sentimento privato e individuale, può trasformarsi in istanza storica. Si tratta di per-

109 Ivi, p. 36. 110 Ivi, p. 305.

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sonaggi che vogliono superare lo stato di minorità in cui la storia li ha costretti e a cui la guerra, padre di tutte le cose, offre un’opportunità di crescita e di riscatto che è drammaticamente controbilanciata dal rischio della morte. Questi figli minori, questi eterni rappresentanti del ramo cadetto della genealogia umana scelgono la guerra per diventare protagonisti di una storia che finora hanno subito e in cui, come nel caso degli ebrei, hanno rischiato l’annientamento. Alla prova dei fatti le loro speranze sa- ranno in tutto o in parte deluse: l’attesa per la costituzione di un libero stato polacco sarà tradita dalla Conferenza di Yalta che sancirà l’ingresso della Polonia nella sfera sovietica e così i soldati dell’Armata del generale Anders che avevano creduto di ri- tornare in una patria liberata grazie al loro sacrificio, sceglieranno in gran parte l’esilio per non dover servire un nuovo padrone; gli stessi combattenti maori saranno ricompensati con donativi di terre e denaro ma il loro popolo non acquisirà per que- sto le stesse opportunità sociali dei bianchi. Tuttavia quello che potrebbe essere letto come un fallimento e che potrebbe dunque comportare la messa in discussione della logica di scambio sottesa alla partecipazione bellica dei popoli “minori” non risulta invece tale nelle pagine della Janeczek.

La guerra è piuttosto una delle tappe che i popoli devono di necessità attra- versare nel passaggio dallo stato di natura allo stato civile dato che:

Nessuno, in nessun angolo del mondo, ha più il diritto naturale di esistere al di fuori dai rapporti di forza e di profitto che si irradiano dal centro unico. Non esiste più il diritto naturale, ma solo cittadinanza che va meritata e conquistata come una terra vergine che deve dare frutto, anche al costo della vita quando occorre.111

Non esiste diritto, neppure quello alla cittadinanza nella propria terra, che non passi attraverso il “riconoscimento” dell’altro. La seconda guerra mondiale che a Montecassino conosce uno dei suoi momenti più drammatici, non è negazione della civiltà ma l’antitesi che la civiltà deve attraversare per giungere a una superiore sin- tesi. Nella composizione mista dell’esercito alleato che affronta i tedeschi arroccati nell’Abbazia di Montecassino si possono infatti vedere i primi segni di un cambia- mento che trasformerà il volto dell’Europa. Una sorta di prefigurazione di una civiltà multi-etnica che, sia pure in condizioni di perdurante ingiustizia, inizia a riconoscere i diritti dei popoli-paria: i marocchini della seconda divisione francese, i gurca del primo battaglione dei fucilieri inglesi, i maori.

Non mancano in questa convivenza bellica degli episodi che potrebbero pre- figurare uno scontro di civiltà all’interno del più generale conflitto, ma le ragioni del- la guerra mettono a tacere ogni “diversivo” alla linea del fronte: le violenze dei sol- dati magrebini alle donne italiane cadono dunque in una zona d’ombra perché non si può imbrattare il mito della vittoria alleata. Ma Janeczek puntualizza:

molti erano plebe inurbata nei quartieri poveri di Casablanca, persino tratti fuori di galera o graziati in flagranza di reato se firmavano con il dito la domanda di arruolamento. In altri casi venivano reclutati tutti i maschi validi di un villaggio di montagna, però con metodi che somigliavano al rastrellamento112.

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Si tratta dunque di uomini che subiscono una sorta di deportazione al fronte o che pagano il prezzo di una libertà tutta individuale. Sono agli antipodi delle figure dei combattenti in cui l’ingiustizia o la violenza patita sulla propria carne e sul corpo dei consanguinei hanno prodotto l’esigenza di una liberazione che trascende se stessi e che diviene operante attesa di un nuovo ordine.