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PROPRIETA’ PRIVATA E IMPRESA NELL’ETA’ DEL PRIMO CAPITALISMO E DELLE

2. Finzioni e debolezze del formalismo giuridico

ottocentesco

Ebbene, la (prevedibile) crisi della proprietà privata provocata, nel corso dell’Ottocento, dallo sviluppo dell’impresa può essere imputata non tanto al fatto che un istituto concepito per una società (ancora) essenzialmente agricola viene – per così dire – emarginato dalle strutture giuridiche della nascente società industriale, né tanto meno alla circostanza – puramente immaginaria – che un istituto concepito per soddisfare le esigenze di ‘individui isolati’ si trova a dover convivere con i diversi e più pressanti bisogni di una società sempre più complessa ed organizzata. Piuttosto, le ragioni di questa crisi vanno ricercate nel fatto che un istituto concepito come strumento per consentire a ciascun individuo di ‘appropriarsi’ dei risultati del proprio lavoro228 muta

radicalmente di funzione a causa proprio dello sviluppo dell’impresa, diventando strumento per consentire ad ognuno di appropriarsi dei risultati del lavoro ‘altrui’ e per ‘comandare’ sul lavoro altrui: in altri termini, la crisi va ricercata nel fatto che alla proprietà privata – artigiana e contadina – così come teorizzata nel giusnaturalismo dei secoli XVII e XVIII si sostituisce, nel secolo XIX, quale cardine dell’intero edificio sociale, la proprietà privata

capitalistica che si manifesta – anzitutto – nella struttura organizzativa dell’impresa, fondata per l’appunto sulla separazione della proprietà dal lavoro.229

Poiché infatti nella mutata realtà sociale ottocentesca si sviluppano, con l’industrializzazione capitalistica, nuove contraddizioni e nuovi conflitti che l’apparato teorico – e il metodo di approccio – giusnaturalistico non è (né può, d’altronde, storicamente essere) capace di spiegare, si pone il problema di approntare nuovi strumenti concettuali in grado di agevolare l’analisi delle nuove incoerenze del sistema, onde comprenderne il senso e la direzione di sviluppo.

228

E perciò come strumento di emancipazione individuale dal dominio della feudalità e, allo stesso tempo, di progresso generale della società.

229

Tuttavia, una cosa è superare l’impostazione teorica precedente nella direzione di un sostanziale approfondimento dei relativi strumenti concettuali capaci di fare intendere il senso dei contrasti esistenti nella realtà; altra cosa è, invece, cercare di ‘superare’ tale impostazione voltando formalisticamente le spalle alla realtà stessa, e cercando rifugio nella ‘finzione’ di una realtà diversa da quella effettivamente esistente.230

Orbene, il ripudio del giusnaturalismo negli studi giuridico-privatistici che si sviluppano nel diciannovesimo secolo ha proprio il senso di un ripiegamento su questa seconda alternativa. Invero, alla base del formalismo

giuridico ottocentesco, e dei suoi canoni metodologici, sta essenzialmente un rifiuto di comprendere i meccanismi effettivi della realtà sociale: rifiuto che si traduce, in primo luogo, nell’assunzione a fondamento di ogni argomentazione giuridica ‘valida’ di determinate finzioni che derivano da un modello iper-semplificato – e perciò deformante – della realtà stessa;231 in secondo luogo,

nell’imposizione di un modello di società composta da individui isolati, autonomi e autosufficienti che entrano fra di loro in rapporti ‘casuali’ in massima parte derivanti dalle loro libere volontà.232

Ed è, appunto, la finzione fondamentale della ‘casualità’ dei rapporti sociali – e, quindi, delle diverse posizioni e ruoli sociali nei quali la realtà effettivamente si scompone – che una tale impostazione mira ad accreditare come unico criterio ispiratore al quale il giurista deve ‘scientificamente’ attenersi nell’approccio alla società.233

230

Ivi, p. 102. 231

Il rifiuto di una considerazione teleologica degli istituti giuridici – e quindi il divieto di ricercare nei meccanismi reali della società la funzione e, perciò, la portata effettiva degli istituti giuridici fondamentali – viene infatti dal metodo formalista giustificato in nome dell’autonomia e della peculiarità della scienza giuridica, vincolata al rispetto della legge positiva, la cui logica specifica non tollererebbe l’intrusione di argomentazioni spurie in quanto ‘metagiuridiche’ (e quindi sociologiche o economiche o politiche).

232

Alla stregua di questo modello ben si possono presentare le diverse relazioni sociali, giuridicamente disciplinate, come ‘predicati accidentali’ di un unico soggetto (l’espressione è di Giovanni Tarello, Storia della cultura

giuridica moderna. Assolutismo e codificazione del diritto, vol. 1, il Mulino,

Bologna, 1998, p. 39).

233

Una tale finzione non solo esonera il giurista dal compito di intendere i meccanismi reali che danno forma alle diverse situazioni sociali con le quali lui, per primo, deve quotidianamente confrontarsi, ma impone anche agli

Come risposta ‘di parte’ ai problemi suscitati dalla separazione della proprietà dal lavoro implicata nello sviluppo dell’impresa, il formalismo giuridico del XIX secolo non può che occultare la natura della proprietà privata capitalistica. La funzione di quest’ultima si può cogliere tenendo presente che questa forma di dominio è, anzitutto, un rapporto sociale – tra il proprietario (o meglio, l’imprenditore) ed il produttore immediato (più correttamente, il lavoratore) – per cui, come essa non può sussistere nella realtà se manca uno dei due estremi del rapporto, così non può essere adeguatamente rappresentata sul piano concettuale considerando, unilateralmente, un solo polo del rapporto e rifiutandosi, formalisticamente, di considerare la sua connessione necessaria con l’altro.

Non può, dunque, essere adeguatamente rappresentata la natura della proprietà privata capitalistica da una concezione che tende a ridurre proprio unilateralmente un rapporto ‘sociale’ ad un rapporto tra persone e cose: tale è, appunto, il difetto – o, se si preferisce, la debolezza – della definizione formalistica della proprietà come signoria esclusiva di un soggetto su una cosa – riflesso dell’ideologia dell’individuo isolato –234 dietro la quale

vengono nascosti nell’Ottocento i problemi promossi dall’industrializzazione capitalistica.235 Una tale

concezione, invero, non soltanto non rende conto dello scopo per il quale tale signoria sulla cosa viene garantita dall’ordinamento giuridico,236 ma implicitamente vieta al

giurista di individuare quello scopo stesso, presentando idealisticamente la proprietà privata come un fine in sé o –

studi giuridici di considerare come casuali, e perciò non essenziali per comprendere la ‘natura giuridica’ di un istituto, nessi e rapporti tra situazioni sociali diverse che nella realtà risultano, invece, inscindibilmente connesse essendo i diversi aspetti di un unico fenomeno (cfr. GLIOZZI E., Dalla

proprietà all’impresa, cit., p. 103). 234

Ideologia diffusa, peraltro, in forme più concrete, anche in altri settori delle scienze sociali.

235 Cfr. GLIOZZI E., Dalla proprietà all’impresa, cit., p. 104. 236

Scopo che, appunto, è diverso nelle diverse situazioni proprietarie (che proprio in base alla diversità dello scopo possono essere individuate anche sul piano normativo).

il che è lo stesso – come un mezzo per garantire una sfera di libertà all’individuo isolato.237

Vero è che la proprietà privata capitalistica non può essere formalisticamente ridotta ad un generico dovere di non ingerenza di tutti i consociati in ordine ad una cosa, al quale corrisponderebbe un altrettanto generico potere del titolare di escludere la generalità dei consociati dal godimento di quel certo bene: nella realtà, infatti, la proprietà privata capitalistica può esistere ‘se e solo se’ esista una specifica ‘ingerenza’ dei produttori immediati sui beni che formano oggetto di proprietà; in quanto, cioè, esista – per così dire – un’incorporazione dei produttori immediati con i mezzi materiali di produzione.238

E’ chiaro dunque come il formalismo giuridico ottocentesco, essendo inadeguato a rispecchiare fedelmente la natura della proprietà privata capitalistica, svolga la funzione di deformare la realtà dell’impresa per scopi apologetici. E ciò spiega anche perché, nonostante tale inadeguatezza oggettiva, esso diventi dominante proprio con lo sviluppo del capitalismo industriale, nel secolo XIX: un secolo – a ben vedere – nel quale “il valore

originario e fondamentale è costituito dall’individuo, dalla sua capacità di espandersi sulle cose terrene, di correre il rischio del successo o dell’insuccesso”,239 sì che – dietro l’apologia

dell’individuo isolato – si può oscurare la reale natura della proprietà privata capitalistica, fondata sul dominio sulla larga maggioranza degli individui.

Proprio sulla ‘scia’ dell’ideologia dell’individuo isolato, l’imprenditore dell’Ottocento viene esaltato come “il

237

Non è dunque un caso che questa concezione della proprietà si affermi in stretta connessione con le teorizzazioni del metodo giuridico-formale: presentato dalla Begriffsjurisprudenz come l’unico adatto ad una ‘giurisprudenza scientifica’, un tale metodo si basa infatti sul principio fondamentale della irrilevanza dell’elemento teleologico per una rappresentazione concettualmente corretta della ‘natura giuridica’ degli istituti.

238

Il rapporto di esclusione, che pure sta alla base della proprietà privata capitalistica, ha invece un carattere specifico che dà una forma storicamente peculiare al dominio del capitalista su altri individui: questo, infatti, si basa sull’esclusione specifica dei produttori immediati tanto dal controllo del contenuto e delle finalità concrete della propria attività lavorativa (che sono rimessi, appunto, alle decisioni esclusive del proprietario), quanto dal controllo del prodotto (che rientra – ancora – nella disponibilità esclusiva del proprietario).

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demiurgo del progresso materiale e della abbondanza dei beni, come l’homo oeconomicus, il quale, in virtù della propria abilità

e del proprio coraggio, dà forma al mondo circostante, domina la natura, emancipandosi così dalla generica umanità-ferinità degli altri uomini e dall’eguaglianza naturale di base”.240 Si tratta,

all’evidenza, di una vera e propria esaltazione ideologica, fondata perciò su una finzione: tale è, appunto, la finzione che l’attività produttiva di nuova ricchezza sia “attività

dell’imprenditore e solo dell’imprenditore”, che cioè “i beni o i

servizi, alla cui produzione l’impresa è preordinata” siano “beni

o servizi prodotti dall’imprenditore”241 sì che l’attività

lavorativa dei produttori immediati può essere presentata come meramente esecutiva delle capacità ideative dell’imprenditore stesso; come – in un certo senso – accessoria ed esterna all’attività propria di costui, dimodochè i rapporti tra imprenditore e lavoratori possano perciò stesso configurarsi come “rapporti esterni

all’impresa”, come – in definitiva – puri e semplici “rapporti

di mercato”.242

E’ naturalmente questa finzione che impedisce, almeno fino all’ultimo decennio del secolo, un’analisi proficua e innovativa da parte della scienza giuridica della struttura reale dell’impresa, dei criteri ordinatori sui quali essa si basa e, in particolare, della peculiare funzione che assume in essa la proprietà privata dei mezzi di produzione.243 E

dunque, in conclusione, di nuovo – qui – la ragione per la quale le concezioni formalistiche della proprietà privata sono inadeguate a riflettere la natura specifica della proprietà privata capitalistica.

240

Cfr. BALDASSARRE A., Le trasformazioni dell’impresa di fronte alla

Costituzione, in Democrazia e diritto, 1977, pp. 24-25. 241

Cfr. GALGANO F., Le istituzioni dell’economia di transizione, Editori Riuniti, Roma, 1978, p. 135.

242 Ibidem. 243

Tuttavia, si tratta di una finzione che ha buone probabilità di essere scambiata con la realtà in un’epoca di preponderanza – quale si configura l’Ottocento – di imprese industriali, la cui sorte è, perciò, strettamente legata alla vita e alle vicende personali dell’imprenditore.