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Il quadro della migrazione in terra italiana non sarebbe tuttavia completo se non ci occupassimo anche di coloro che hanno fatto del nostro paese la loro terra e- lettiva maturando una scelta che non subiva l’urgenza della necessità, ma in cui con- fluivano desideri, progetti e affetti inerenti all’Italia. In questo caso le biografie degli autori non recano i segni dolorosi incisi da guerre o crolli di regime, ma rispondono all’apparente “leggerezza” di vite che possono tentare la scommessa di una maggiore felicità e di un riscontro identitario più appagante con gli usi e i costumi collettivi di un popolo. I percorsi biografici delle due autrici, Barbara Serdakowsky (Gryfino, Po- lonia 1964) e Helena Janeczek (Monaco, 1964), che hanno scelto il nostro paese per il piacere di viverci rivelano però una realtà più complessa che deve fare i conti con uno spaesamento originario nascosto fra le pieghe della storia familiare. Helena Ja- neczek è figlia di “una coppia finita per sbaglio nella Germania dell’immediato do- poguerra” dato che, dopo l’internamento della madre nel campo di concentramento di Auschwitz, dove la sua famiglia è stata sterminata, non poteva esserci davvero se- de meno ambita. Nel ’46 però a Zawiercie, il luogo che i genitori di Helena hanno scelto per ricominciare a vivere, giunge la notizia del pogrom di Kielce, una città a una settantina di chilometri a nord, in cui sono morti circa cinquanta ebrei. Decidono allora di scappare verso Occidente e finiscono in un campo profughi degli alleati in Baviera da dove sperano di poter emigrare per gli Stati Uniti. Ma dato che “ai tuber- colotici non viene concesso il visto d’ingresso nemmeno quando sono scappati alle

persecuzioni del nemico nazista”32 ripongono il sogno in un cassetto e finiscono per stabilirsi a Monaco dove, dopo diversi anni, nascerà Helena. Alla figlia dei profughi ebrei la Germania del dopoguerra riserva opportunità di benessere e tranquillità che i genitori decidono di tutelare mantenendo il silenzio sul loro passato. Eppure il radi- camento della bambina nella sua terra natale risulta difettoso e via via che Helena cresce i segni della mancata corrispondenza con il paese in cui vive si fanno più evi- denti in uno stillicidio di reciproche repulse.33

Il suo disadattamento alla Germania è d’altra parte inversamente proporzionale al suo progressivo radicamento in Italia, dove dall’età di un anno trascorre le vacanze estive in una casa sul lago Maggiore e dove tutto sembra attrarla: le persone, i paesaggi, la lingua ed anche ciò che si cucina e si mangia. Non è un caso infatti che, diventata adulta e ormai consapevole della

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H. Janeczek, Lezioni di tenebra, Mondadori, Milano 1997, p. 23.

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Nel racconto dell’infanzia tedesca l’autrice colloca una fase di misteriosa ostilità delle compagne di classe nei suoi confronti che forse avrebbe potuto evitare se si fosse presentata ai loro occhi “immemore e spensierata” invece che gravata dalla “goffaggine” e dalla “vergogna fisica”. H. Janeczek, Cibo, Mondadori, Milano 2002, p. 43. Successivamente il ricordo dell’adolescenza in Ger- mania assume toni espressionistici come nel caso della settimana bianca organizzata dalla scuola du- rante la quale si dorme in “gelide camerate di una grigia fattoria” in un clima militaresco accettato con entusiastico fanatismo dalle sue compagne che tuttavia alla fine crollano proprio sul cibo, di fronte allo “gnocco di fegato…grande come una palla da tennis e della stessa consistenza, che spaccato in due col cucchiaio perdeva sangue nella minestra acquosa”. Ivi, p. 52. Dopo aver raccontato la spedi- zione collettiva alla ricerca di qualcosa di più commestibile, che si traduce nella degustazione di un Milchreis, “il riso-latte caldo guarnito di burro, zucchero e cannella”, Helena chiosa: “Sono brutali e sdolcinati, i tedeschi, perché sono come le mie compagne. Vogliono essere adulte, ma sono infantili. Perché vanno dietro sparate all’insegnante che urla Los geht’s (via si parte), perché si fanno comanda- re, sempre, anche da adulte. E poi mangiano il Milchreis, hanno bisogno del loro Milchreis.” Ivi, p. 54.

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storia della sua famiglia, Helena riconosca proprio nel suo rapporto col cibo la prima emergenza di un passato sommerso:

Vorrei sapere se è possibile trasmettere conoscenze e esperienze non con il latte materno, ma ancora prima, attraverso le acque della placenta o non so come, perché il latte di mia madre non l’ho avuto e ho invece una fame atavica, una fame da morti di fame, che lei non ha più.34

L’appartenenza alla storia del popolo ebraico riemerge dunque attraverso il linguaggio del corpo componendo un caleidoscopio di possibili identità che continua tuttavia ad escludere quella tedesca e che esalta la capacità di accoglienza della patria elettiva italiana:

Appena passavo il confine, ciò che avvertivo come plumbeo o impossibile diventava di colpo leggero, normale. E’ una sensazione che è andata perdendosi in questi decenni, qui in Italia: il fatto di essere accolti calorosamente. C’è una cifra comune a tutte le patrie confluite in me, quella slava e tedesca: la freddezza nell’accogliere l’altro. Venire in Italia, lasciando una città che non mi apparteneva e a cui non appartenevo, è stata una scelta quasi naturale.35

La costruzione dell’identità si fonda per l’autrice sul principio della differen- za, scandito dal refrain materno “noi non siamo tedeschi”, più che sul principio dell’inclusione in una comunità: la stessa radice ebraica per Helena non è patrimonio

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H. Janeczek, Ivi, p. 10.

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In: G. Genna, Helena Janeczek: Le rondini di Montecassino, Carmilla letteratura, imma- ginario e cultura di opposizione 7 maggio 2010,

tramandato ma frutto di una riconquista personale, la lingua polacca ascoltata dai ge- nitori si riduce a un frasario scarno, mentre l’yiddish è lingua imparata “malamente in età adulta”. Potrebbero sembrare indizi deboli per giustificare un’appartenenza della Janeczek al gruppo degli scrittori dell’Est Europa che invece, a mio avviso, ha una profonda ragione d’essere se consideriamo la vocazione testimoniale dei suoi romanzi che recuperano significative pagine della storia polacca e che, soprattutto a livello linguistico, comunicano una tensione costante verso il polacco e l’yiddish, le lingue perdute. D’altra parte anche dopo la scoperta della storia sommersa della pro- pria famiglia nella Janeczek permane una inconsapevolezza di sé o, per meglio dire, una ricerca di consapevolezza che sarà soddisfatta dopo anni quando alcuni segni in apparenza bizzarri andranno infine a comporre un disegno chiaro e intelligibile in un processo di lenta illuminazione. In questo processo gioca un ruolo fondamentale la solidarietà istintiva che Helena, sin da bambina, prova nei confronti dei popoli che lottano contro lo sfruttamento e l’estinzione. Nel 2002 l’autrice scrive:

Amavo i libri che si svolgevano in paesi, e magari in tempi lontani, anche se i personaggi e i popoli soffrivano la fame, pativano la fame e molte altre privazioni, pativano tragedie e soprusi, soffrivano rischiando di morire, anzi di estinguersi. Ma soffrivano insieme. C’era una trama di fatti chiaramente terribili e commoventi, c’erano destini, potevo sognarli nella mia testa, farli continuare con me nel ruolo del- la figlia del corsaro o della sua amata, e se proprio non riuscivo a farne a meno, addi- rizzarne il finale. Ancora oggi, se trovo in giro le foto di un tuareg, di un dajako, di un qualsiasi indio o indiano dipinto per un rito o per la guerra, mi prende una com- mozione lieve, una sorta di complicità così immediata e fugace che non riesco a di- stinguerne l’origine. Vorrei ancora essere con loro, uno di loro.36

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A distanza di otto anni, ne Le rondini di Montecassino37

la Janeczek segue la storia di Charlie Maui Hira, un maori della tribù degli Ngati Walkabout, che si era arruolato poco più che ventenne nell’esercito neozelandese e nel 1944 aveva parteci- pato alla battaglia che aprì le porte alla liberazione di Roma nei pressi dell’Abbazia su cui adesso volano le rondini. L’autrice, commentando uno dei fili narrativi che compongono la complessa trama del suo ultimo romanzo, attribuisce un’importanza significativa alla storia di Rapata,il nipote del veterano Charlie, che arriva in Italia in occasione della commemorazione della battaglia e ha modo di ripensare la storia del nonno nel confronto diretto con i luoghi che lo hanno ospitato. Le due generazioni maori, a detta della stessa autrice, rappresentano la contraddizione vissuta da chi ha cercato nella guerra uno strumento di legittimazione e chi avverte invece lo sfrutta- mento capitalistico del regime inglese, ma in questa scelta narrativa c’è anche un a- spetto emozionale che, pur partendo da sollecitazioni storiche, approda ad altre spon- de di senso. Le parole con cui l’autrice rintraccia il significato profondo della sua predilezione per il popolo maori svelano le origine inconsce del fascino avvertito sin dall’infanzia per le storie tribali, corsare o indiane. A proposito della partecipazione del contingente maori alla battaglia di Montecassino afferma infatti:

Questo piccolo popolo diviene una piccola parte di un esercito più grande. È ciò che accade anche agli ebrei polacchi: un piccolo popolo all’interno di un esercito sottoposto a un tour de force che sembra una violenza del destino. Il racconto sui maori cerca di restituire lo spaesamento a cui furono sottoposti tutti questi protagoni-

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sti. Ho riprodotto alcune parole chiave della lingua maori, ho passato ore su YouTu- be a vedere filmini di feste di compleanno in case maori. Ho studiato la loro storia. Nasce in questo modo l’idea di un risucchio che non porta soltanto alla battaglia di Montecassino – conduce ai lager tedeschi, ma lascia intatta la storia particolare di questi popoli e delle vite individuali.38

Fra piccoli popoli, emarginati prima e utilizzati poi sulla scacchiera politica internazionale nei momenti di scontro più cruento, esistono dunque delle affinità e- lettive e questo, pur nella differenza delle storie, crea compassione e solidarietà fra i loro appartenenti.

Inverso per dati anagrafici, ma complementare per senso, il caso di Barbara Serdakowsky (Gryfino, 1964), polacca per nascita ma già emigrata in Marocco all’età di due anni, in cui la radice est-europea, che sembrerebbe avere una conferma tanto evidente, non si nutre del proprio vissuto, ma di notizie ed esperienze sfuggite al silenzio familiare e successivamente recuperate. A proposito del suo libro Kateri- na e la sua guerra l’autrice racconta infatti:

Katerina è la guerra dei miei, la guerra della quale nessuno ha mai parlato a casa, lontano dai ricordi, distanti, in posti esotici e guaritori, posti che permettevano l’oblio. Ogni tanto lettere dalla nonna, lettere cariche di rimproveri e di dispiaceri, di pretese e di rimpianti, lettere che i miei a volte nascondevano per non sentire il dolo- re delle mille perdite. Katerina è come un eredità che non si sa di possedere fino a che non esce a fiume dagli argini rotti un giorno, cosi, all’improvviso guardando in televisione la disperazione delle persone durante la guerra dei Balcani e in qualche modo nei loro occhi scorgi senza capire quello sguardo che ogni tanto balenava nel più profondo delle pupille dei tuoi senza mai aver osato capire cos’era. La guerra dei

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Balcani divenne la mia, quella che avevo “non vissuto”, la guerra che mi era stata negata, il dolore che non mi era stato permesso di condividere.39

Nell’itinerario a più tappe della vita della Serdakowsky che dal Marocco e- migra in Canada con i genitori, la scelta dell’Italia arriva nel 1996 quando decide di trasferirsi qui con il marito e i tre figli attratta dalla possibilità offerte dall’unione eu- ropea. Anche in questo caso però il radicamento geografico non esclude una voca- zione cosmopolita facilitata dalla conoscenza di cinque lingue e costantemente ali- mentata da frequenti viaggi per motivi artistici. La scrittrice ha partecipato infatti a performance e reading delle sue poesie, sia in forma individuale che di gruppo, in varie sedie europee e, posta di fronte all’esigenza di definirsi in base alle categorie della migrazione e della stanzialità, dichiara:

Lo scrittore migrante e lo scrittore stanziale fanno entrambi parte della gran- de categoria di scrittori. Per tanto scrittrice in generale, migrante se si fa riferimento a certi contesti per definire meglio particolari discorsi, scrittrice transnazionale se si fa riferimento al fatto che nel mio caso la mia esperienza migratoria non si limita a due paesi. Non amo le etichette ma non si può sempre parlare in assoluti. Come ci sono al mondo tanti pessimi scrittori esistono anche tanti pessimi saggisti e letterati che purtroppo fanno un uso improprio di certi termini.40

Non si tratta dunque di sostituire l’etichetta di migrante con nuove e più ag- giornate categorie critiche, ma di detener conto dei contesti in cui le varie definizioni vanno a collocarsi. All’interno della nostra ricerca, che vuole cogliere la traccia della

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Testimonianza rilasciata all’autrice della tesi.

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più recente storia europea nella narrazione letteraria italiana, gli autori provenienti dall’Est Europa assumono il ruolo di testimoni d’eccezione a cui l’esperienza mi- grante conferisce una molteplice prospettiva