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2. L’Europa che non c’è

2.5 Il tradimento dell’Occidente

Esiste un capitolo del rapporto Est-Ovest che risulta impermeabile al registro ironico perché troppo doloroso e ancora irrisolto. Si tratta del capitolo delle guerre della ex Jugoslavia che costituiscono tuttora una ferita aperta nel ricordo di chi le ha vissute. Elvira Mujčić segue a distanza, impietrita davanti alla televisione insieme al- la madre e ai fratelli, l’ultimo atto della guerra serbo-bosniaca, l’eccidio di Srebreni- ca dell’11 luglio 1995. Le notizie del telegiornale suonano come un annuncio di mor- te: di lì a poco la famiglia profuga riceve infatti la conferma che il padre e lo zio sono stati vittime inermi. Non si è trattato infatti di una morte in battaglia ma di una vera e propria strage di civili avvenuta sotto gli occhi dei caschi blu che avrebbero dovuto tutelare la sicurezza di una zona dichiarata protetta55. La ricostruzione storica del ge- nocidio dei musulmani da parte dell’esercito serbo-bosniaco, che, nonostante la pre-

54 Ibidem.

senza delle forze dell’Onu, riuscì a penetrare nell’enclave di Srebrenica, è tuttora controversa ma evidenti responsabilità gravano sui vertici del contingente internazio- nale. I ritardi nell’invio della flotta aerea a sostegno dei caschi blu e la remissiva consegna all’esercito nemico dei maschi musulmani da parte del contingente olande- se risultano tuttora inspiegabili a meno di non ammettere un impegno e una vigilanza proporzionali allo scarso peso politico delle vittime56 . Non c’è dunque da stupirsi se ricordando il giorno dell’eccidio Elvira Mujčić, dopo aver riassunto con una terna la- pidaria le reazioni emotive (“disperazione, lacrime e svenimenti”57) si getta in una requisitoria politica contro il tradimento dell’Europa. Nelle sue parole colpisce la constatazione di un’appartenenza (“eravamo pur sempre in Europa”58) che non trova alcun riscontro nelle scelte degli organismi internazionali del nostro continente. Con Srebrenica si consuma infatti una separazione cruenta e unilaterale fra l’Europa e la Bosnia e si produce una ferita politica che tuttora stenta a rimarginarsi. Ancora oggi la denominazione del conflitto, che viene definito balcanico e dunque inerente a una zona e a un tratto antropologico particolari, conferma la marginalizzazione subita dai popoli dell’ex Jugoslavia. Continua infatti Mujčić:

56 La fiducia delle popolazione civile nei confronti dell’Onu è testimoniato anche dal raccon-

to che teta Zaha fa alla protagonista “ Io penso solo a quel giorno: tuo padre e il mio Kiko hanno preso i loro zaini e hanno detto: “Andiamo giù dove c’è l’Onu”. Da un giorno e una notte ci bombardavano, i serbi; avevano già conquistato tutta la parte sud della città e rimaneva solo questa nostra strada per spingersi in giù di tre o quattro chilometri, fino ai caschi blu. Tanti sono scappati per i boschi e io gliel’ho detto: “Scappate per i boschi, giù vi uccideranno”. Ma loro cocciuti, si fidavano degli euro- pei.” E. Mujčić, Al di là, cit., pp. 97 – 98.

57 Ivi, p. 26. 58 Ibidem.

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Poi l’Europa è diventata un’entità a sé stante; un bel mondo di sole, pance piene, gente cresciuta col culo al sicuro.

L’Europa è diventata uno spettro.

E noi per l’Europa, siamo stati solo una discarica, dove smaltire i farmaci scaduti e le coscienze zelanti.59

L’Europa è dunque un’entità bifronte che mostra all’Ovest un volto florido e gaudente mentre guarda l’Est con orbite vuote. D’altra parte, secondo l’autrice , la Bosnia dopo la guerra ha ricevuto aiuti sovrabbondanti quanto inutili perché le orga- nizzazioni umanitarie sono state una buona valvola di sfogo per il capitalismo occi- dentale che in questo modo si è liberato dei suoi elementi meno competitivi così co- me dei farmaci scaduti: “Una marea di falliti si sono improvvisati costruttori di pace o cose simili. Gente modesta, a ogni modo”60. Nel momento in cui Elvira Mujčić

sferra il suo attacco più intransigente alla tardiva riparazione che l’Europa ha prestato al suo paese, riafferma però il suo desiderio di appartenenza a un mondo normale che l’Ovest europeo ben rappresenta:“E io odiavo questo bel mondo a colori; lo odiavo perché lo invidiavo. Avrei pagato perché fosse mio questo mondo e non quell’altro.”61

L’amore-odio verso l’Europa “normale” non è dettato da un desiderio frustra- to di inclusione che potrà essere in futuro soddisfatto grazie a un allargamento dei criteri di cittadinanza. L’esclusione più dolorosa infatti non è dovuta a un divieto e-

59 E. Mujčić, Al di là del caos, p. 26

60 Ibidem. Nell’analisi di questa dichiarazione bisognerà tenere conto di una parziale autocor-

rezione dell’autrice che alla fine del libro esprime un ringraziamento particolare per l’associazione Pl@netnoprofit che è intervenuta in Bosnia a sostegno delle donne di Srebrenica.

sterno ma all’esperienza esistenziale del soggetto che è stato marchiato ed estraniato da ogni collettività in seguito al dolore sofferto.

Avrei voluto avere una vita normale, ma non è stato possibile. Soprattutto, dopo quell’11 luglio non è stato possibile essere le stesse persone. Non so se la sof- ferenza renda migliori o peggiori, se matura o frammenti. Non so, posso solo dire che dopo non si è più se stessi.62

Non è dunque un caso che l’autrice nel raccontare il percorso di graduale su- peramento del caos, in cui la gettano gli attacchi di panico, dia largo spazio al tema del viaggio verso l’Europa sconosciuta, l’Europa dell’Ovest. Si tratta della narrazio- ne di due brevi ma intensi viaggi a Barcellona e a Vienna, che Elvira organizza in- sieme ad altri amici squattrinati e al fratello in una sorta di moderna boheme turistica. Ma al di là dell’intenzione solare e manifesta di divertirsi esistono motivazioni più profonde e oscure. È infatti proprio nell’occasione dei viaggi che riemergono in lei i ricordi più intensi del passato e che la visione dei morti si manifesta con particolare nitore. In queste epifanie funebri il padre ha un ruolo centrale:

Quando mi trovavo in mezzo a tante persone per salire sull’autobus o sul treno, vedevo l’immagine di lui che veniva costretto a salire dai soldati su un camion per essere deportato chissà dove. A volte, semplicemente come un flash, il mio cam- po visivo si colorava di rosso dove lui giaceva.63

62 Ibidem. 63 Ivi, p. 86.

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Il viaggio è comunque un’esperienza ambivalente. Così come gli svenimenti che concludono i suoi attacchi di panico, anche il viaggio le concede la possibilità di annullare il suo essere in un luogo e in un momento dato e dunque di cancellare le attese degli altri su di sé64.

Infine è uno strumento di riconquista dell’ Europa perduta con il tradimento di Srebrenica attraverso una progressiva assimilazione del lontano al vicino e dell’estraneo al conosciuto, un’assimilazione che passa ancora una volta per il terri- torio del dolore.

Guardai il cielo spagnolo e mi venne il mio solito senso misto di gioia e tri- stezza.

È strano, ma nella maggior parte dei miei giorni provo nello stesso momento due sensazioni, una l’opposto dell’altra. I paesaggi più belli mi toccano sempre l’animo in modo dolce, ma pungente. Credo sia tutto dovuto alla mia costante no- stalgia di qualcosa, al mio desiderio di totalità, di equilibrio, al mio ricordare troppo; al mio dimenticare.65

E ancora:

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L’autrice stessa avalla questa interpretazione “Ho sempre amato stare sugli autobus e sui treni perché hanno il potere di fare la più bella magia che esista: annullare il mio essere qui, ora. […] Non sono nessuno e non ho alcuna funzione per gli altri. Non vi sono esseri che si aspettano qualcosa da me.” Ivi, p. 38. I viaggi svolgono in positivo, ovvero senza niente detrarre alla vitalità del soggetto, una funzione assai simile alla funzione svolta dagli svenimenti che Elvira propone all’analisi di un te- rapeuta: “In seguito lo psicologo mi disse che i miei svenimenti sono una fuga, un volermi annullare, sottrarmi alle situazioni insopportabili.” Ivi, p. 80. La magia dell’annullamento in un soggetto che si sente gravato da enormi responsabilità può essere dunque praticatain forma conscia attraverso la stra- tegia dello spostamento nello spazio geografico per diventare “inafferrabile”o in forma inconscia at- traverso lo svenimento che cancella temporaneamente il proprio essere al mondo.

Vienna… Mi rilassa, poi mi emoziona. C’è in lei un po’ del mio Est, nel Da- nubio c’è un profumo di infanzia, di cose andate, di cose mai avute. Mi ricorda la Drina; quei pomeriggi di pic-nic, giornate di tuffi e sole e cibo fatto dalla mamma. Quelle lunghe storie sulle donne-pesce e le mille leggende sui vortici della Drina. Dalla nostra riva salutavamo la gente di là dal fiume. Era già Serbia, lì. […] Mi chie- do: com’è stato possibile? Com’è che alla fine quelle rive sono divenute ripostiglio per corpi privi di vita?66

Ogni immagine di bellezza colta sulle strade d’Europa sembra dunque riman- dare a un paradiso perduto che coincide con il paese delle origini: un luogo idealizza- to dal ricordo e brutalizzato dalla storia. Questo modo simpatetico di percepire i luo- ghi d’Europa coesiste però con un senso di totale distacco nei confronti degli Euro- pei, un termine che suona quasi dispregiativo quando l’autrice torna a riflettere sull’incapacità di capire Srebrenica e di onorarne la memoria. È in particolare l’ipocrisia di chi vorrebbe porre sullo steso livello aggressore e aggredito67, di chi misura la storia dei popoli con il metro di una giustizia equidistante distribuendo ad ognuno un uguale porzione di colpa per giungere a un processo di pacificazione tanto rapido quanto nei fatti inconsistente. Per evitare che la storia si ripeta secondo Elvira Mujčić è invece necessario restituire dignità ai morti coltivando una memoria che non sia ossequio indifferenziato. Se la pietà dei sopravvissuti può essere praticata a

66 Ivi, p. 70.

67 A questo proposito l’autrice scrive: “Eh sì, il mondo ci vorrebbe tutti uguali. Le tre parti

coinvolte nella guerra. Ma qualcuno ha mai parlato di una Bosnia riconosciuta indipendente nel 1992? Qualcuno ha mai sentito dire che se un Paese attacca un altro Paese, riconosciuto indipendente, tale azione si chiama Aggressione?” Ivi, pp. 96 – 97.

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pieno diritto sulla tomba di ogni caduto, la memoria civile intesa come scelta consa- pevole di valori da perpetuare deve essere invece selettiva e individuare di volta in volta il confine fra chi è caduto esercitando violenza e chi invece quella violenza ha subito come vittima. La memoria difettosa dell’Occidente è individuata dall’autrice come una delle concause del periodico rampollare della guerra nei territori dell’ex Jugoslavia. E la storia sembra confermare la sua analisi difatti dopo Srebrenica si a- pre la tragedia del Kosovo dove la convivenza fra serbi e albanesi ha già da tempo iniziato a incrinarsi.

Nel 1989 il presidente Slobodan Milošević revoca l’autonomia della provin- cia del Kosovo e impone come lingua ufficiale il solo serbo-bosniaco ottenendo una conseguente radicalizzazione politica della maggioranza albanese che inizia a mani- festare in modo sempre più deciso e militarizzato la propria volontà di indipendenza. Quando infine il conflitto fra la Repubblica Serba e l’UCK, il partito indipen- dentista albanese, insanguina il Kosovo l’Occidente, sceglie la linea interventista e iniziano i bombardamenti Nato sulla Serbia per dissuadere il governo di Milošević dal proseguimento del conflitto. A Pristina, dove truppe serbe mettono in atto la puli- zia etnica contro l’etnia albanese, i caccia americani sorvolano i cieli praticando quella che Elvira Dones chiama con sarcasmo “la piccola guerra perfetta”. Secondo la scrittrice albanese con l’intervento in Kosovo la Nato inaugura infatti una nuova di modalità di conflitto che vedrà varie repliche con le diverse etichette di guerra chi- rurgica, guerra lampo, etc.

La perfezione della guerra è garantita dalla strategia del bombardamento ae- reo che azzera il numero delle vittime nell’esercito attaccante e garantisce dunque di

fronte all’opinione pubblica occidentale il massimo risultato con il minimo sforzo. Dopo la pagina buia dei caschi blu a Srebrenica un nuovo fallimento minerebbe la credibilità della comunità internazionale, ma d’altra parte non si vuole neppure corre- re il rischio di avere caduti di cui dover rendere conto di fronte al proprio elettorato. La strategia dell’attacco via cielo concede ai leader occidentali di dire “al proprio popolo, alla gente che vota: ecco noi abbiamo fatto questa guerra, abbiamo partecipa- to come paese occidentale, ma abbiamo salvaguardato i nostri soldati.”68 Un discorso

a parte nella compagine politica occidentale riguarda il popolo italiano che per la se- conda volta ottiene una valutazione paradossale: se in Rosso come una sposa di A- nilda Ibrahimi i soldati dell’esercito fascista d’occupazione sono considerati dagli al- banesi dei poveri diavoli da aiutare, in Piccola guerra perfetta l’intero popolo italia- no, nonostante la concessione fatta dal governo D’Alema di una base militare alla Nato69

, viene percepito da alcuni cittadini serbi come amico e solidale. La prospettiva straniante e insieme ingenua da cui questo giudizio è emesso -si tratta infatti di af- fermazioni raccolte in una bottega di Pristina affollata di serbi che fanno la spesa- in- duce il lettore a riflettere sull’ immagine internazionale dell’Italia.

Ma veniamo alla dinamica dei fatti. Una delle protagoniste del romanzo, l’albanese Rea, decide di interrompere la sua reclusione per andare a comprare del pane sfidando i posti di blocco dei serbi e le bombe degli americani. Arrivata dal for-

68E. Dones, “Piccola guerra perfetta” in Furbo chi legge Magazine RSI CH Rete Uno, giove-

dì 28 luglio 2011 ore 17,30.

69 D’Alema, allora premier, dichiarò che la concessione delle basi militari italiane nella guer-

ra era un atto dovuto e un effetto automatico della nostra partecipazione alla Nato. Il 24 marzo 1999 aerei di tutti i paesi Nato, inclusi quelli italiani, partirono dalle basi di Aviano e di altre località italia- ne.

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naio ascolta trepidante il chiacchiericcio dei clienti serbi che se la prendono con Bill Clinton e con i leader europei responsabili del bombardamento. Nel coro degli insulti contro “quei frocioni di Bruxelles” si leva a un certo punto la voce di un vecchio che scagiona l’Italia. Il merito va tutto a un politico italiano, tal Lamberto Dini, secondo il quale – riferisce l’anziano – Slobodan Milošević “resta l’interlocutore col quale cercare una soluzione politica alla crisi”.70 A questo punto gli altri serbi commentano che “gli italiani sono brava gente”.

Nella prospettiva di chi attende salvezza l’attacco aereo rivela invece un’invasività disastrosa. Nel racconto di Elvira Dones gli albanesi sono ostaggio sia del fuoco amico che può colpirli dal cielo sia dell’esercito nemico che li circonda e li bracca. E anche la speranza nella guerra lampo promessa dagli americani col trascor- rere del tempo cede il passo allo sconforto. Quando si sparge la notizia che i serbi hanno aperto dei corridoi umanitari per permettere agli albanesi di lasciare Pristina, gli assediati provano un momentaneo moto di sollievo ma ripiombano presto nella paura perché è ancora viva in loro la memoria delle colonne di sfollati in Bosnia e della loro fine. Stretti fra la fiducia obbligata verso il salvatore straniero e il terrore per l’ex vicino di casa i personaggi di Elvira Dones finiranno per testimoniare una guerra agli antipodi della asettica perfezione tecnologica, una guerra che procede per sventramenti, stupri, mutilazioni, un conflitto crudele in cui i corpi con la loro umana imperfezione e fragilità sono sempre posti in primo piano. Dunque mentre l’Occidente volteggia nei cieli dell’intervento umanitario, l’Est discende i gradini dell’orrore.

Perché la presenza degli occidentali riacquisti senso nelle narrazioni dei nostri autori bisogna superare la fase politica e militare e raggiungere i luoghi della cura e dell’assistenza. Il campo profughi di Kukës, dove donne in camice bianco accolgono i corpi martoriati, che è anche il luogo dell’incontro virtuale dei protagonisti dei no- stri romanzi: vi arrivano sia pure in momenti diversi il serbo Zlatan, ferito dal co- mandante del suo stesso reparto dopo il suo tentativo di insubordinazione, e la sua fidanzata l’albanese Aikuna violentata e seviziata dai serbi in L’amore e gli stracci del tempo; vi arriva la tredicenne Blerime, già sulla soglia della morte dopo lo stupro collettivo in Piccola guerra perfetta, e che, grazie alla cura di donne straniere, ritor- nerà a vivere colmando di un sentimento di gratitudine lo zio Arlind, l’unico maschio sopravvissuto del suo clan familiare. Insieme ai medici e agli infermieri che si mo- strano competenti quanto compassionevoli, dall’Europa giungono anche i giornalisti. Il loro ruolo però è ambivalente perché quasi tutti sono in preda a uno sdoppiamento fra la pietà verso la sofferenza delle vittime e il desiderio di renderle spettacolari. Nel romanzo di Elvira Dones la storia di Blerime, la bambina stuprata e torturata, viene trasformata dalle testate giornalistiche in un prodotto commerciale. Eccone la descri- zione dalla prospettiva di Arlind, che pure proprio grazie a due giornalisti della Ra- dio e televisione svizzera, è riuscito a rintracciare la nipote:

Due giorni più tardi all’aeroporto di Zurigo, in attesa dell’imbarco sul volo per Tirana, il volto di sua nipote lo fissa con enormi occhi spalancati: la sua storia e la sua foto sono finite sulle prime pagine dei giornali di mezza Europa.

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Sono andati più o meno tutti nella stessa direzione, variazioni melense e scontate di un titolo tronfio. Lo splendido volto di una ragazzina scampata alla mor- te, un toccasana per le tirature.71

Il rapporto economico perverso fra guerra e interessi occidentali viene dunque riaffermato. Ma il brano appena citato induce anche a riflettere sulla percezione della guerra nell’opinione pubblica occidentale e sulla sua orchestrazione da parte dei me- dia. Immagini di soggetti inermi e violati legittimano infatti reazioni belliciste. In un passo di Maschere per un massacro Paolo Rumiz ricollegava bombardamenti Nato e manipolazione mediatica dell’immagine di sofferenza infantile:

“Vedi che la guerra stessa è costruita per essere un evento televisivo, che il presidente degli Stati Uniti decide i raid aerei della Nato dopo aver visto un servizio della Cnn su tre bambini uccisi sopra uno slittino, non sulla base dei rapporti della sua Intelligence sulla reale situazione sul campo. Tutto diventa apparenza, rappre- sentazione, la verità sembra non essere in alcun luogo.”72

Al contrario di quanto avviene nell’ambito mediatico, la presenza costante di immagini di infanzia violata nel romanzo Piccola guerra perfetta di Elvira Dones, autrice che per altro rifiuta la tesi del non intervento e non si dichiara pacifista73 , non

71 E. Dones, Piccola guerra, cit., pp. 152 – 153. 72 P. Rumiz, Op. cit., p. 45.

73 Alla domanda di una giornalista che le chiede: “Quindi nel ’99 riteneva giusto il bombar-

damento della Serbia?” Elvira Dones risponde: “Non ho una risposta. Tutte le volte che mi faccio que- sta domanda, ne sorge un’altra: cosa sarebbe avvenuto altrimenti? Gli Usa non sono entrati in guerra per amor del Kosovo. Prima c’era stata Srebrenica e il mondo era stato a guardare. Il Kosovo sarebbe stato, per la coscienza del mondo, un altro Ruanda, un’altra Srebrenica. Non potevano stare a guardare un’altra volta. Il tempismo di questo libro è perfetto perché potrebbe far riflettere su quanto avviene in

sollecita nel destinatario una richiesta repressiva ma induce a una riflessione radica- le sulla genesi della violenza medesima. L’assenza dell’antefatto bellico in un ro- manzo, che inizia con il primo giorno di bombardamento NATO, non permette di ri- percorrere l’exalation della paura nelle vittime né di discernere le responsabilità delle parti, ma costringe a valutare il risultato di una latitanza: l’Occidente che scarica dal cielo le bombe mantiene la distanza dal teatro di una tragedia che non ha saputo pre-