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circolazione della ricchezza

4. Gli atti di commercio dello Stato

Il primitivo progetto borghese di uno Stato ‘minimo’ si rivela ben presto un’illusione; il sogno di una società tutta privata – solo ‘vegliata’ dallo Stato – svanisce quasi subito. Invero, la spinta al contenimento delle funzioni e degli apparati pubblici viene pressoché immediatamente osteggiata, e finisce travolta da una spinta opposta – che nasce anch’essa in seno alla borghesia – tesa al potenziamento delle funzioni statali e alla dilatazione dei rispettivi apparati.205

Le classi detentrici della ricchezza denunciano il progressivo aumento della spesa pubblica, che sottrae risorse alle attività economiche; ma percepiscono, sempre più chiaramente, che l’azione pubblica è condicio sine qua

non per l’imminente sviluppo economico:206 tanto è vero

che chiedono proprio allo Stato di farsi carico della realizzazione delle infrastrutture economiche.207

205

Il segno visibile di questa tendenza è nella progressione dei bilanci dello Stato, a cominciare – già prima dell’unificazione – dal Regno di Sardegna: il bilancio statale, cresciuto di poco nel primo ventennio della Restaurazione, dal 1840 al 1847 già si raddoppia, e nel 1850 si moltiplica di circa quattro volte, pur mantenendo il disavanzo entro limiti tollerabili.

E proseguendo nel Regno d’Italia basti ricapitolare le cifre dei bilanci che, se nel 1862 si calcolano sui 500 milioni di lire, nel 1871 superano i 900 milioni e nel 1876 raggiungono i 1.100 (cfr. GALGANO F., Lex mercatoria, cit., pp. 166-167; CARACCIOLO A., Stato e società civile. Problemi

dell’unificazione italiana, Einaudi, Torino, 1971, pp. 28-30). 206

La percezione è immediata per le imprese militari, fonte principale dei disavanzi pubblici, che spianano la strada all’espansione dei mercati; ma è un fatto che l’intervento pubblico si dispiega anche in settori, come l’istruzione, dove il rapporto con lo sviluppo economico appare più remoto.

La produttività economica delle funzioni sociali dello Stato appare evidente quando – verso la fine del secolo – la tutela dell’igiene e della sanità pubblica diventano compiti dello Stato: il concetto è – così lo esprime Francesco Crispi – che “lo Stato deve proteggere la salute dei cittadini, intesi come

potenza economica e prezioso capitale della nazione” (cfr. GALGANO F.,

Lex mercatoria, cit., p. 167; CARACCIOLO A., Stato e società civile, cit., p. 65).

207

Già prima dell’unificazione, ferrovie, porti, arsenali prendono significato eminente, e la loro cura diventa preciso vanto del governo. “Fintantochè si

tratta solo di opere pubbliche di non difficile esecuzione, o che eccedono le forze dell’industria privata, noi crediamo utile l’intervento diretto del potere

Il vantaggio che la classe imprenditoriale ricava dall’impegno dello Stato nelle opere pubbliche è duplice: non solo essa ‘socializza’ – addossandolo all’intera collettività nazionale – il costo delle medesime, ma dal loro appalto trae, logicamente, ingenti guadagni.208

La classe imprenditoriale confessa, ormai, di non essere in grado di autogovernarsi: oltre che in forma di commesse

pubbliche, gli aiuti di governo vengono sollecitati in forma di incentivi.209 Si delinea così, nettamente, quella che

Antonio Salandra definisce – alla fine del secolo – come “la

connessione fra la doppia tendenza alla accumulazione del capitale e alla estensione delle funzioni dello Stato”.210 Lo

sviluppo ulteriore di questa tendenza – sviluppo che lo stesso Salandra osteggia – si rinviene nelle dirette gestioni

sociale” – afferma il Cavour nel momento stesso in cui tesse l’elogio del

massimo laissez faire.

Dopo l’unificazione, solo nel biennio 1861-62 le statistiche parlano di oltre 140 milioni di lire spesi per metà in strade e ponti; e un raffronto fra il bilancio generale del 1862 e quello del 1882 mostra un aumento della spesa del Ministero dei Lavori pubblici del 125%, secondo solo alla spesa del Ministero delle Finanze e del Tesoro (cfr. GALGANO F., Lex mercatoria, cit., pp. 167-168; CARACCIOLO A., Stato e società civile, cit., pp. 29-31).

208

Sappiamo come le vie ferrate, attraverso la vicenda di concessioni, appalti, privilegi restino – per diversi decenni – uno dei luoghi dove più facili sono i redditi dei capitalisti, più facile il formarsi di grandissime fortune. Sicchè, proprio qui la borghesia italiana viene formandosi una mentalità ‘statalistica’, tutta protesa cioè ad aspettare dagli indirizzi e aiuti di governo le condizioni per il successo dei propri affari (cfr. CARACCIOLO A., Stato e società

civile, cit., p. 31). 209

Si instaura così il regime – già molto esteso nei primi anni dell’unificazione – di aiuto alle imprese private (sovvenzioni, anticipazioni senza interessi, finanziamenti di favore): si pensi al solo caso dei trasporti marittimi dove le sovvenzioni da noli per il trasporto della posta diventano presto, con le convenzioni marittime del 1861, del 1877, del 1893 e con i provvedimenti legislativi del 1885, veri ripianamenti di bilancio (cfr. CASSESE S., Istituzioni statali e sviluppo capitalistico, cit., p. 116).

210 La citazione è in CASSESE S., La formazione dello Stato amministrativo,

Giuffrè, Milano, 1974, p. 17.

Ed è giudizio storico ormai acquisito che – come si esprime il Romeo –

“protezionismo, impegno delle banche nello sviluppo industriale, intervento dello Stato, tutti cioè gli aspetti che gli osservatori liberisti più risolutamente condannano come indici del carattere ‘patologico’ della vita economica e industriale italiana, appaiono invece come condizioni storiche che rendono possibile quella ‘forzatura’ del processo industriale italiano che ha una funzione decisiva nel consentire al nostro paese di inserirsi nell’Europa industriale”; ed un processo che “appunto perché è quello di un paese ‘arretrato’, non può svolgersi secondo gli schemi ‘classici’ dello sviluppo industriale inglese, al quale nella sostanza sono rivolti gli occhi degli osservatori e critici liberisti” (cfr. ROMEO R., Breve storia della grande

pubbliche che dominano i primi anni del Novecento.211 Ed

è significativo constatare come queste ‘statizzazioni’ siano fortemente volute da esecutivi liberali e, anzi, “durante

l’unica fase storica nella quale l’economia italiana è improntata a principi veramente liberali”.212

In ciò il Giannini ha ritenuto di dover scorgere una duplice contraddizione: la prima – di ordine generale – tra l’indirizzo di politica economica liberista e la propugnazione della gestione pubblica di determinate attività; la seconda – di ordine particolare – che consiste nell’inversione delle scelte, per cui si vedono gruppi più conservatori maggiormente inclini a gestioni pubbliche di quanto invece non lo siano gruppi più progressisti.213

Tuttavia, la contraddizione è – a ben guardare – solo apparente. Infatti, essa si dissolve nel momento in cui si introduce l’idea che lo Stato liberale si sostituisce ai privati nella gestione di determinate imprese o di determinati rami della produzione nell’interesse – pur sempre – della classe imprenditoriale privata: e ciò per sollevarla, in particolare, dall’onere di gestire, con il proprio capitale, infrastrutture indispensabili sì al sistema produttivo, ma di per sé non remunerative se non, addirittura, destinate ad una gestione in perdita.214

Ciò premesso, le statizzazioni di fine Ottocento e dei primissimi anni del Novecento dilatano – è vero – lo Stato- apparato, ma non ne modificano la struttura.215

211

Si tratta di quelle ‘statizzazioni’ che abbiamo già messo in evidenza nella nota n. 92.

212

Cfr. SANTORO F., Economia dei trasporti, Utet, Torino, 1966, p. 114.

213

Cfr. GIANNINI M.S., Le imprese pubbliche in Italia, in Rivista delle

società, 1958, p. 232. 214

Questo carattere subalterno dell’attività economica pubblica rispetto all’attività economica privata è messo in tutta evidenza, in particolare, dalla statizzazione delle ferrovie. Essa, infatti, interviene in un’epoca nella quale le esigenze di espansione della produzione industriale rendono necessarie – per la distribuzione dei prodotti come per l’approvvigionamento delle materie prime – una intensificazione della rete ferroviaria ed una sua diffusione capillare per l’intero territorio nazionale. ‘Statizzare’ le ferrovie significa procurare un immenso vantaggio alla classe capitalistica; significa esonerare il capitale privato dall’onere di gestire il servizio. Un vantaggio, in termini di risparmio nei costi di produzione o di distribuzione, pari almeno all’ammontare del disavanzo annuale della gestione statale delle ferrovie – poi distribuito, in sede di imposizione fiscale, fra tutte le classi sociali (cfr. GALGANO F., Lex mercatoria, cit., p. 170).

215

Le istituzioni cui esse danno luogo hanno alcune caratteristiche in comune: sono strutture interne, non esterne all’amministrazione; il personale

Di questa originaria modalità di intervento pubblico nell’economia è evidente riflesso una disposizione codicistica che – per l’epoca nella quale viene formulata – sembra concepita più come un ‘piano per il futuro’ che non come una regolazione dell’esperienza presente. E’ invero l’art. 7 del codice di commercio del 1882 che contempla l’ipotesi che a compiere ‘atti di commercio’ siano lo Stato, le Province e i Comuni.216 La norma –

beninteso – nega che questi enti acquistino, in ragione dell’esercizio professionale dell’attività commerciale, la qualità di commercianti e che ad essi si applichi, dunque, il relativo ‘statuto’. E tuttavia essa dispone che i singoli atti di commercio compiuti siano sottoposti alle leggi e agli usi commerciali.217

Il diritto commerciale diventa così – se non integralmente, quantomeno nelle sue parti più significative – un diritto comune ai privati come ai pubblici operatori economici.218

Vero è che la norma dell’art. 7 del codice Mancini acquista senso ‘se e solo se ‘ posta in rapporto all’art. 2 del codice civile del 1865, che allo Stato, alle Province e ai Comuni riconosce il ‘godimento dei diritti’, ossia la cosiddetta capacità di diritto privato.219

dirigente di queste strutture è burocratico (cfr. CASSESE S., La formazione

dello Stato amministrativo, cit., p. 16). 216

Ma ancora non considera l’eventualità – che a quel tempo non si intravede, o si intravede in casi affatto marginali (come quello delle Casse di Risparmio) – che a compiere atti di commercio siano soggetti pubblici diversi dallo Stato o, comunque, estranei al grande edificio statale (cfr. GALGANO F., Lex mercatoria, cit., p. 171).

217

Sull’innovazione influisce, certamente, il codice di commercio tedesco del 1861 che considera atti di commercio quelli compiuti dall’amministrazione postale (§ 452), ma anche l’evoluzione interna alla struttura del nuovo Stato italiano.

218

Si veda, a questo proposito, il prezioso contributo di BOLAFFIO L.,

Disposizioni generali, in Il codice di commercio commentato, I, Verona,

1902, pp. 312 e ss.

219

All’inizio lo Stato manifesta una certa riluttanza a valersi di tale capacità: così i servizi di trasporto gestiti da pubblici poteri vengono configurati come ‘concessioni di trasporto’ a favore dell’utente; i corrispettivi dei servizi divisibili vengono raffigurati come ‘tasse’ anziché come ‘prezzi’; certe locazioni di immobili diventano ‘concessioni d’uso’ di beni pubblici; nascono figure nuove, come il ‘rapporto di impiego pubblico’.

Poi, l’uso degli strumenti privatistici finisce con l’imporsi. E’ significativo, al riguardo, l’evolversi dei servizi postali e delle telecomunicazioni: dalle poste – servizio pubblico pagato con un ‘bollo’ – si passa ai telegrafi – servizio a ‘corrispettivo’ – e ai telefoni, per i quali il rapporto contrattuale è

Sono le ragioni del crescente statalismo – le stesse che sollecitano l’intervento pubblico nell’economia – a celarsi dietro alla norma in esame. Esse militano per un’azione economica pubblica la più efficiente possibile, e reclamano l’adozione – da parte dei pubblici poteri, nell’esercizio di attività c.d. economiche – dei più agili e congeniali strumenti privatistici (proprio perché nati dalla pratica di queste attività e in funzione di esse).220 Ed è questa

aspirazione ad una efficiente azione economica dello Stato che offre la chiave per comprendere il senso dell’articolo del codice in parola: la cui funzione consiste, essenzialmente, nell’applicare il dettato di questa legge – anziché quello del codice civile – all’attività contrattuale delle imprese pubbliche.221

senz’altro ammesso (cfr. GIANNINI M.S., Diritto amministrativo, cit., pp. 231 e 656).

220

Non è senza significato che ancora oggi – a giustificazione della cosiddetta ‘attività amministrativa di diritto privato’ – si soglia addurre il principio di efficienza della Pubblica Amministrazione e, addirittura, l’art. 97 della Costituzione.

Ciò che – osserva puntualmente Galgano – desta perplessità, perché la norma costituzionale richiamata attiene all’efficienza o, secondo il suo dettato, al ‘buon andamento’ della Pubblica Amministrazione, mentre l’essenza del fenomeno de quo sta nel fatto che i pubblici poteri fanno a meno, per soddisfare le ragioni dell’efficienza, della stessa Pubblica Amministrazione, dando vita ad un apparato affatto diverso da questa, sottratto allo ‘statuto’ (pubblicistico) della P.A. e sottoposto allo ‘statuto’ (privatistico) dell’impresa (cfr. GALGANO F., Lex mercatoria, cit., p. 174, nota n. 30).

221

È questa – si noti – una funzione che, al tempo della codificazione del diritto commerciale, ha scarse possibilità di attuazione, per la limitata presenza di imprese pubbliche e, quanto alle imprese pubbliche esistenti, per la limitata opzione per l’attività di diritto privato. Ma è comunque una funzione che – in progresso di tempo – si dispiega ampiamente.