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Astrazione e verosimiglianza dello spazio nel romanzo arturiano La quête del cavaliere dalla joie della

5. Tempo e spazio nel romanzo arturiano

5.4 Astrazione e verosimiglianza dello spazio nel romanzo arturiano La quête del cavaliere dalla joie della

Passando ad analizzare la corte arturiana, è indubbio che questa rappresenta primariamente la sede dell‟ideale cortese della joie, nella quale trovano compimento tutte le avventure che da essa si sono diramate. Si tratta certamente di un prodotto dell‟immaginazione, il quale però non nasconde un‟ulteriore finalità, che consiste nel porre in atto ciò che di più virtuoso è presente soltanto in potenza nel cavaliere (Köhler 1970, pp. 50-1).

Tuttavia il fatto che il regno arturiano sembri situarsi fuori del tempo, in una dimensione astratta che nulla ha a che vedere con la realtà, non è che un‟impressione superficiale, in quanto ciò risulta in linea con la coscienza storica di tipo finalistico propria dell‟uomo medievale. Identificando nell‟ideale cavalleresco un percorso finalizzato al raggiungimento della perfezione, il cui scopo è ben chiaro fin dall‟inizio, il romanzo cortese dà adito all‟interpretazione in chiave spirituale degli accadimenti, attraverso la quale è possibile giustificare il carattere specificamente fantastico e rarefatto dell‟universo arturiano. Köhler riconosce in esso l‟espressione poeticamente sublimata, privata della sua consistenza reale e storica, delle istanze di legittimazione nel tempo avanzate dai

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grandi casati, aspirazioni centrifughe rispetto al centralismo monarchico. Il senso ultimo dell‟avventura cavalleresca viene a caricarsi di un valore escatologico (Köhler 1970, pp. 55-8). Su questo sfondo narrativo nel complesso uniforme, costituito dai continui movimenti dei personaggi, si può riconoscere una costante nella sequenza innescata dalla ricerca, la quale costituisce altresì la variabile: in quanto costante, la ricerca contribuisce a mantenere l‟unità formale dell‟opera e a consentirne un‟agevole lettura integrale; nel suo fungere da variabile, invece, tale attività euristica assume di volta in volta una forma diversa, a seconda delle modalità combinatorie in cui figurano disposti i suoi elementi costitutivi (Dalla Palma 1984, pp. 11-2).

Con i romanzi di Chrétien, un nuovo accento è posto sull‟avventura individuale, la quale, occupando un ruolo centrale nel romanzo, è deputata all‟organizzazione delle componenti attanziali e delle coordinate spazio-temporali: dell‟avventura, in particolare, è valorizzata la straordinarietà, ma lo scrittore tende ancor di più a insistere sulla verosimiglianza dei fatti che vi si svolgono, instaurando una sorta di complicità con il pubblico, chiamato a esprimere un giudizio critico. Definendo l‟avventura come il principio che per eccellenza conferisce dinamicità al testo, Danièle James-Raoul ha sottolineato come essa non si fissi in uno schema narrativo, né tantomeno si soffermi su di un determinato contenuto, ma sia solita variare al proprio interno, nonché assumere forme diverse, racchiudendo in sé molteplici peripezie. Malgrado l‟enorme diversità, è tuttavia possibile individuare nell‟avventura un nucleo sostanziale, costituito precisamente dall‟istanza di rottura che tale esperienza immette nella narrazione, «la mention du nom comme étiquetage subjectif d‟un épisode particulier, hautement valorisé et individualisé, l‟insistance sur les déplacements sous figure de l‟errance solitaire» (James-Raoul 2007, p. 272).

Il concetto cortese di aventure viene esaminato da Köhler alla luce della sua trasformazione parallela al diffondersi della leggenda del Graal: da un‟iniziale accezione di impresa autonoma e fatto d‟armi, l‟aventure assume in sé il significato aggiuntivo di accidente fortuito, evento determinato dal caso (Fortuna) e riservato al singolo, nella duplice accezione di conferma del suo valore o di castigo. A seguito di questa fusione concettuale, l‟impresa d‟armi cavalleresca del singolo cavaliere errante ottiene una legittimazione morale in senso cavalleresco. Tuttavia, in questa prospettiva in cui il cavaliere si muove costantemente alla ricerca di avventure, anche il caso viene ad assumere un significato del tutto inedito, perdendo cioè la determinazione contingente che l‟aveva caratterizzato fino ad allora, e finisce per costituire il “principio vitale dell‟aventure” e stimolo all‟evoluzione del personaggio, il quale è chiamato ineluttabilmente a misurarsi con una serie di pericolose prove appositamente predisposte “dall‟alto” per testare le sue capacità personali (Köhler 1970, pp. 91-5).

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L‟avventura dà visibilità all‟individuo, concedendogli di esercitare e di esplicare liberamente la propria agentività. Già per Chrétien è stata messa a punto, da parte della moderna ricerca narratologica, la «théorie des modalités», che consente di delineare come si svolge l‟avventura in ciascun romanzo e di individuare, dunque, alcuni tratti pressoché costanti: anzitutto, essa privilegia i personaggi nella misura in cui essi sembrano incarnare la propria volitività («vouloir»), il proprio potenziale («pouvoir»), nonché le proprie conoscenze («savoir»). Il „volere‟ qualifica più compiutamente l‟eroe romanzesco, giacché il „potere‟ non è che il modo in cui questi dà prova di possedere delle qualità eccezionali; più originale delle due precedenti caratteristiche è senz‟altro il „sapere‟. Con il „volere‟ l‟eroe afferma la propria volontà individuale, il proprio spirito d‟iniziativa, in opposizione a una volontà esterna oppure noncurante di qualsiasi contrasto. L‟iniziativa del personaggio si configura sempre come positiva e mai fine a se stessa, ma audacemente proiettata nel futuro (James-Raoul 2007, pp. 278-9); essa inoltre alimenta il tessuto diegetico del romanzo, riaffiorando nei momenti particolarmente cruciali. Quest‟ultima caratteristica concerne specificamente Chrétien, i cui romanzi appaiono costruiti all‟insegna dell‟«accumulation aventureuse». In essi, inoltre, la volontà dell‟eroe appare invariabilmente suffragata da un „potere‟ indefettibile, che si incarna in una competenza d‟ordine fisico (James-Raoul 2007, p. 282).

Quanto al „sapere‟ dell‟eroe, va detto che esso si può sostanziare in diversi modi, al contrario delle due caratteristiche in precedenza enunciate, le quali appaiono a tutti gli effetti predeterminate e stereotipate. Rappresentando un elemento di sorpresa, il „sapere‟ si concreta in forme di volta in volta diverse, può essere trasmesso ed è solitamente spartito fra più di un personaggio: si allude a tutti quegli individui che costellano il romanzo, denominati «personnages informatifs compétents», la cui funzione immediata è quella di fornire delle informazioni, delle spiegazioni e delle interpretazioni all‟eroe, favorendo in tal modo la progressione del suo cammino e dell‟avventura (James-Raoul 2007, p. 284).

Si è già visto come la corte di Artù rappresenti il fulcro della felicità (joie) e dell‟ordine, in un connubio inestricabile in cui ideale e reale si compenetrano, seppure costantemente insidiata da quanto sta al di fuori di essa. Tutto ciò che è estraneo alla corte, infatti, si caratterizza per la rappresentazione magica e incantata che costituisce lo stigma della sua irriducibile alterità. Ed è questo il teatro in cui si muovono gli sforzi incessanti del cavaliere, il quale è chiamato a difendere la corte e a sciogliere l‟incantesimo che la minaccia, restituendola allo stato di ordine ideale. Ne deriva che il compito che spetta al cavaliere racchiude in sé una duplice determinazione: se da un lato, come si è detto, si presenta come via esemplare per l‟autoperfezionamento etico e per il riscatto del singolo – e ideale sociale verso cui tendere – dall‟altro costituisce il medium per il ripristino dello status quo ante rispetto alla condizione di disordine. Tuttavia la missione del

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cavaliere non è estranea a un senso permanente di precarietà, osservabile nel fatto che la corte si presenta invariabilmente esposta a un anonimo pericolo incombente, reso tanto più minaccioso appunto dalla sua indeterminatezza e arbitrarietà (Köhler 1970, pp. 106-7).

Non sfugge inoltre come l‟impresa sembri proporsi all‟interno di un piano provvidenziale, che predestina un singolo ad assolvere determinate prove in linea con la volontà divina. Considerando in sé la nozione di aventure, emerge il fatto che una sorta di priorità concettuale è accordata alla sua accezione di prova individuale, rispetto alla quale la destinazione alla comunità rappresenta un aspetto secondario: questo perché a monte dell‟epopea cortese risiede l‟idea della netta separazione di singolo e collettività, il cui superamento, così come si realizza nella finzione della poesia cortese, non è che un vagheggiamento letterario di fatto irrealizzabile nella realtà. Ci si potrebbe chiedere come avvenga la ricomposizione della frattura tra l‟individuo e la società: ebbene, la possibilità di un contatto risiede proprio nell‟idea di aleatorietà, che si qualifica come una sorta di principio regolatore dell‟avventura, la cui validità acquista portata universale. Una volta acquisito rigore normativo, l‟avventura esplica tutto il proprio potenziale unificante, in grado di conciliare interno ed esterno, individuo e mondo, benché di fatto il tentativo dimostri invariabilmente un‟efficacia soltanto temporanea e parziale nel raggiungimento dello scopo, come si evince dal concetto stesso, assai autotrasparente, di aventure. Attribuire un valore risolutivo all‟avventura significherebbe pertanto negarne il senso; ecco perché il suo rinnovarsi perennemente corrisponde all‟idea di uno sforzo intenso, seppur illusorio quanto ai risultati conseguiti, destinato a riproporsi in ragione di una problematicità che abbraccia la totalità dell‟esistente. Ecco dunque che la soluzione al problema assume le proporzioni di una ricerca del senso dell‟esistenza, vista come una priorità in virtù della contraddittorietà insita nel mondo (Köhler 1970, pp. 110-5).

Negando la funzione precipua di fattore unificante alla corte di re Artù, Köhler ridimensiona drasticamente l‟importanza delle apparizioni di Artù nella composizione e il relativo influsso sull‟azione principale, costituita dall‟itinerario autonomamente percorso dal protagonista. Köhler intravede nell‟azione dell‟eroe l‟impossibilità di reintegrarsi completamente nella comunità, anche a seguito del ritorno finale alla corte arturiana, giacché il cammino di purificazione portato a termine con successo impedisce a questi un‟assoluta identificazione con la società, con la quale si produce uno scarto irriducibile. Tuttavia questo basta perché si ricavi una generica impressione di un lieto fine con l‟apparente ricomposizione dell‟armonia (Köhler 1970, pp. 328-9).

Ogniqualvolta nel corso dell‟aventure si registri l‟emersione dell‟elemento fantastico o magico, è necessario avanzare qualche considerazione funzionale in merito al fenomeno. Tale elemento si qualifica come estrinsecazione e materializzazione di quell‟alterità che abbiamo definito tipica di quanto si trova all‟esterno della corte arturiana. È opportuno rammentare che la componente magica

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nel Medioevo si presenta invariabilmente suscettibile di una duplice interpretazione, tanto in senso malefico e demoniaco quanto in un senso più felicemente prodigioso, quasi si trattasse di un miracolo. La prima lettura sortisce un effetto negativo, giacché consiste nell‟attribuire un determinato fenomeno irrazionale al demonio, di volta in volta impersonato da varie creature mostruose contro cui il cavaliere arturiano deve combattere. Una volta chiarita questa dinamica ricorrente, non resta che trarre le debite conclusioni. Attribuendo ogni contraddizione a una dimensione antagonistica esterna («antimondo», secondo la denominazione che ne dà Köhler) e, in quanto tale, estranea all‟armonia propria della corte, il regno arturiano costituisce un luogo irriducibilmente a sé, tendenzialmente al riparo da pericolose e inquietanti ingerenze che ambiscono a minarne l‟assoluta concordia. Questo aspetto si configura perfettamente in linea con la concezione dualistica propria della mentalità medievale, che identifica nel male un elemento dialettico da contrastare ad ogni costo. Del resto costituisce un dato di fatto che, a partire dalla seconda metà del XII secolo, si siano verificati rispettivamente l‟elaborazione e il successivo sviluppo della dottrina demonologica, la cui premessa fattuale va senz‟altro identificata nella spiritualità dualistica di cui si è detto. In questa prospettiva, l‟eroe cortese riveste una funzione cruciale: se l‟aventure non è altro che il travagliato percorso finalizzato al ripristino dello status quo ante, che comprende l‟eliminazione della componente diabolica e la reintegrazione dell‟ordine da essa turbato, il cavaliere si qualifica come una sorta di eletto, posto al servizio del bene e di Dio a salvaguardia della pace. L‟istanza pacifista costituisce un tratto caratteristico della cavalleria, intimamente lacerata da numerose contraddizioni. In questo senso, re Artù si propone come il campione della concordia interna al ceto dei cavalieri, benché la sua figura si presenti indeterminata quanto alla sua localizzazione temporale e spaziale. Promanando dal sovrano e rappresentando l‟ideale della pax nella specifica accezione medievale, la corte arturiana e i suoi esponenti scelti, nel loro complesso, costituiscono l‟ordo rerum, uno spazio normato e all‟insegna della joie, malgrado i frequenti tentativi, da parte delle forze antagonistiche, di sovvertirne l‟armonia, stimolando nel singolo l‟istinto di protezione nei confronti della comunità di appartenenza. Ed è peraltro l‟individuo, al centro di questa elaborazione ideologica di matrice chiaramente nominalista, il motore preposto alla risoluzione dei contrasti in chiave escatologica, un‟esperienza esclusivamente possibile nella finzione letteraria romanzesca (Köhler 1970, pp. 138-50).

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