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Come abbiamo avuto modo di constatare finora, l’Ottocento è il secolo che segna la nascita (e lo sviluppo) di un innovativo sistema economico caratterizzato da un’ampia e sistematica applicazione di capitale alla produzione e insieme dalla scissione della proprietà dal lavoro: ciò accade dapprima in Inghilterra con la Rivoluzione industriale, per poi diffondersi progressivamente nel resto d’Europa e negli Stati Uniti d’America.259 Su di esso si è acceso tra gli storici un

dibattito ormai secolare che ha registrato una varietà piuttosto ampia di posizioni:260 se tutti riconoscono che il

capitalismo si distingue assai nettamente dalle economie precedenti, non c’è invece accordo né sulle cause261 né sui

257

Nel senso di ‘illimitata’ ed ‘arbitraria’, sottratta cioè alla possibilità di essere sottoposta a regole oggettive, riconoscibili a tutti.

258

Cfr. GLIOZZI E., Dalla proprietà all’impresa, cit., pp. 91-92.

259

Per avere un’idea più precisa di questi eventi, cfr. l’agile ed esauriente ricostruzione di MOKYR J., Leggere la rivoluzione industriale, il Mulino, Bologna, 1997.

260

Per una sintesi schematica, cfr. HARTWELL R.M.-ENGERMAN S.L.,

Capitalism, in MOKYR J., The Oxford Encyclopedia of Economic History, Oxford University Press, Oxford, 2003.

261

Tra le altre, le (già ricordate) politiche di laissez-faire, l’industrializzazione, l’espansione del mercato come sistema di circolazione dei beni, l’espansione del commercio internazionale, fattori culturali (cfr., in proposito, WEBER M., L’etica protestante e lo spirito del capitalismo – ed.

tratti distintivi, cioè gli aspetti in cui si riscontra una discontinuità rispetto al passato.

Tuttavia, tra i tanti elementi di distinzione che sono stati man mano evidenziati vi è un dato istituzionale molto importante che accomuna paesi ed epoche diverse, e che proprio nei paragrafi precedenti abbiamo cercato di sottolineare in modo particolare: l’organizzazione della produzione nell’impresa capitalistica, dove i proprietari del capitale hanno il controllo, si appropriano del profitto originato dall’attività produttiva e impiegano lavoro salariato reperito sul mercato. Cruciali sono, soprattutto, quest’ultimo aspetto e i rapporti che ne conseguono tra capitalisti e lavoratori, tant’è che il capitalismo viene spesso caratterizzato come il modo di produzione in cui ‘il capitale assume il lavoro’.

Se questi sono gli elementi fondamentali della forma capitalistica d’impresa dal punto di vista squisitamente economico, le forme giuridiche in cui essa prende concretamente corpo variano invece da paese a paese e nelle diverse epoche dell’evoluzione del capitalismo: non c’è un modello unico o dominante, anche se alcune tipologie – come la società per azioni –262 sono presenti

nella maggioranza dei paesi ad economia capitalistica. Ma questi aspetti, comunque, qui non interessano: ai fini della nostra indagine sono importanti – e lo capiremo ancora meglio a breve – gli elementi di base che ritroviamo nell’impresa capitalistica tout court.

Già dalla definizione datane sopra traspaiono alcuni tratti rilevanti dell’organizzazione sociale del capitalismo. Intanto, si è detto che, affinchè possano esistere capitalisti che ingaggiano lavoro contro una remunerazione monetaria, è necessario che esista una forza-lavoro che si offre per un salario; in una parola, che sia in funzione un ‘mercato del lavoro’. In tutta la storia precedente il lavoro manuale è tipicamente schiavistico, servile o di autonomi lavoratori artigiani, proprietari degli strumenti del proprio lavoro e solitamente inquadrati in corporazioni che ne limitano in varia misura la libertà d’azione: per la

or., Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus, Tubingen, 1920 – Rizzoli, Milano, 1999).

262

verità il lavoro salariato è sempre esistito, ma fino all’Ottocento è piuttosto raro e quello che noi oggi chiamiamo mercato del lavoro è una realtà marginale. E’ grazie al concomitante verificarsi di particolari condizioni sociali e politiche, che in Inghilterra nel XVIII secolo i legami di tipo feudale tra lavoratori manuali da una parte e padroni, signori e corporazioni dall’altra si allentano progressivamente fino a sciogliersi del tutto. Ne consegue che una massa di lavoratori ‘liberi’ – senza altra ricchezza che il loro potenziale di lavoro – si affaccia sul mercato e si offre al migliore offerente contro un salario. La soppressione dei vecchi legami tra i ceti inferiori e i loro padroni/signori segna il passaggio dalla società feudale alla società capitalistica, trasformando questi ceti in masse: i soggetti non si identificano più con interessi locali (del signore, del padrone, della corporazione), ma, essendo sul mercato tutti uguali, diventano portatori di interessi comuni ad una moltitudine di soggetti simili, ovvero – come talvolta si dice – di interessi di classe. Nascono così la classe operaia e la società di massa, premesse dei movimenti sindacali dei lavoratori e dei conflitti sociali che scandiscono la vita del capitalismo sin dalla sua nascita (conflitti sconosciuti, almeno su questa scala, nelle epoche precedenti).

Ancora: abbiamo visto che agli albori del capitalismo – quando questo non è, diciamo, pienamente consolidato e comunque interessa solo una piccolissima frazione del pianeta – sorgono vari movimenti filosofici e politici (su tutti, il marxismo) che mettono in discussione le sue fondamenta, in primo luogo l’organizzazione capitalistica della produzione. Anche questo è un tratto della modernità completamente nuovo rispetto al passato: nessun sistema sociale della storia è stato così ampiamente messo in discussione come il capitalismo. Le condizioni economiche delle nuove masse di salariati sono in molti casi ai limiti della sussistenza e continuamente messe a repentaglio dall’andamento ciclico caratteristico dell’economia capitalistica:263 esse

263

Una questione molto dibattuta e sulla quale la letteratura è divisa è se il capitalismo abbia comportato un peggioramento delle condizioni materiali dei lavoratori. Uno dei primi studi storico-sociologici del problema è di

sono indubbiamente tra le cause dell’opposizione a questa organizzazione sociale che attecchisce in ampi strati della collettività. Curiosamente, tra i primi a manifestarla, troviamo anche membri della borghesia produttiva: Robert Owen, ad esempio, uno dei primi a propugnare ideali socialisti e di tipo cooperativo, è un ricco imprenditore tessile, mosso da motivazioni filantropiche e umanitarie.264

I socialisti utopisti (Owen, Fourier, etc.) già a fine XVIII- inizio XIX secolo cominciano ad ipotizzare modi di organizzazione della produzione alternativi all’impresa capitalistica, in qualche misura basati su elementi comunitari o comunisti. Tra le varie ipotesi e proposte inizia, allora, a circolare anche l’idea di una forma di impresa in cui i lavoratori controllano l’organizzazione e si dividono i profitti: è l’impresa cooperativa di lavoro, in cui, a differenza di quella capitalistica, non c’è contrapposizione tra capitale e lavoro. L’idea di per sé non è nuova: tracce dell’applicazione di metodi cooperativi – soprattutto in agricoltura – si trovano in diverse epoche del passato, perfino nell’antico Egitto e

ENGELS F., La situazione della classe operaia in Inghilterra, Editori Riuniti, Roma, 1972 (ed. or., Die Lage der arbeitenden Klasse in England, Leipzig, 1845), il quale sostiene che il primo capitalismo porta ad un generale immiserimento dei lavoratori. Questa tesi, che ha tenuto banco per lungo tempo e ha avuto importanti implicazioni sul piano politico per i nascenti movimenti di ispirazione socialista, non è oggi generalmente accettata. La questione è passata in rassegna in MOKYR J., Leggere la rivoluzione

industriale, cit. 264

Nato a Newtown (Montgomeryshire) nel 1771 ed ivi morto nel 1858, Owen attua più precisamente nel grande opificio di New Lanark (Scozia) – di cui è comproprietario e direttore – riforme che anticipano di mezzo secolo la legislazione operaia (organizza, fra l’altro, i primi asili d’infanzia per i figli degli operai), ma, nonostante il buon esito e l’interesse suscitato, queste non riescono a diffondersi. Sfiduciato di poter giungere per questa via alla soluzione del problema sociale, elabora quindi un sistema di ‘socialismo associazionista’, in cui i membri di piccole comunità confederate, basate sul lavoro quasi esclusivamente agricolo, avrebbero partecipato, secondo i bisogni, alla ripartizione del prodotto; e cerca di realizzare il suo progetto in America affrontandovi la costituzione di comunità modello (New Harmony, Ind., 1825). Fallito dopo pochi anni l’esperimento, si orienta verso la riorganizzazione dell’industria proponendo di abolire il profitto con la creazione di un sistema di scambio dei prodotti in base alla valutazione del lavoro in essi incorporato. La sua Labour Exchange bank (1832-34) fallisce però rapidamente e la Grand National consolidated Trade Union – sorta nel 1833 come raggruppamento delle maggiori Trade unions inglesi con programma owenista – viene presto disciolta (1834).

nelle civiltà mesopotamiche.265 Di nuovo, invece, c’è

l’applicazione di questi modelli all’industria manifatturiera e la contrapposizione della cooperativa all’impresa capitalistica nel nuovo contesto sociale: va sottolineato che la cooperativa moderna nasce, ed è stata costantemente vista nel corso della sua storia, come un’alternativa all’impresa capitalistica e l’ipotetico sistema sociale basato su di essa – l’economia della cooperazione –266 come alternativo al capitalismo.

Le prime cooperative di lavoro dell’epoca contemporanea sono segnalate agli inizi del diciannovesimo secolo, ma si tratta di esperienze isolate ed effimere. Sempre nell’alveo del movimento operaio prendono corpo anche altre esperienze di cooperazione. Nel 1844 a Rochdale (in Gran Bretagna), dopo uno sciopero fallito, alcuni lavoratori tessili si uniscono per fondare una cooperativa di consumo che diventa poi modello e punto di riferimento di molte altre esperienze del genere: viene aperto da quei lavoratori – passati alla storia come i ‘Pionieri di Rochdale’ – uno spaccio cooperativo con la funzione di contrastare quello della fabbrica, ritenuto troppo svantaggioso per i lavoratori. E’ comunque solo verso la fine dell’Ottocento che il fenomeno cooperativo acquista spessore e si può dire che abbia davvero inizio nei paesi dove poi si è sviluppato, tra cui anche l’Italia.267

Il movimento cooperativo si manifesta sin dalle origini in una varietà di forme organizzative. Per esempio la cooperativa di consumo, pur presentando certamente affinità istituzionali con la cooperativa di lavoro, è tuttavia una forma d’impresa diversa: qui non sono i lavoratori a controllare l’impresa, ma i consumatori; eliminando dal circuito economico il commerciante essa elimina, conseguentemente, il conflitto di interessi che

265

Cfr. WOESTE V.S., Cooperative Agriculture and Farmer Cooperatives, in MOKYR J., The Oxford Encyclopedia of Economic History, cit.

266

Di cui si continua a discutere ancora oggi: cfr., tra gli altri, JOSSA B., La

possibile fine del capitalismo, in Id. (a cura di), Il futuro del capitalismo, il Mulino, Bologna, 2004, pp. 249-286.

267

Per approfondimenti sulla storia del movimento cooperativo in Italia si rimanda a FORNASARI M.-ZAMAGNI V., Il movimento cooperativo in

intercorre tra questo e i consumatori (conflitto che in epoca di mercati scarsamente concorrenziali è un importante motivo di malessere per le classi subalterne). Lo stesso vale, ad esempio, per le banche di credito

cooperativo e altre forme ancora.

Alla varietà istituzionale si accompagna sempre anche una varietà di riferimenti culturali e ideali. Accanto alle filosofie sociali di ispirazione socialista troviamo anche un pensiero sociale che si ispira marcatamente al messaggio evangelico e al magistero sociale della Chiesa Cattolica e che è alla base di importanti esperienze cooperative, inizialmente soprattutto nel campo del credito:268 e basti qui ricordare le idee del tedesco

Friedrich Wilhelm Raiffeisen, che elabora un modello di credito cooperativo e fonda le prime banche cooperative che nei paesi di lingua tedesca ancora oggi portano il suo nome (Raiffeisen Bank);269 e del suo emulo italiano Leone

Wollemborg, pensatore e attivista, finanziere e uomo politico, promotore delle casse rurali (oggi banche di credito cooperativo).270

Dunque, come abbiamo visto, nell’economia (proto) capitalistica si contrappongono due forme alternative d’impresa: quella controllata dai proprietari del capitale; e quella controllata da altre categorie di soggetti

268

Questa diramazione è ancor più antica, essendo addirittura riconducibile ad una tradizione di pensiero e azione che risale al Medioevo: cfr., in proposito, BRUNI L.-ZAMAGNI S., Economia civile. Efficienza, equità e

felicità pubblica, il Mulino, Bologna, 2004. 269

Nato ad Hamm sul Sieg nel 1818 e morto a Neuwied nel 1888, Raiffeisen lascia presto l’esercito ed entra nell’amministrazione, diventando borgomastro di varie piccole città (1846-65). Dedica tutta la sua attività alla diffusione e organizzazione del movimento cooperativo, in cui vede non solo un mezzo per fronteggiare necessità economiche, ma anche uno strumento di rinnovamento morale della popolazione. Nel 1879 fonda a Neuwied il periodico Landwirtschaftliches Genossenschaftsblatt, organo delle cooperative.

270

Nato a Padova nel 1859 e morto a Loreggia (Padova) nel 1932, Wollemborg fonda la prima cassa rurale italiana – la Cassa cooperativa di prestiti di Loreggia – il 20 giugno 1883. Fonda (nel 1885) e dirige (fino al 1904) il periodico La cooperazione rurale. I suoi Scritti e discorsi di

economia e di finanza vengono raccolti da Augusto Graziani nel 1935.

Deputato di centro-sinistra (dal 1892), senatore del Regno (dal 1914), Ministro delle Finanze (nel 1901).

Per approfondimenti sulla storia della cooperazione del credito in Italia, cfr. CAFARO P., La solidarietà efficiente – Storia e prospettive del credito

(lavoratori, consumatori, etc.) che perseguono il soddisfacimento dei propri bisogni materiali.

Nel corso del tempo l’economia politica si pone di fronte ad esse in modi diversi. Gli economisti classici (Smith, Ricardo, Mill, Marx, etc.) hanno come principale obiettivo la comprensione dei fenomeni macroeconomici del capitalismo – come la distribuzione del reddito, la crescita, etc. – e per lo più non si pongono domande sulle cause della sua insorgenza. Una cospicua eccezione – come abbiamo visto – è rappresentata da Marx, che analizza a fondo – ma più in un’ottica storica che di teoria economica (almeno nel senso oggi corrente del termine) – la nascita e lo sviluppo del capitalismo, prefigurando anche aspetti sociali alternativi (socialismo e comunismo). Nessuno però, in quegli anni, si interroga dal punto di vista microeconomico sull’insorgenza dell’impresa capitalistica, che pertanto rimane essenzialmente un dato dell’analisi o, viceversa, scompare del tutto dalla discussione quando si dibattono modi di produzione alternativi al capitalismo: in nessun caso l’impresa capitalistica è oggetto di studio in sé. Altrettanto accade con l’impresa cooperativa: nonostante autori come Mill, Malthus, Marshall, Pareto e altri minori

271si occupino occasionalmente degli ideali cooperativi –

comunque più in un’ottica di filosofia sociale che di analisi economica – è indubbia sia nell’economia classica che neoclassica l’assenza di una vera e propria indagine teorica su questa forma di impresa.

Per lungo tempo, dunque, l’economia politica sostanzialmente ignora il problema dell’impresa e solo in tempi relativamente recenti si comincia ad indagare sulla sua insorgenza, dando così inizio alla moderna ‘teoria dell’impresa’: oggetto di questa sono soprattutto gli aspetti organizzativi del fenomeno (chi organizza e che cosa si organizza, con quali mezzi e strumenti, etc.). Mentre rimangono più a lungo ancora ai margini dell’analisi i contenuti dell’attività dell’imprenditore in

271

Cfr., a questo proposito, l’interessante rassegna di PESCIARELLI E.,

Continuità e asimmetria nell’approccio degli economisti classici al tema degli incentivi personali e della cooperazione, in SALANI M.P. (a cura di),

quanto tale – cioè come decide, perché rischia, come innova, etc. – che invece sono al centro di quella che è nota come ‘teoria dell’imprenditorialità’.272

M. VERRUCCHI – Un prodotto della modernità. L’impresa tra continuità e trasformazione dei paradigmi ottocenteschi

272

In inglese entrepreneurship theory (per una rassegna, cfr. ad esempio CASSON M., Entrepreneurship and the Theory of the Firm, in Journal of

Economic Behavior and Organization, 58, 2005, pp. 327-348) che

traduciamo appunto con ‘teoria dell’imprenditorialità’ per tenerla distinta dalla teoria dell’impresa (firm theory), anche se – si badi – entrambi i termini possono essere, e talvolta lo sono, tradotti con ‘teoria dell’impresa’.