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di riforma del sistema

2. Verso un ‘codice unico per le obbligazioni’?

Giunti al termine di questa – speriamo proficua – indagine introduttiva dell’Ottocento giusprivatistico europeo-continentale – e italiano, in particolare – possiamo senza dubbio affermare, soprattutto oggi in una visione storica del sistema più matura, che tutta la legislazione in materia di diritto privato nata dalla (e con la) rivoluzione borghese è, nei suoi caratteri dominanti, una legislazione di classe.

Essa trova nell’ideologia liberale e nell’ordinamento capitalistico dell’economia la propria base e le proprie

285

Troppo forti sono le tendenze degli ambienti economici a mantenere immutata la cornice codicistica del diritto commerciale, ormai familiare e gradita “come un comodo abito usato” (l’immagine suggestiva è di un giurista di allora, ed è riportata in PADOA-SCHIOPPA A., Italia ed

Europa nella storia del diritto, cit., p. 554). 286

Cfr., sul punto, GHISALBERTI C., La codificazione del diritto in Italia, cit., p. 194 (dove, però, l’autore impiega – al posto di “solidarismo e

socialismo giuridico” – l’espressione, più attuale, di democraticismo sociale).

Sul tema, specifico, del socialismo giuridico, cfr., in particolare, VIVANTE C., La penetrazione del socialismo nel diritto privato, in Critica

sociale, 8 e 16 novembre 1902; Id., Le nuove influenze sociali nello studio

del diritto commerciale, in La Riforma sociale, a. I (1894), vol. III; Id., I

difetti sociali del codice di commercio, in La Riforma sociale, a. II (1895),

vol. III; UNGARI P., In memoria del socialismo giuridico. I. Le ‘scuole di

diritto privato sociale’, in Politica del diritto, 1970; SBRICCOLI M.,

Elementi per una bibliografia del socialismo giuridico italiano, in QF, t. II,

strutture, di cui è il puntuale e fedele riflesso; ha come perno la proprietà e l’impresa – quindi i proprietari e gli imprenditori – ed è perciò deputata, in maniera preponderante e sia pur con crescenti elementi e fermenti di contraddizione interna, a disciplinare i rapporti relativi alle classi detentrici della ricchezza e del potere economico; è, infine, debitrice agli istituti classici del diritto civile dei suoi elementi portanti ed al diritto commerciale del suo slancio innovatore.

Ed è proprio il particolare dinamismo aggressivo del secondo, la sua tendenza – cioè – a compenetrare di sé il diritto civile, che esprime e rappresenta in effetti quella spinta e quella forza che cambia, nel corso del diciannovesimo secolo, il volto della società. Ma questo – beninteso – significa soltanto che il diritto commerciale esercita una funzione traente e di punta287 e che in esso si

traducono operativamente i bisogni più diretti ed immediati di una società e di un’economia in trasformazione, non certo che il diritto civile si colloca in una dimensione ‘diversa o subalterna’, sottraendosi alla

contaminazione capitalistica.

Se è vero che il diritto commerciale in quanto sovrastruttura giuridica di un ordinamento economico della produzione e degli scambi a base capitalistica è – come sostiene Ascarelli – “diritto del capitalismo”,288 non è

men vero anche, però, che esso non rappresenta il diritto del capitalismo tout court, di cui esprime piuttosto, nella sua diretta strumentalità all’organizzazione e sviluppo di un determinato sistema economico-sociale, la categoria giuridica più significativa.

Indubbiamente il diritto commerciale ha da sempre una spiccata impronta cosmopolita, che lo differenzia o pare differenziarlo, profondamente, dal diritto civile. Le sue frontiere stanno non tanto nei confini geografici o nei diversi sistemi di produzione e applicazione del diritto –

civil law o common law, per intenderci – quanto piuttosto nelle differenze economiche e di sviluppo degli ordinamenti. Ma è altrettanto innegabile che – oggi – il

287 Cfr. COTTINO G., Diritto commerciale, Cedam, Padova, 1986, p. 4. 288

Così in Sviluppo storico del diritto commerciale e significato

problema dell’avvicinamento, armonizzazione e unificazione riguardi ormai tutti i rami del diritto, e tanto più in quanto si accentui l’integrazione economica e finanziaria fra i paesi ad economia di mercato.

In questa prospettiva allora – essenzialmente storica – sembra perdere importanza quella querelle che alla fine dell’Ottocento divide le menti più brillanti della dottrina giusprivatistica italiana sul problema se sia sostenibile , o meno, un’autonomia legislativa – oltre che scientifica e didattica – del diritto commerciale rispetto al diritto civile.289

La polemica – è vero – si accende presto tra i fautori dei due opposti indirizzi, con ampio sfoggio da entrambe le parti di dialettica vivace.290

Seguirne l’evolversi – anche e soprattutto dando la parola direttamente ai due principali protagonisti, Ercole Vidari e Cesare Vivante – è forse importante ed utile non solo per comprendere i successivi sviluppi del dibattito,291

ma anche per individuare i nuovi problemi e i nuovi

289

Prima del 1882 l’idea di una riunione delle leggi commerciali e civili in un solo codice non ha che qualche raro precursore (cfr., in proposito, MUSSO A., Di una nuova legislazione italiana ossia il codice del diritto privato per

regno d’Italia, in Rivista contemporanea, vol. XXXV, 1863, p. 77;

CIMBALI E., La nuova fase del diritto civile, 4° edizione, Torino, 1907, parte III, p. 357; ELLERO P., Manifesto dell’Archivio Giuridico, in Arch.

Giur., I, 1868, p. 7; PRECERUTTI E., Uno sguardo ai lavori legislativi

d’Italia e d’altri paesi, in Arch. Giur., vol. IV, 1869, pp. 512 e ss. e 526).

Nella seduta della Camera del 25 gennaio 1882, l’On. Indelli auspica – è vero – una tale fusione: “Io non credo di essere un sognatore – dice – se

ritengo che i nostri figli vedranno ancora una più grande riforma unificatrice; che il codice di commercio e il codice civile formeranno un solo corpo di leggi, come quelle che sono l’espressione di un solo diritto diversamente esplicato” (cfr. MARGHIERI A. – a cura di – I motivi del

codice di commercio italiano, Napoli, 1885, vol. IV, p. 668). Ma l’allora

Ministro di Grazia e Giustizia – On. Giuseppe Zanardelli – rispondendo, se afferma che tale unificazione è certamente un alto ideale che si può vagheggiare, non si mostra tuttavia molto persuaso della possibilità di una sua prossima attuazione (ivi, p. 797).

290

Per l’unificazione, benché spesso con non lievi divergenze circa i limiti, i metodi e gli scopi si schierano personaggi del calibro di Cesare Vivante, Leone Bolaffio, Angelo Sraffa, Lodovico Mortara, Umberto Pipia, Enrico Bensa, Giustiniano Lebano, Tullio Urangia Tazzoli, Ippolito Santangelo- Spoto e Luigi Tartufari (ma anche il Tortori, il D’Aguanno e il Vadalà- Papale).

Contro un codice unico delle obbligazioni, invece, si segnalano, principalmente, le figure di Ercole Vidari, Ulisse Manara, David Supino, Luigi Franchi, Francesco Filomusi Guelfi, Alberto Marghieri.

291

E in particolare la stessa ‘conversione’ di Vivante alle idee un tempo così vivacemente criticate (per la quale vedasi meglio, ultra, parte III, cap. 1, § 4).

conflitti che vengono continuamente determinandosi nella turbolenta vita economica e sociale del paese a cavallo tra XIX e XX secolo, e che muovono tutti dal sensibile sviluppo di quel fenomeno giuridico-economico che è l’impresa, cercando ormai di trovare proprio in una sua (sempre più richiesta, perché necessaria) disciplina la loro opportuna soluzione.

Nonostante che solo in tempi piuttosto tardi il diritto commerciale si sia separato da quello civile, esso non può in alcun modo essere considerato – osserva il Vidari in appendice al suo, pluriedito, ‘corso istituzionale’ – come un mero diritto di eccezione rispetto a questo, ma è invece un diritto del tutto indipendente che desume da se stesso la propria ragion d’essere e che ha, pertanto, pieno titolo per essere codificato ‘a parte’ secondo i principi che gli sono peculiari.292 E se non v’è dubbio – come mettono in

rilievo i fautori della fusione – che il diritto civile sia il diritto di tutti i cittadini, e il diritto commerciale quello soltanto di quanti esercitano la mercatura (in particolare, in forma di impresa),293 non bisogna però dimenticare che

– rileva ancora il giurista pavese – “il diritto civile è il diritto

di tutti i cittadini per ciò che si riferisce agli affari civili. Come, da altra parte, si dimentica di avvertire che pure il diritto commerciale è il diritto di tutti i cittadini per ciò che si riferisce agli affari commerciali. In questo senso, infatti, è così diritto generale il diritto civile, come il diritto commerciale; appunto perché ambedue si applicano a tutta la universalità dei cittadini, per quanto concerne un determinato ordine di rapporti sociali”.294 Dunque, l’unificazione sarebbe sconsigliabile,

anzi inattuabile, “pè l’impossibilità – anzitutto – di accordare

uguale valore agli usi nei due diversi campi; pè la sviluppata tendenza alla formazione di un diritto commerciale unico mediante accordi internazionali fra Stati; pè la diversa rapidità 292 Cfr. VIDARI E., Contro un codice unico per le obbligazioni, appendice al Corso di diritto commerciale, 4° ed., Milano, 1894, vol. I, pp. 46 e ss. 293 In questo senso, BOLAFFIO L., Per un codice unico delle obbligazioni,

in Temi veneta, 1889, p. 65; SRAFFA A., La lotta commerciale, Pisa, 1894, pp. 20 e ss.; LEBANO G., Ancora sul codice unico delle obbligazioni, in

Monitore dei trib., Milano, 1894, p. 401; BENSA E., Il codice unico delle

obbligazioni, in Temi genovese, 1889, p. 190; TARTUFARI L., I contratti a

favore di terzi, Torino, 1889, § 103, p. 279. 294

Cfr. VIDARI E., Rapporti del diritto commerciale colla pubblica

con cui l’uno e l’altro diritto si evolvono richiedendo quindi anche l’intervento di riforme legislative; pè la necessità infine che sempre si sarebbe imposta di conservare, anche ridotte in più stretti limiti, norme speciali pei commercianti”.295

Ma proprio a quest’ultimo riguardo, il più acerrimo antagonista del Vidari in questa vexata quaestio – il giuscommercialista veneziano Cesare Vivante – non insiste particolarmente, almeno in un primo momento, sul carattere di ‘classe’ del diritto commerciale: anzi, sembra riconoscere, come tanti altri suoi colleghi che lo precedono,296 che la forza espansiva del diritto

commerciale porterebbe come sua necessaria conseguenza all’unificazione del diritto privato.297

Una profonda fiducia nello sviluppo economico, in quello dell’impresa e nelle capacità del corpo sociale e della classe imprenditoriale di dirimere – superandoli con la filantropia e la solidarietà – i conflitti più acuti caratterizza questa primissima fase della riflessione di Vivante, che non riconosce al diritto il compito di eliminare le distorsioni sociali, le contraddizioni e le

295

Cfr. VIDARI E., Corso di diritto commerciale, cit., p. 62.

296

Si veda, ad esempio, ELLERO P., Manifesto dell’Archivio Giuridico, cit., p. 7 che scrive: “La espansione portentosa della vita economica nelle

moderne società, il vario e rapido e indefinito moltiplicare de’ traffici, de’ trapassi e de’ patti, sembrano non potere più acconciarsi dentro l’angusta e rigida cerchia delle antiche formule. Da ciò il sorgere e il prevalere del diritto mercantile, ch’è parte esso stesso del diritto civile; ma parte progressiva ed invasiva, e forse destinata a trasformare il tutto”.

297

“La storia del diritto commerciale è una storia di continua espansione. Vi è una tendenza evidente, costante, che trae i nuovi fatti economici a preferire la legge del commercio, come più semplice ed efficace. Questa tendenza fu così decisiva, che in qualche paese si credette opportuno di estendere la legge commerciale, almeno in massima parte, a tutti i rapporti economici. Questa felice iniziativa fu di recente attuata nella Svizzera, ove si diede al codice unico delle obbligazioni un contenuto essenzialmente mercantile, giudicando che le consuetudini commerciali fossero abbastanza diffuse in ogni ordine di cittadini per governarli colla medesima legge che era necessaria per la tutela del credito. L’esperienza dimostrerà indubbiamente i vantaggi di quel codice unico, che segnerà un momento solenne nella storia delle legislazioni. Intanto non avete che ad aprire le sue pagine per convincervi come il diritto mercantile, semplice, rigoroso, spedito, abbia ispirato un nuovo alito di vita a tanti vieti istituti del diritto civile che, col pretesto di tutelare la proprietà e la serietà del consenso, impediscono la facile circolazione dei beni, suprema necessità della vita economica” (cfr.

VIVANTE C., Per un codice unico delle obbligazioni, in Arch. Giur., vol. XXXIX, 1887, p. 502).

disuguaglianze economiche, ma piuttosto quello di assecondare un ‘naturale’ progresso della società.298

Nella famosissima prolusione bolognese del 1887,

299tuttavia, non manca la condanna delle “stridenti ingiustizie di molte disposizioni del codice di commercio che furono dettate dalla più evidente soperchieria delle imprese commerciali a pregiudizio dei cittadini”,300 e viene con

sicurezza affermato che con un codice unico le denunciate ingiustizie verrebbero meno, in quanto “in un codice unico

gli opposti interessi dei commercianti e imprenditori pè un lato, e degli altri cittadini pè l’altro, sarebbero regolati spontaneamente con proporzioni più eque e (…) i principi tradizionali del diritto comune resisterebbero alle soperchierie degli speculatori”.301

In altri termini, il codice di commercio ha un vizio di origine: le sue disposizioni non sono il risultato di una vivace dialettica sociale, ma risultano scritte sotto l’influenza delle pressioni di gruppi precostituiti di interessi: in primis, quelli imprenditoriali. Nella visione del maestro veneziano, infatti, il diritto – ed in particolare il diritto commerciale – dovrebbe essere espressione di una

298

Significativa è la visione che Vivante ha della questione sociale drammaticamente evidenziata dalla prima industrializzazione: “Una cura

assidua punge la società moderna, quella di temperare i grandi egoismi del capitale a beneficio di coloro che lo fanno fruttare; quella di disciplinare gli impeti incoerenti, ciechi della beneficienza, che spesso avvilisce chi la riceve o lo lascia alla balia del benefattore, per sostituirla con un ordinamento giuridico del lavoro, capace di risarcire l’operaio della vita che logora dì per dì, e che diverrà impotente prima di essere spenta. Questo diritto nuovo, che attende ancora la sua legislazione, comincia ad attuarsi spontaneamente nell’opificio per solo impulso della speculazione. L’imprenditore sa per prova che l’operaio meglio retribuito lavora più intensamente; che esso pone il cuore tutto intero nell’opera sua quando pensa che, se cade nelle battaglie del lavoro, non mancherà un soccorso né a lui né ai suoi cari. L’imprenditore intende che è meglio rinunciare a una parte del proprio guadagno per farla ricadere in tanta benedizione sulla casa dell’operaio, piuttosto che perderli del tutto cogli scioperi e coi tumulti che arrestano ogni lavoro. Così il tornaconto ben inteso attua le ispirazioni più nobili della morale. (…)” (ivi, p. 504).

299

Tradotta pure in francese in Annales de droit commercial, 1893, I, pp. 21 e ss., con una nota critica di E. Thaller.

300 Cfr. VIVANTE C., Per un codice unico delle obbligazioni, cit., p. 506. 301

Ivi, pp. 506-507.

In termini non dissimili si esprime il suo ‘discepolo spirituale’ – Angelo Sraffa – La lotta commerciale, cit., p. 21: “(…) il codice unico delle

obbligazioni, che dovrà essere il prodotto dei dibattiti cui prenderanno parte tutti gli interessati – mentre alla codificazione commerciale i consumatori si sono sempre tenuti indifferenti (…) – è lecito sperare sia per essere il riflesso degli interessi legittimi dei commercianti e di quelli degli imprenditori.”.

elaborazione collettiva e spontanea, attraverso la quale soltanto è possibile assicurare l’equo contemperamento degli interessi in gioco.

Come giustamente osserva Teti, proprio in questa idea sta il primo, grande limite della proposta dell’unificazione: cosa assicura, invero, che un codice unico

del diritto privato sarebbe espressione di una libera dialettica di interessi e non, piuttosto, la ‘traduzione’ dei bisogni dei gruppi economicamente e socialmente dominanti?302

In una fase successiva, approfondendo la proposta dell’unificazione (idea che – si badi – non rinnega mai completamente durante tutto il suo magistero), Vivante non solo afferma con decisione che l’esistenza di un diritto privato ‘speciale’ per i commercianti non ha fondamento razionale, ma anche accentua la critica al diritto commerciale come diritto ‘di classe’, espressione di un ingiustificato privilegio.303

Egli denuncia, allora, il modello di sviluppo che il codice di commercio mira ad imprimere alla società italiana, indicando quale sia stata, sostanzialmente, l’ispirazione del legislatore.304

302

Cfr. TETI R., Codice civile e regime fascista, cit., p. 50.

303

“(…) siccome il codice contiene esclusivamente le norme che il commercio, specie il grande commercio, si è venuto creando per proteggere i propri interessi, così si costringono tutti i cittadini che contrattano con i commercianti (art. 50) a subire una legge che è fatta a favore di questa classe, infinitamente meno numerosa. Il nostro legislatore chiamò a compilare questo nuovo codice gli industriali, i banchieri, gli assicuratori, i rappresentanti delle grandi società ferroviarie, le Camere di commercio (…), gli uomini che nella professione o nell’insegnamento erano abituati a difenderne gli interessi, e poi disse ai consumatori: ecco il codice che deve valere anche per voi. Quindi n’è uscita una legge di classe, che lascia senza sufficiente tutela chi tratta coi commercianti” (cfr. VIVANTE C., Ancora

per un codice unico delle obbligazioni, in Riv. it. per le scienze giuridiche,

182, riprodotto nelle diverse edizioni del suo Trattato di diritto commerciale, p. 15).

Con ironia scrive il Marghieri: “Mi sia lecito chiedere: chi avrebbe dovuto

chiamare il legislatore? Forse i padri di Monte Cassino o i frati di S. Paolo alle tre Fontane?” (cfr. MARGHIERI A., A proposito della unificazione del

diritto delle obbligazioni, in Riv. dir. comm., 1907, I, p. 493). 304

“(…) come se tutti i cittadini fossero fiorenti quando il commercio fiorisce, come se il supremo interesse del consorzio sociale fosse la prosperità dei commercianti, fummo tutti assoggettati alla legge che questi si sono venuti creando a tutela dei loro interessi” (cfr. VIVANTE C., Ancora

La preoccupazione che lo induce a proporre l’unificazione del diritto privato è quella che con il diritto commerciale codificato ‘a parte’ possa sorgere – appunto – un nuovo particolarismo giuridico, che turberebbe “quella

solidarietà che dovrebbe essere il supremo intento di ogni legislazione”.305

Come si può notare, in questa nuova fase della riflessione vivantiana si profilano i primi sintomi di una crisi di fiducia nei confronti dell’economia liberista e dell’idea – propria dell’Ottocento giuridico – che compito del diritto sia quello di lasciare liberi i soggetti di realizzare i propri interessi, perché solo in questo modo si può realizzare l’interesse generale.306

305

Ivi, pp. 14-15.

Di questa proposta non esistono, tuttavia, nel momento in cui il Maestro scrive, le condizioni storico-politiche: l’Italia di allora è ancora l’Italia del suffragio elettorale ristretto, l’Italia dei due milioni di elettori. Chi può, nella compilazione di un unitario codice di diritto privato, affiancarsi e contrastare coloro che il legislatore dell’82 ha chiamato a redigere il codice di commercio? L’unificazione dei codici sarà senz’altro attuata nel nostro paese, ma sarà attuata – dura replica della storia – dal Fascismo: non nel segno vivantiano, ma – tutto all’opposto – nel segno di quella forzosa ‘commercializzazione’ dell’intero diritto privato che sarà uno dei tanti aspetti di quella più generale ‘forzatura’ del sistema economico e della vita civile e sociale italiana.

Il ‘socialismo giuridico’ del tempo di Vivante è, fatalmente, “un socialismo

giuridico ingenuo e incapace di tradursi giuridicamente”. La valutazione è

di Ascarelli: “il limite della posizione vivantiana era forse quello stesso

dell’Italia giolittiana” (cfr. ASCARELLI T., La dottrina commercialistica

italiana e Francesco Carnelutti, in Rivista delle società, 1960, pp. 3 e 8). 306 Cfr. TETI R., Codice civile e regime fascista, cit., p. 52.

L’occasione che, già qualche anno prima della prolusione di Vivante, fa per la prima volta riflettere la dottrina giuridica italiana sulla crisi del sistema economico liberista e sullo strumento ‘principe’ di questa economia – il contratto, inteso come ‘incontro di libere volontà’ – è il sorgere delle imprese ferroviarie: la società per l’esercizio delle ferrovie rappresenta, infatti, il primo caso di impresa che opera in regime di monopolio e che impone clausole vessatorie ed il cui rifiuto di contrattare con un imprenditore ne può determinare il fallimento.

Al primo congresso delle Camere di commercio, che si tiene a Firenze nel 1867 (le discussioni svoltesi in quella sede sono riprodotte in Atti ufficiali

pubblicati per cura dell’Ufficio di presidenza, Firenze, 1867) si assiste ad

una levata di scudi contro il monopolio delle società ferroviarie da parte dei commercianti che da queste si considerano vessate; successivamente il Vidari pone così, efficacemente, i termini del problema: “(…) come potrebbero mai

i privati difendersi, essi, anche vedendo la condotta iniqua della società dovrebbero per forza tuttavia accettarne i patti, perché di fatto, se non di diritto, per i trasporti su quella linea di strada ferrata la società esercita un vero monopolio (…). I commercianti hanno un gran bisogno di poter sostenere la concorrenza degli altri commercianti; e se i mezzi a ciò acconci ad essi manchino, ogni commercio, si fa impossibile o rovinoso. Perché la concorrenza sia possibile, e senza la concorrenza vi ha monopolio e dispotismo commerciale, è necessario che non solo le spese di trasporto non

Tuttavia Vivante – è importante rilevarlo – non pensa ancora, come rimedio, ad una disciplina non privatistica dell’attività economica, né propone un diritto privato che