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SOMMARIO: 1. L’impresa come organizzazione del lavoro altrui – 2. Critica della ‘concezione lavoristica’ dell’impresa.

1. L’impresa come ‘organizzazione del lavoro altrui’

Dinanzi, allora, alle evidenti difficoltà in cui si dibatte la dottrina nello spiegare la commercialità dell’impresa – e, per meglio dire, ripudiando l’una e l’altra delle due concezioni testè riferite e criticate – Alfredo Rocco, con una impostazione decisamente originale e riprendendo un precedente spunto del maestro Carnelutti in tema di ‘infortuni’ nelle fabbriche e nelle industrie,506 teorizza che

il fenomeno vada ricercato nel fatto che l’imprenditore realizza una speculazione sul lavoro:507 ossia, ritrova i

caratteri essenziali dell’istituto – nel senso del codice – nella organizzazione del lavoro altrui e nella funzione

intermediaria esercitata dal titolare dell’impresa tra chi presta il proprio lavoro e chi ne riceve i risultati.508

Comincia così, lentamente, a farsi strada l’idea (che troverà una sua eco risonante nel codice civile del 1942) che debba essere considerato imprenditore – e, quindi, assoggettato al diritto commerciale – chi organizza il

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Si tratta del saggio intitolato Il concetto di impresa nella legge su gli

infortuni, pubblicato sulla Rivista di diritto pubblico e della pubblica amministrazione in Italia, 1909, II.

Il contributo si trova anche – dello stesso autore – in Infortuni sul lavoro, vol. I, Roma, 1913, pp. 68 e ss. e in Lezioni di diritto commerciale, Padova, s.d. (ma 1910), pp. 159 e ss.

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Invero, questo elemento della ‘speculazione sul lavoro’ si trova in quasi tutte – beninteso – le forme di impresa che il codice di commercio enumera, e quindi non si può – sotto questo aspetto – che trovare davvero commendevole l’opera di sintesi del Vivante, il quale raggruppa le varie imprese sotto l’indicazione generica di ‘affari sul lavoro’.

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“In tutte [le imprese] noi troviamo che l’elemento specifico, costitutivo dell’impresa, nel senso del codice, è il fatto della organizzazione del lavoro altrui” (cfr. ROCCO A., Saggio di una teoria generale degli atti di

lavoro ‘degli altri’.509 E non deve davvero destare

meraviglia il fatto che sia un cultore (fondamentalmente) del ‘giure’ mercantile,510 a tentare di costruire

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Naturalmente porsi su questa strada significherebbe estendere le regole del diritto commerciale all’attività agricola, quando questa sia organizzata ad impresa (sul problema dell’assoggettabilità dell’agricoltura al diritto commerciale non vi è comunque – come abbiamo avuto modo di constatare – unità di vedute e si sviluppa un ampio dibattito non solo in ordine all’interpretazione del diritto allora vigente, ma anche in ordine all’opportunità di una riforma legislativa. Il ‘Progetto Vivante’ –

Commissione ministeriale per la riforma della legislazione commerciale presieduta dal prof. Cesare Vivante. Progetto preliminare per il nuovo codice di commercio”, Milano, 1922 – con una soluzione di compromesso

prevede che “gli atti attinenti all’esercizio dell’agricoltura non sono

commerciali, a meno che questa non sia esercitata come impresa di trasformazione o di vendita [dei prodotti]”; il verbale delle discussioni che

conducono alla formulazione di questo articolo è riprodotto in Riv. dir.

comm., 1920, I, pp. 116, 20; in quelle discussioni fondamentale è il

contributo di Ageo Arcangeli, Agricoltura e materia di commercio, in Studi

in onore di C. Vivante, vol. II, Roma, 1928, pp. 825 e ss., come d’altronde

importanti sono anche altri contributi dello stesso autore pubblicati nella

Rivista di diritto agrario, fondata da Giangastone Bolla nel 1923).

Per vero, estendere la nozione di impresa all’attività agricola esercitata con uso di mano d’opera dipendente, e, quindi, con modi di gestione capitalistici, è mettere un altro tassello alla costruzione di un diritto commerciale ‘di classe’: alle attività economiche – sia agricole che tradizionalmente commerciali – esercitate con criteri moderni è, infatti, riservato il diritto commerciale, con le sue regole che favoriscono una facile circolazione della ricchezza ed offrono ampia tutela al credito; alle attività gestite con criteri pre-capitalistici (attività artigianali, attività di godimento del fondo, o di gestione dello stesso con contratti parziari) basta, invece, il diritto civile con le sue diverse norme che tradizionalmente favoriscono la conservazione della ricchezza.

Ma Rocco non si limita a razionalizzare l’esistente; percepisce anche che le regole di diritto privato non sarebbero sufficienti a disciplinare la complessità dell’economia moderna. Già nel 1928 fa una sorta di ‘profezia’ (che più tardi risulterà in gran parte azzeccata) sul futuro del diritto privato: una profezia che sembra fare di Rocco un fautore ante-litteram di quel ‘codice dell’economia’ che viene proposto nelle discussioni che precedono la nuova codificazione civile: “ma, certo, se si accentuasse la tendenza alla

socializzazione ed alla statizzazione dei mezzi di produzione, più che di fusione del diritto civile con il diritto commerciale, si dovrebbe parlare di assorbimento, almeno parziale, dell’uno e dell’altro nel diritto amministrativo” (cfr. ROCCO A., Principii di diritto commerciale, cit., p. 73).

Parole simili – per la verità – vengono spese, prima ancora del Rocco, dall’avvocato Angelo Sraffa (allievo di Vivante) nella lezione introduttiva al suo ‘corso di diritto commerciale’ letta all’Università di Macerata l’11 gennaio 1894 (dal titolo, emblematico, ‘La lotta commerciale’); ma mentre la riflessione del giovane giurista pisano è – e resta – confinata nel genere della prolusione accademica, la profezia di Rocco si inquadra sistematicamente in un’opera – i Principii, appunto – di ricostruzione istituzionale del diritto commerciale nel suo complesso.

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Ordinario di diritto commerciale a Urbino, Macerata e Padova (1910-25), Rocco è anche docente di procedura civile a Parma e a Palermo, e di legislazione economica all’Università ‘La Sapienza’ di Roma (della quale è pure rettore dal 1932 al 1935, anno della sua scomparsa).

pionieristicamente un concetto unitario di impresa impiegando termini, e tutto un ragionamento, propri di un ‘giuslavorista’: al pari, infatti, di altre singolari e poliedriche figure di giuristi del suo tempo – si pensi allo stesso Francesco Carnelutti, ma anche a Filippo Vassalli a Vincenzo Manzini –511 l’indagine e il magistero del

giovane Rocco spaziano un po’ su tutta l’area del diritto – ‘prestandosi’ dunque, opportunamente, anche ai primi esperimenti nell’allora neo-nata branca privatistica del

diritto del lavoro –512 mirando, come si è detto, con

ricchezza di idee nuove alla revisione e alla ricostruzione dottrinale degli istituti giuridici.513

Così, nel Saggio più volte citato, egli afferma scultoriamente che vi sarebbe impresa quando la produzione è fatta mediante – appunto – impiego di lavoro altrui; quando l’imprenditore, in altri termini, assume manodopera, la organizza, la dirige, la retribuisce

511

Il primo – avvocato di fama e giureconsulto (‘infaticabile costruttore di concetti’, nel ricordo di Paolo Grossi) tra i maggiori del suo tempo – è ordinario di diritto industriale alla Bocconi di Milano (1909-12), di diritto commerciale a Catania (1912-15), di diritto processuale civile a Padova (1915-35) e nell’Università Statale di Milano (1936-46), di procedura penale a Roma (1947-49). Fondatore (nel 1924) con Giuseppe Chiovenda e Piero Calamandrei della Rivista di diritto processuale civile.

Il secondo è ordinario di diritto romano a Camerino, Perugia e Cagliari e di diritto civile a Genova, Torino e Roma. Dal 1944 al 1955 (anno della sua morte) è preside della Facoltà di Giurisprudenza de ‘La Sapienza’ di Roma. Presidente della Commissione Centrale Forense e giudice della Corte

Costituzionale Siciliana. Dal 1928 al 1942 coordina i lavori preparatori del

codice civile tuttora in vigore (redigendo di suo pugno intere parti dello stesso, come quelle sulla ‘proprietà’).

Il terzo, infine, è avvocato e professore ordinario di diritto e procedura penale a Padova, Ferrara, Torino, Sassari, Siena, Pavia e a ‘La Sapienza’ di Roma. Tra il 1928 e il 1930 – su incarico proprio del guardasigilli Alfredo Rocco – si occupa della redazione del codice penale (tuttora in gran parte vigente) e soprattutto del codice di procedura penale (riformato nel 1955 e, quindi, integralmente sostituito dalla riforma del 1988). Testimoniano il suo ‘multiforme ingegno’ – di omerica memoria – numerosi contributi in materia di ‘titoli di credito’ pubblicati sulla Rivista di diritto commerciale (della quale è, senz’altro, uno dei più brillanti collaboratori).

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Alla nascita e allo sviluppo di un ordinamento giuridico-lavoristico contribuisce, senz’altro, l’istituzione – alla fine dell’Ottocento – dei Consigli

dei probiviri industriali (una forma di ‘giustizia privata’).

Sul modello dei Conseils des proud hommes, che sorgono in Francia verso il 1865-70, essi – costituiti da un presidente e due membri (il primo, solitamente, una figura anziana) secondo il noto brocardo latino tres faciunt

collegium – fronteggiano in prima persona il dramma dei lavoratori, fanno la

loro giustizia e la studiano.

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e la spinge agli scopi della produzione.514 Mentre

nell’impresa secondo l’economia – osserva – è del tutto indifferente il modo con cui tutti i fattori della produzione – fra i quali è anche, certamente, il ‘lavoro’ – sono procurati,515 importanza decisiva ha per la legge proprio la

provenienza del lavoro impiegato: “Se, dunque, le imprese

del codice sono anche imprese economiche – scrive – non tutte le

imprese in senso economico, sono anche imprese nel senso del codice, ma solo quelle, in cui l’elemento lavoro è dato, non già da chi cura la produzione, o almeno, non esclusivamente da lui, ma da collaboratori organizzati e pagati”.516 Inoltre – e conclude –

ogni atto di interposizione nello scambio del lavoro sarebbe, secondo il codice, ‘impresa’, anche se non compiuto sistematicamente e – soprattutto – su vasta scala.517

Per vero, alla determinazione di questo elemento sostanziale della organizzazione del lavoro altrui, il Rocco giunge per via di eliminazione, esaminando singolarmente e attentamente le sette categorie di imprese elencate nell’articolo 3 e riscontrando in tutte – unico superstite – tale fattore comune.518

Nessun dubbio nel contestualizzare storicamente il momento in cui – accanto alle altre correnti precedentemente ricordate – si pone la concezione – per così dire – ‘lavoristica’ del fenomeno imprenditoriale, che trova voce – peraltro – in una autentica ‘selva’ di decisioni

514

Così testualmente: “Secondo il codice, si ha impresa, e quindi si ha atto di

commercio, solo quando la produzione è fatta mediante impiego di lavoro altrui, quando l’imprenditore, in altri termini, recluta il lavoro, lo organizza, lo invigila, lo retribuisce e lo dirige agli scopi della produzione” (cfr.

ROCCO A., Saggio di una teoria generale degli atti di commercio, cit., p. 106).

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Ancora il genio napoletano: “Certo, anche dal punto di vista economico

l’impresa, essendo l’organizzazione della produzione, implica la raccolta e la coordinazione dei vari fattori della produzione, fra cui è il lavoro. Ma nell’impresa, secondo l’economia, è indifferente il modo, con cui tutti i fattori della produzione sono procurati. Come è indifferente che sia adoperato, per la produzione, capitale proprio o capitale altrui, acquistato o preso a prestito, così è indifferente che sia adoperato lavoro proprio o lavoro altrui (…)” (ivi, p. 105).

516

Ivi, p. 106. 517

“E perciò (…) è impresa tanto quella dell’operaio o dell’artigiano o dell’artista, che, mediante l’opera propria, produce a proprio rischio, quanto l’impresa dell’industriale o dell’appaltatore, che impiega centinaia di operai” (ivi, p. 105).

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