I personaggi che accolgono la memoria familiare e la tramandano non spin- gono il loro atto di fedeltà sino all’adesione dogmatica ai valori espressi dalle gene- razioni precedenti. Sembra anzi che la re-interpretazione del passato sia la condizio- ne necessaria per farlo rivivere, mentre l’ortodossia del ricordo possa solo decretarne l’impoverimento e portarlo all’estenuazione. Nel romanzo la memoria appare infatti vitale e dunque in grado di proseguire il suo corso solo se si trasforma combinandosi con le aspirazioni, i desideri e i sogni di chi ne è portatore. Questo processo che am- mette l’alterazione di singoli dati, accoglie le interferenze e giustifica i vuoti è l’unico che garantisce la permanenza del passato nell’oggi senza cadere in un culto sterile. Per esprimere la vitalità del rapporto fra memoria collettiva e rielaborazione personale dei contenuti trasmessi Janeczek sceglie l’immagine del tatuaggio maori dando vita a una metafora che è possibile leggere a vari livelli. Il tatuaggio è innanzi- tutto un esempio di riscoperta della tradizione. Rapata decide di farsi tatuare seguen- do l’esempio del padre, mentre il nonno mostra il suo dissenso nei confronti della “corazza d’inchiostro” con cui le nuove generazioni esibiscono la loro appartenenza a un popolo di guerrieri. Per il vecchio il loro coraggio, che è stato apprezzato perfi- no dal maresciallo Rommel, è difatti espressione del mana interiore e non ha bisogno di esibizioni. In un primo momento Rapata rivendica il ritorno alla tradizione del ta- tuaggio e critica la volontà di adeguamento di chi, come suo nonno, si veste in giacca di tweed come i colonizzatori. Ma poi il giovane si rende conto che suo padre ha da sempre nascosto sotto una virilità bellicosa e tatuata i suoi fallimenti e la sua inettitu- dine ed allora assieme alla figura paterna anche il moko perde per lui il valore e il fa-
scino iniziali. Arrivato a Montecassino Rapata scopre che il tatuaggio maori, declina- to come maori tattoo, viene adottato dalla gioventù locale alla stregua di un brand. Inciso sulla pelle invece che sulle magliette, ma ugualmente decorativo e deseman- tizzato, il tatuaggio indica l’appartenenza di chi lo sfoggia alla tribù globalizzata dei giovani ed ha perduto ogni riferimento etnico. Rapata constata ironicamente di avere meno tatuaggi di un ragazzo italiano e ammette che questa pratica non ha più senso per lui:
Ora ricordava il dolore del tatuaggio come il dolore dell’essersi chiesto, a in- termittenza ma per tutta la durata dell’incisione, che senso avesse farsi ricostruire addosso quelle linee di discendenza tanto ineccepibili quanto campate in aria. E ri- cordava che, quando se ne era andato promettendo di tornare per concludere il ta- tuaggio di cosce e glutei, gli era parso che persino le maschere appese alle pareti del- la marae avessero colto la sua menzogna involontaria. Si ritrovò a pensare, ora, che la cognizione di quel dolore fosse l’unica cosa indelebilmente vera di cui quella volta si era marchiato.118
Nella sua versione letterale il tatuaggio rappresenta una memoria talmente sti- lizzata da diventare puro elemento decorativo come, a diverse latitudini e per diverse motivazioni, dimostrano gli esempi del padre di Rapata e dell’anonimo ragazzo ita- liano. Tuttavia l’immagine del tatuaggio, connessa alla memoria del dolore, conserva un senso se la si interpreta come metafora del rapporto fra storia e destino individua- le:
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Mataora, faccia vivente, era il nome conferito all’antenato che aveva iniziato
i maori al tatuaggio inciso nel volto. Pur tramandandosi negli stessi disegni, il moko si adattava alla faccia di chi lo porta, e in più il lavoro dei muscoli lo rendeva sempre diverso: questa era la differenza fra una memoria viva e una memoria morta.119
Il passato può dunque perpetuarsi solo attraverso un processo di continuo a- dattamento e trasformazione. Niente nuoce di più alla memoria di una fedeltà lettera- le. D’altra parte lo stesso romanzo della Janeczek altro non è se non un moko, un ta- tuaggio che contiene la narrazione della discendenza dagli antenati e che la dispiega sulla sua pelle. I morti nei campi di concentramento, i sopravvissuti e i guerrieri della famiglia hanno lasciato un segno che l’autrice restaura e ravviva con ricerche scrupo- lose, ma la memoria della tribù ebraica da cui discende oltrepassa il compianto e di- viene racconto della costruzione comune di un mondo nuovo dove ogni tribù umana possa godere di pari diritti. Come lei stessa dice: “Nulla di tutto questo sarebbe potu- to accadere se non avessi avuto quattro anni nel 1968”120
. Se cioè non avesse vissuto l’infanzia in un periodo in cui l’Europa iniziava ad aprirsi alla curiosità verso gli altri popoli e così, una bambina di famiglia borghese e benestante, poteva leggere libri per ragazzi ambientati in Amazzonia, in Tibet, in Malesia, giocare con una bambola col poncho e ascoltare la trasmissione radiofonica “Voci di popoli stranieri” registrando nenie e canti provenienti dalle zone più disparate del mondo. Helena rivela però una straordinaria ricettività che col senno di poi è interpretabile come un segno di appar- tenenza:
119 Ivi, p. 105. 120 Ivi, p. 145.
Dovevo essere io che annaspando, brancolando con l’intuito profondo nel non circoscrivibile e non detto, mi ero ritrovata voce di popoli stranieri. Popoli stra- nieri: ero questo. Non importa di qual tribù o qual etnia sfruttata, minacciata in mi- noranza. Ero quello che ero, me lo sentivo dentro. Quando, con la fine dell’infanzia, venni a sapere quale fosse il popolo perseguitato al quale realmente appartenevo, era ormai troppo tardi. Non è possibile ridisegnare attraverso un’informazione il perime- tro di un sentire preesistente al tempo stesso così preciso e così vasto.121
Nel processo di conoscenza, che in questo caso è disvelamento di verità, ha un ruolo centrale l’“intuito profondo”, una sorta di magnete interiore che spinge il soggetto in direzione della sua origine rimossa. Come avviene nei processi inconsci anche in questo caso la comunicazione non è letterale ma analogica: la bambina è at- tratta dalle voci di popoli, classificabili al tempo come esotici, perché sente oscura- mente di appartenere a un luogo che è collocato ben al di fuori del rassicurante peri- metro geografico costituito dalla Monaco di Baviera degli anni ’60. Ma quando infi- ne viene a sapere che il suo albero genealogico affonda le radici nell’ebraismo, l’ibridazione fantastica con i popoli esotici è già diventata una realtà costitutiva del suo stare al mondo e dunque una parte irrinunciabile di sé.
C’è un altro aspetto che è importante segnalare in questa gnoseologia del ri- mosso, ovvero l’inversione del rapporto fra esterno e interno, fra io e mondo. L’autrice ribadisce che non sussiste conoscenza intesa come formulazione di ipotesi sul reale che possa prescindere dal proprio vissuto: “Non si può immaginare nulla di vero senza trovare un appiglio in ciò che si ha dentro”122. Non è dunque conoscenza
ciò che introduce nell’io dati o elementi estranei perché conoscenza è riconoscimento
121 Ibidem. 122 Ivi, p. 146.
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e ritrovamento sotto altre forme di un vissuto profondo. Proprio per questo la memo- ria si propone come base su cui costruire la propria idea del mondo ed insieme come condizione perché si sviluppi l’invenzione letteraria. Non si tratta però di una memo- ria intesa come libro che narra distesamente il passato ma di una memoria mappa in cui sono iscritti alcuni segni che servono ad orientare l’io:
i disegni incisi nell’anima sono, a modo loro, astratti più di una mappa, im- personali quanto un documento, e io ora non posso fare a meno di figurarmeli a im- magine e somiglianza di un moko che confonde nelle sue spire un più recente tatuag- gio: uno dei numeri da A-9800 ad A-9806 che mia madre, dopo la guerra, si è fatta togliere dal braccio.123
Helena Janeczek aveva già affrontato in Lezioni di tenebra il tema del ricordo cancellato ed espunto, il marchio dell’infamia nazista abraso dal corpo della madre:
Sul passaporto tedesco di mia madre c’è scritto che Nina Franziska Janec- zek, nome da nubile Lis, è nata in Polonia il 7/10/1923, ma il passaporto non lo legge nessuno. Così nessuno può leggere il numero inciso nel braccio sinistro, il numero fortunatamente alto, perché registrato nell’estate del 1944, che lei si è fatta togliere come si toglie qualsiasi tatuaggio. Anche le chiazze di psoriasi, malattia delle pelle di ignota origine psicosomatica, non le vede nessuno: sul corpo, ci sono i vestiti, in faccia uno strato di fondotinta che fa da base a un trucco leggero e distinto.124
A più riprese Helena Janeczek ha attestato comprensione, rispetto e persino riconoscenza per il silenzio che i suoi genitori hanno per lungo tempo riservato al lo-
123 Ibidem.
ro passato ebraico, ma a queste affermazioni esplicite di apprezzamento del non detto corrisponde una scelta narrativa inclinata verso la rivelazione della propria identità che coinvolge fatalmente anche l’identità dei propri genitori. Esiste però il problema del tabù familiare che non può essere infranto:
Non scrivere il cognome di tuo padre. -E Perché?- Perché lui non avrebbe voluto assolutamente. –Non ti sembra un po’ esagerato? –Puoi scrivere di me tutto quello che vuoi, ma questa cosa non la devi scrivere.-Allora devo cancellarlo anche
dove riporto l’iscrizione della sua lapide. –Cancella.125
Il passato taciuto, il numero cancellato, la psoriasi nascosta formano una co- stellazione di negazioni familiari che sia pur comprese e rispettate svolgono un’innegabile funzione censoria sia in senso prescrittivo sia come modello interioriz- zato di comportamento. A questo limite e a questa costrizione risponde sul piano nar- rativo una scatto di libertà che si concretizza in un’immagine degli antipodi sia in senso metaforico che letterale: il tatuaggio maori, la faccia parlante del moko, il cor- po inciso ed esibito dei nativi della Nuova Zelanda. Il tatuaggio tribale degli indigeni diviene un logos universale sulla memoria che può includere e comprendere il rimos- so, il numero dell’haftlinger divenuta sobria ed elegante signora borghese, il dolore taciuto della persecuzione e la memoria del padre. Ancora una volta c’è bisogno di uno spostamento di focalizzazione, in questo caso dalla propria cultura alla cultura altrui, dall’estetica borghese del nascondimento a quella tribale del disvelamento, per poter recuperare i contenuti incandescenti della propria storia. Proiettato nelle spire
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del tatuaggio maori e dunque divenuto segno di una narrazione universale anche il numero marchiato sulla spalla di un deportato rivela il suo senso.