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circolazione della ricchezza

2. Il problema di una nozione onnicomprensiva

Ma cos’è, più precisamente, l’atto di commercio?

Paolo Spada osserva che questo – invero – è un affare, un’operazione economica e, giuridicamente parlando, un (modello di) comportamento rilevante ai fini della devoluzione delle controversie ai Tribunali di commercio, che si presta ad essere scomposto in una pluralità di comportamenti nella prospettiva di altri modelli giuridici. Non solo – continua – esso presiede alla individuazione del giudice competente (per materia), ma assolve anche, nel sistema del codice, la funzione di ‘presupposto mediato’ dell’applicazione a quanti professionalmente si interpongono nella circolazione della ricchezza o la producono in modo imprenditoriale in virtù di un complesso organico di regole che si designa – ancora oggi, del resto – come statuto: del commerciante ieri, dell’imprenditore oggi.150

Ora, però, riportandoci opportunamente al periodo storico di vigenza del codice Mancini, ben si comprende il motivo per cui – alla luce della sua lettera – la dottrina dell’epoca solleva un problema di carattere sia sistematico-concettuale che pratico.151 Il testo della legge,

149

Al momento in cui – si badi – si afferma l’impresa, l’impossibilità dell’atto isolato è già emersa e, con maggiore evidenza, per gli atti di banca e di assicurazione che, per ottenere la qualifica, non possono essere ‘atti occasionali’, ma devono raggiungere un alto livello quantitativo e – quindi – ripetersi nel tempo.

150

Cfr. SPADA P., Diritto commerciale, cit., pp. 15-17.

151

“Nulla vi ha di più difficile e pericoloso – scrive rettamente Luigi Borsari

– che di voler dare la definizione perfetta dell’atto di commercio, anche

perché non è possibile lo statuire a priori e teoricamente ciò che racchiude tanta parte di soggettivo e d’internazionale e dipende dalla valutazione di fatti e di circostanze. L’atto di commercio talora è considerato nella sua effettualità, talora nel fatto che lo prepara, ora in quegli elementi che ne costituiscono l’esercizio e quindi in quegli altri che sono cooperativi, famulativi od ausiliari di un’operazione commerciale”.

Ed il Marghieri, osservando come questa differenza di concetti dipende, dacchè talora è necessario avere presente l’intenzione, talvolta lo scopo, la modalità e specialmente la forma, alla quale tanto spesso le leggi accordano la prevalenza, soggiunge: “gli scrittori che hanno dato una definizione

infatti, non definisce l’atto di commercio, ma, come il prototipo francese, predispone – nell’art. 3 – una ‘lista’ di atti dalla quale – appunto – le menti più brillanti della cultura giuridica italiana tentano di ricavare una nozione unitaria ed onnicomprensiva del modello normativo che fonda il sistema, alla quale poter riconoscere l’utilità conoscitiva e pratica di estendere l’applicazione del diritto commerciale oltre l’area delimitata dagli atti elencati in quella disposizione.

Ma definire l’atto di commercio implica senz’altro – e ancor prima – la necessità di stabilire che cosa sia il

commercio stesso; di determinarne, cioè, la nozione nella sua accezione – diciamo pure – più ‘materiale’, ossia quella economica.

Leggiamo, in proposito, decine e decine di trattati e monografie di una eterogenea schiera di accademici e

grands commis – che sul finire del secolo monopolizzano rapidamente le cattedre universitarie di economia politica, siedono ai posti di governo ed egemonizzano la stampa periodica – il cui pensiero è eclettico, con un’impronta giuridica e un sottofondo storicistico di derivazione positivistica: Francesco Ferrara (che dirige la Scuola superiore di commercio a Venezia), Luigi Cossa (a Pavia), Angelo Messedaglia (a Padova dal 1858 e a Roma dal 1880), Fedele Lampertico (a Padova), Antonio Ciccone (a Napoli), Alberto De’ Rocchi e Antonio Ponsiglioni (a Siena), Salvatore Majorana Calatabiano (a Catania), Pietro Torrigiani (a Parma e poi a Pisa), Giuseppe Todde (a Modena e a Cagliari), Gerolamo Boccardo (a Genova), Emilio Nazzani (nell’Istituto Tecnico di Forlì) ed Emilio Morpurgo.

Studiamo pure i dibattiti che animano (e infiammano) i principali ambienti scientifico-culturali dell’epoca: dalla

Biblioteca dell’economista152 alla Società Adamo Smith;153 dal

dell’atto di commercio o hanno detto troppo, o non sono giunti a comprendere in essa tutte le varie forme che il commercio presenta” (le

citazioni riportate si trovano in Il diritto commerciale esposto

sistematicamente, vol. 1, p. 158 nota). 152

Diretta dal Ferrara dal 1859 al 1870.

153

Creata – sempre dal Ferrara – a Firenze, vi si riuniscono inizialmente esponenti moderati toscani come Ubaldino Peruzzi, Pietro Bastogi, Pietro Torrigiani, Francesco Protonotari, Gino Capponi, Bettino Ricasoli, Luigi Guglielmo Cambray-Digny; e poi Ludovico Genala, Pietro Sbarbaro,

Congresso degli Economisti, che si apre a Milano nel gennaio 1875,154 all’Associazione per il progresso degli studi economici;155dal Giornale degli economisti156 al Laboratorio di

economia politica di Torino;157 dal Circolo popolare di

Milano158 al Circolo del libero commercio159 e all’Associazione

per la libertà economica.160

Ma ovunque andiamo ad indagare ne riportiamo sempre l’impressione di una grave discrepanza che nella scienza economica tardo-ottocentesca regna circa questa nozione. Qualcuno ha del commercio un concetto larghissimo, e vi comprende tutti gli atti di scambio anche diretto; qualcuno più ristretto, e vi comprende i soli atti di intermediazione nella circolazione diretti ad agevolare il trapasso dei beni dai produttori ai consumatori; altri più ristretto ancora, perché vi comprende i soli atti di intermediazione compiuti in modo professionale. E ancora: a tali atti alcuni aggiungono quelli di carattere ausiliario (mediazione, commissione, deposito, etc.), ma distinguono dal commercio gli atti di trasporto; altri, invece, confondono con il fenomeno anche questi ultimi: anzi, non

Giuseppe Saredo; e uomini della Sinistra, come Agostino Magliani, Salvatore Majorana Calatabiano, Pasquale Stanislao Mancini, Federico Seismit-Doda (più tardi, vi aderiscono Luigi D’Afel, Giuseppe Todde, Carlo Fontanelli, Pietro Rota, Giovanni Bruno, Giovanni Pinna-Ferrà, Tullio Martello, Giovanni Arrivabene, Augusto Barazzuoli, Salvatore Buscemi, Tommaso Corsi, Giulio Franco, Luigi Lucchini, Giuseppe Mantellini, Renato Manzato, Clemente Pellegrini, Jacopo Virgilio, Alberto Levi e Vilfredo Pareto). Organo dell’associazione, L’Economista (rivista fondata nel maggio 1874).

154

Cui partecipano, fra gli altri, Angelo Messedaglia, Federigo Sclopis di Salerano, Cesare Cantù, Pasquale Villari, Giustino Fortunato, Giambattista Giorgini, Simone Corleo, Pier Luigi Bembo, Emilio Morpurgo, Isacco Maurogonato, Gabriele Rosa, Ruggero Bonghi, Paolo Boselli.

155

Promossa dal congresso meneghino, con sede proprio nel capoluogo lombardo e comitati locali in diverse città (Torino, Padova, Bologna, Venezia, Napoli).

156

Prima vera rivista italiana di scienza economica, fondata nel febbraio 1875 da Luigi Luzzatti, Fedele Lampertico, Antonio Scialoja e Luigi Cossa (il periodico, più precisamente, sorge dalle ceneri della padovana Rassegna di

Agricoltura, Industria e Commercio). 157

Dove si formano gli economisti Pasquale Jannaccone e Luigi Einaudi.

158

Dove si riuniscono esponenti parlamentari e giovani industriali, come Giuseppe Colombo, Giulio Prinetti (imprenditore meccanico) e Ludovico Gavazzi (avverso alle tariffe siderurgiche, sospettoso verso la spesa pubblica e le imposte, apertamente liberoscambista).

159

Fondato alla fine del 1891 e presieduto da Giacomo Raimondi.

160

Fondata nel febbraio 1892, vi aderiscono lo stesso Raimondi, Riccardo Gavazzi (presidente), Ludovico Gavazzi (deputato della Destra dal 1892), Ambrogio Carnelli, Ugo Pisa (presidente della Camera di commercio di Milano), Edoardo Giretti, Antonio De Viti de Marco, Maffeo Pantaleoni, Vilfredo Pareto e Ugo Mazzola.

concepiscono commercio senza trasporto, donde la conseguenza che esso non possa estendersi ai beni immobili; mentre qualcun altro pensa che anche a questi si debba estendere.

La confusione non si arresta qui, e l’elenco potrebbe continuare. Ciò si spiega non soltanto con la naturale divergenza di opinioni che si nota in ogni scienza, ma principalmente con il fatto che la nozione di commercio è necessariamente una nozione relativa.

Se si pensa agli stadi di sviluppo che l’economia privata ha dovuto attraversare, considerati dal punto di vista della produzione e delle forme di scambio delle cose prodotte, possiamo logicamente (non anche storicamente) fissare tre momenti. In una prima fase, l’uomo produce tutto ciò di cui ha bisogno, e unicamente ciò di cui necessita, quindi non vi è ancora lo scambio. In una seconda fase, invece, comincia lo scambio, che via via si intensifica e accresce per il progredire della civiltà, che ha moltiplicato i bisogni e ha prodotto la divisione del lavoro; sicchè l’uomo produce quello che può produrre più facilmente e in modo migliore, e si procura con lo scambio ciò di cui ha ancora bisogno, cedendo la parte superflua di quanto ha prodotto: così lo scambio ha luogo direttamente fra produttori, che sono ad un tempo anche consumatori. Infine, in una terza fase, per il crescente numero degli scambi proporzionato al cresciuto numero dei bisogni, sorge la necessità che taluno si dedichi al compito di agevolarli, interponendosi nella circolazione: sorge così lo ‘scambio per lo scambio’, l’attività intermediaria.161

161

E’ noto il grandissimo contributo che la scuola degli economisti storici di Germania ha portato alla determinazione degli stadi di sviluppo dell’economia. Fra le diverse rappresentazioni di tali stadi, quella delineata nel testo si accosta maggiormente alla distinzione operata da Karl Wilhelm Bucher (Die Entstehung der Volkswirtschaft). Anche l’autore, infatti, distingue tre stadi: stadio dell’economia domestica chiusa; stadio dell’economia urbana; stadio dell’economia nazionale.

Tuttavia, la distinzione ha una portata molto più vasta di quella disegnata nel testo, perché investe tutto l’ordinamento economico e non soltanto il fenomeno della circolazione, che ha diretta influenza sulla nozione di commercio.

La distinzione del Bucher ha inoltre un valore propriamente storico, in quanto segue lo svolgimento progressivo dell’economia dei popoli (quella dei Romani e quella di una gran parte del Medioevo appartengono, secondo l’autore, ancora al primo stadio), mentre la distinzione fatta nel testo si fonda – ripetiamo – su elementi esclusivamente logici; e appunto per questo,

Ma è tempo di tornare propriamente alla ‘nostra’ questione definitoria, quella che il codice dell’82 impianta (pur sempre) nei termini più adatti per poterla risolvere e sulla quale si misura la migliore letteratura che su questo raffinato sistema normativo si forma.

Fra tutti i tentativi – si diceva – allora effettuati, meritano di essere ricordati, in particolare, quelli di due illustri professori, diversi tanto nelle origini quanto nell’impostazione sistematica del proprio pensiero: Leone Bolaffio e Alfredo Rocco.162

Il primo osserva, anzitutto, che il commercio si svolge in (e dà luogo a) una indeterminata catena di atti, cui la legge commerciale ricollega gli effetti che le sono propri. ‘Atti giuridici’, quindi: ossia, ‘fatti dipendenti dalla volontà umana’, da un determinato modo di agire (lecito o illecito)163 che produce conseguenze giuridiche.

L’indecisione e l’indeterminatezza dei limiti del

sebbene i contatti fra le due classificazioni siano notevoli, sono notevoli anche le differenze. Infatti nel primo stadio del Bucher i beni sono di regola consumati là dove sono prodotti, ma non è escluso in via secondaria il verificarsi di scambi; nel secondo stadio i beni passano di regola dal produttore al consumatore, ma è riconosciuta esplicitamente, per i beni che non produce il territorio circostante la città, l’esistenza di importanti scambi intermediari.

Si insiste nel dire che la distinzione fatta nel testo ha solo un valore logico. Infatti, per la verità storica, non si deve dimenticare che le economie primitive sono non già individuali, ma collettive: il che, per lo meno, complica lo svolgimento anzidetto delle relazioni economiche, per effetto di quelle che si svolgono entro la collettività. E, sempre per la verità storica, si deve anche considerare che quegli stadi non si succedono così netti nel tempo, ma – oltreché confondersi in nuances di transazione – possono coesistere e coesistono di fatto nel tempo non solo presso popoli di diversa civiltà, ma anche nell’ambito di uno stesso popolo. Ancora oggi è possibile concepire, in un paese civile, l’esistenza di qualche economia con elementi, se non puri, certo prevalenti del primo stadio: basti pensare a qualche romito chiuso fra i monti; o a qualche famiglia dispersa in qualche angolo oscuro. Così pure nello stadio attuale, che è certamente il terzo di quelli descritti (nello stadio che il Bucher chiamerebbe dell’economia nazionale), sono frequenti gli scambi diretti tra produttore e consumatore, che pure sono caratteristici del secondo stadio. Anzi, dobbiamo notare che dalla seconda metà dell’Ottocento in poi si sono venute accentuando circostanze nuove che gli scambi diretti hanno reso sempre più frequenti, quali: l’accrescimento e la facilitazione per numero, per frequenza e per costo dei mezzi di comunicazione tra le persone, e di trasporto delle merci e delle notizie; ovvero l’organizzazione dei produttori e consumatori in sindacati e cooperative.

162

Precisamente: BOLAFFIO L.-CASTAGNOLA S.-GIANZANA S.,

Nuovo codice di commercio italiano. Testo-fonti-motivi-commenti- giurisprudenza, vol. I, Torino, 1883; e ROCCO A., Saggio di una teoria

generale degli atti di commercio, in Riv. dir. comm., 1916, I. 163

commercio, tuttavia, si riverberano sul punto di precisare quali siano gli atti giuridici che rientrano nella sfera del diritto commerciale. Bolaffio afferma che la definizione che gran parte della dottrina dà dell’atto di commercio164

secondo la quale “(…) atto di commercio è un atto

d’interposizione fra produttore e consumatore, rivolta ad effettuare la circolazione della ricchezza, a scopo di lucro, o atto che tende ad agevolarla, per lo stesso scopo (…)” –165 se dal

punto di vista teorico e anche storico è la più giusta, dal punto di vista propriamente economico si presenta già criticabile in sé, perché non riesce – con quella sua formula vaga – a ricomprendere e a scolpire il carattere, e i segni distintivi, di tutta la svariata e multiforme serie di atti in cui si esplica il commercio; ed è una definizione che per di più – soggiunge – si troverebbe in parte contraddetta dalla stessa legislazione commerciale, dal momento che il codice del 1882 considera atti di commercio – per ragioni storiche o per considerazioni di più efficace tutela – atti che non hanno più immancabilmente impresso il carattere commerciale, e, innovando e mutando il suo spirito, raccoglie e qualifica come istituti commerciali istituti che tale carattere non hanno mai avuto: anzi, che vi sono intimamente contrari.166

Il legislatore – prosegue il professore padovano – non ha voluto, e non ha potuto, dare una definizione unitaria di atto di commercio. Al contrario, si è accontentato di farne una enumerazione nell’articolo 3 del codice, per la quale ha dovuto tenere conto di vari criteri in parte coincidenti ed in parte divergenti dal concetto di atto commerciale testè rilevato: concetto che peraltro – sottolinea – rimane sempre, indiscutibilmente, il predominante anche in tale enumerazione.167

E proprio a quest’ultima il Bolaffio muove una critica nella quale si incardina il suo tentativo di arrivare alla formulazione di una nozione onnicomprensiva di atto di commercio.

164

In particolare: Navarrini, Sacerdoti, Schiappoli, Valeri, Setti, Magri, Solmi, Pacchioni e Ottolenghi.

165 Cfr. BOLAFFIO L.-CASTAGNOLA S.-GIANZANA S., Nuovo codice di commercio italiano, cit., p. 100.

166

Ivi, p. 102. 167

In primo luogo, egli considera ‘dimostrativo’ – e non ‘tassativo’ – l’elenco contenuto nella disposizione codicistica in parola: ossia, a suo giudizio, non è esclusa la possibilità che altri atti, oltre a quelli ivi espressamente contemplati, vi siano inclusi dall’interprete; il quale, dunque, potrebbe integrarlo argomentando per analogia, tranne che la specialità del criterio seguito dal legislatore (ragioni storiche, di opportunità etc.) tronchi – di volta in volta – la possibilità di ogni estensione. Che la lista dell’art. 3 abbia tale carattere – osserva l’illustre commercialista – si rivela chiaramente dai lavori preparatori del codice, nei quali si dichiarano commerciali certi atti poi non ricompresi in quell’articolo: opinione confortata dalla considerazione, decisiva, che se così non fosse – se, cioè, l’enumerazione proposta fosse tassativa – sarebbe tolto al diritto commerciale, “(…) andando a ritroso

della tendenza evolutiva che l’anima (…)”,168 ogni possibilità,

appunto, di ulteriore espansione.

In secondo luogo, l’autore sostiene che gli atti elencati nel codice, sia che racchiudano in sé i caratteri essenziali dell’atto di commercio – quale in senso economico si può definire – ossia, interposizione fra produttori e consumatori

fatta a scopo di lucro – sia che per altre ragioni il legislatore abbia voluto considerarli tali, sono comunque atti la cui ‘commercialità’ prescinde totalmente dalla persona che li compie, e non può mai in nessun caso essere esclusa: si tratta, in altri termini, di una ‘statuizione di commercialità’ che viene a determinare ‘oggettivamente’ quale sia la sfera di applicazione del diritto commerciale. Disponendo il codice all’articolo 3 che “La legge reputa atti di commercio

(…)”, lungi dal porre una semplice ‘presunzione’ di commercialità,169 non ha inteso altro che affermare il

carattere imprescindibilmente commerciale di ciascun atto

168

Ivi, p. 103. 169

Come invece fa nel successivo art. 4: norma, questa, di ‘chiusura’ del sistema degli atti di commercio, in cui infatti sono presunti commerciali tutti gli atti compiuti da un commerciante.

Sul punto, si segnalano i contributi di MANARA U., Gli atti di commercio

secondo l’art. 4 del vigente codice commerciale italiano, Fratelli Bocca,

Torino, 1887; Id., Concetto fondamentale dell’art. 4 del codice di commercio

che elenca e di ogni altro atto che ‘analogicamente’ potrebbe rientrare in quell’elenco.170

In conclusione, allora, la nozione onnicomprensiva di atto di commercio che il Bolaffio suggerisce è, sostanzialmente, questa: “atto giuridico non tassativo la cui

imprescindibile commercialità – sia questa prescindente dal soggetto che lo pone in essere o presunta – segna il campo della materia di commercio che la legge assoggetta all’impero del diritto commerciale”.171

Passando ad analizzare la riflessione del Rocco, il giurista napoletano esordisce affermando che, poiché è compito del diritto positivo delimitare la materia di

commercio, è ben naturale che sia la legge stessa a dire quali atti debbano considerarsi come commerciali; in particolare, egli osserva che se è un problema di diritto positivo la delimitazione della materia di commercio – ossia, dei rapporti regolati dal diritto commerciale – è egualmente un problema di diritto positivo la determinazione degli atti di commercio, che sono ‘mezzi’ dei quali la legge si serve per risolvere la prima questione.172

Ciò premesso, Rocco constata che la legislazione italiana – nelle sue disposizioni delimitative della materia

170

Cfr. BOLAFFIO L.-CASTAGNOLA S.-GIANZANA S., Nuovo codice

di commercio italiano, cit., p. 104. 171

La nozione proposta dal giuscommercialista veneto è sostanzialmente accolta – seppure con qualche logica e comprensibile divergenza in punto di motivazione – da certa giurisprudenza (di merito e di legittimità) a cavallo tra Otto e Novecento. Si vedano, in particolare: Cassazione di Firenze 25 marzo 1889 Consulich c. Tosetti, che tiene ferma la sentenza 24 luglio 1888 dell’Appello di Venezia (Temi veneta 1889, p. 199 e 1888, p. 415); Appello di Bologna 16 dicembre 1902 Tamburini c. Fogliani, tenuta ferma dalla sentenza 19 agosto 1903 della Cassazione di Roma (Temi veneta 1903, pp. 31 e 636); Cassazione di Torino 12 novembre 1894 Bernheim utrinque e 4 ottobre 1894 Dapozzo c. Camurriani (La giurisprudenza 1894, pp. 832 e 709); Appello di Venezia 16 ottobre 1892 Zannoni c. Torresin (Temi veneta 1892, p. 853); Appello di Napoli 12 ottobre 1892 Cutolo c. De Feo (Annali 1893, 2, p. 49); Appello di Milano 24 luglio 1895 Zerbini c. Boffer (Monitore

dei trib. 1895, p. 896); Cassazione di Roma 6 agosto 1902 Apis c. Taruschio

(Temi veneta 1902, p. 757); Cassazione di Napoli 22 novembre 1904

Vassallo c. Firmani (Rivista pratica, II, p. 902); Appello di Bologna 24

giugno 1907 Savini c. Gamberini (Temi veneta 1907, p. 721); Cassazione di Firenze 2° febbraio 1905 Trezza c. Bonoris (Temi veneta 1905, p. 232); Appello di Milano 5 maggio 1908 Lombardi c. De Ferrari (Monitore dei trib. 1908, p. 492); Appello di Bologna 30 giugno 1903 Minguzzi c. Amadasi (Temi veneta 1903, p. 579).

172

Cfr. ROCCO A., Saggio di una teoria generale degli atti di commercio, cit., p. 82.

commerciale – non dà una definizione ‘sintetica’ di atto di commercio, ma enumera una serie di attività che essa qualifica come commerciali: si tratta – precisa – di non meno di ventisette categorie di atti considerati come atti di commercio,173 ossia come attività da cui hanno origine

rapporti regolati dal diritto commerciale. Dopodiché egli rileva che la dottrina di gran lunga dominante in Italia – modellandosi sulla opinione invalsa in Germania sotto l’impero del codice generale di commercio del 1861 – distingue, o meglio, ripartisce quelle ventisette categorie di atti di commercio in due categorie più generali, con il criterio in base al quale è dalla legge dichiarata la loro commercialità.174 E così, mentre nella prima confluiscono

gli atti oggettivi (dichiarati commerciali per la loro intrinseca natura, indipendentemente dalla persona che li compie), nella seconda si classificano gli atti soggettivi (dichiarati, o meglio, presunti commerciali perché compiuti da un commerciante).175

Questa distinzione – osserva – ha un fondamento esclusivamente storico: essa cioè – in sostanza – pone in rilievo il fatto che, in seguito ad una lunga evoluzione storica, ad una serie di attività ritenute commerciali perché realizzate da soggetti aventi la qualifica di commerciante si è aggiunta un’altra serie, notevole ed in continua espansione, di attività dichiarate commerciali dalla legge in ragione della loro natura, e senza riguardo alla professione di colui che le compie.176

Ma questa classificazione, a parere di Rocco, ha uno