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dei fattori della produzione’

2. Critica della ‘concezione economica’ dell’impresa

Orbene, la cosiddetta ‘concezione economica’ dell’impresa non può resistere agli attacchi (inevitabili) di una critica che – per quanto imbrigliata nei limiti di una analisi composta, equilibrata e ragionata del prisma della formula nella quale essa si rifrange – ne metta in luce debolezze e contraddizioni.

Vero è che, pur essendo ispirate a principi scientifici inconcussi, le definizioni di Vivante, Bolaffio e Montessori – e con esse tutte le altre che si plasmano sullo stesso modello, che tutte gravitano intorno al fenomeno della ‘produzione’ e sempre contengono, come elementi essenziali, il ‘prodotto destinato allo scambio’, la ‘organizzazione del capitale, del lavoro e della natura’ e la ‘riunione degli elementi produttivi in vista di uno scopo comune’ –467 risentono troppo della nozione speciale

465

Cfr. MONTESSORI R., Il concetto di impresa negli atti di commercio

dell’art. 3 cod. di comm., cit., p. 514. 466

Ibidem. 467

Così anche il Vidari, il Supino, il Franchi, l’Ottolenghi, il Bruschettini e il D’Amelio.

dell’impresa industriale o manifatturiera da cui sostanzialmente derivano, e di cui sono – per certi versi – la riproduzione o una leggera amplificazione.

Non vi è dubbio che il fenomeno imprenditoriale entri nel campo del diritto commerciale per il tramite della manifattura e dell’industria. Sono queste forme di attività che primariamente cadono sotto la disciplina dettata dalla legislazione mercantile.

Già il diritto statutario equipara per lo più ‘mercanti’ e ‘artigiani’ senza richiedere da essi il coefficiente (moderno) di un’attività espletata mediante una complessa organizzazione;468 e l’ordinanza francese sul commercio terrestre del marzo 1673 sottomette alla stessa competenza dei giudici consolari le controversie per vendite fatte da “marchands, artisans et gens de metier”.469

Giova però rilevare che tale estensione è dovuta al fatto che la legislazione commerciale conserva – allora – un carattere eminentemente processuale, onde la distinzione fra la ‘materia di commercio’ e quella formante oggetto del restante diritto privato ha per scopo, essenzialmente, la determinazione della competenza dei giudici.470

Successivamente, invece, quando la disciplina degli atti di commercio tocca in profondità l’essenza delle cose, e le questioni di competenza giudiziaria passano – pertanto – in secondo piano, fino a scomparire – da noi – con l’abolizione dei tribunali di commercio, l’artigianato e la

468

Illuminante, in proposito, la lettura dello specifico contributo di un autentico maestro della storia del diritto mercantile: LATTES A., Il diritto

commerciale nella legislazione statutaria delle città italiane, Hoepli, Milano,

1884.

469

L’articolo 4 dell’ordinanza recita testualmente: “Les juges et consuls

connoistrons des differendo pour ventes faites par les marchands artisans et gens de metier, afin de revendre ou de travailler de leur profession: comme à tailleurs d’habits pour stoffe passemens et autres fornitures: boulangers et pàtisiers, pour bled et farine; maçons pour pierre moellon et plastre; charpentiers, menuisiers charrons tonnelliers et tourneurs, pour buis; serruriers, maréchaux, taillandiers et armuriers, pour fer: plombiers et fontainiers, pour plomb, et autres semblables”.

470

La distinzione fra ‘mercanti’ e ‘artefici’ – trascurata dagli statuti – interessa però gli scrittori come lo Stracca, che nel suo Tractatus de

mercatura, cit., osserva: “quicumque rem comparat, non ut integram ita et immutatam vendat, sed ut materia sibi sit aliquid operandi, ille non est negotiatur”. E aggiunge poi: “evenit tamen plerumque ut mercatores merces emant easdemque non sua opera sed aliena elaborandas (…)” stabilendo in

tal modo la caratteristica dello sfruttamento del ‘lavoro altrui’, che è in sostanza l’elemento specifico ravvisato da Rocco nelle imprese dell’art. 3 del codice di commercio (v. sul punto, ultra, parte II, cap. 4, § 1).

mercatura esulano dal campo commerciale, dove rimane la sola impresa manifatturiera e industriale.471

E, tuttavia, le ragioni che determinano la disciplina delle imprese industriali come atti, o complessi di atti oggettivamente commerciali, e cioè la necessità – per tali organismi complessi – di essere regolati da una legge che renda facile la conclusione dei contratti (e la loro prova) e che agevoli il ricorso al credito, si impongono tosto anche per le altre organizzazioni che non presentano i caratteri

471

Sul carattere eminentemente processuale conservato per lungo tempo dal diritto commerciale in relazione alla sua origine prevalentemente ‘giudiziaria’, vedasi – fra l’altro – la nota n. 2 del Saggio, cit., di Rocco a pag. 82, con richiamo da parte dell’autore al Goldschmidt.

Merita – qui – ricordare opportunamente che il fatto che il concetto di ‘materia di commercio’, e con esso quello di ‘diritto commerciale’, si siano sviluppati nell’ambito del diritto processuale, è vero non solo per il periodo medievale (nel quale ha avuto origine, e durante il quale si è sviluppato ininterrottamente, il nostro moderno diritto mercantile), ma è vero anche per ogni momento storico in cui si è potuto formare un diritto speciale per gli affari commerciali.

Così, già in Atene le necessità dei traffici portano alla creazione di una speciale magistratura, investita della cognizione degli affari di mercato e costituita dapprima da giudici chiamati nautodikai, e poi – nel VI sec. a. C. – dai thesmothetai; le azioni che vengono sottoposte al loro giudizio sono le

dikai emporikai (illuminanti, tra gli altri, gli studi in materia condotti dal

Meier, dallo Schomann, dal Beauchet, dal Pauly, dal Daremberg e – in Italia – dal prof. Carlo Fadda). Sembra che queste si riferissero a tutti gli svariati rapporti del commercio di importazione e di esportazione, che è quanto dire – data la posizione geografica del capoluogo dell’Attica – a tutto il commercio marittimo; e anche che la natura dell’affare fosse la sola a determinare quella speciale competenza, e nulla vi influisse la qualità di ‘commerciante’ nel convenuto. Dovette quindi – sebbene, forse, inconsciamente – rampollarne una nozione di ‘atto di commercio oggettivo’.

Certo è che se un complesso di norme, costituenti un vero e proprio diritto commerciale, non si è potuto affermare e sviluppare senza soluzione di continuità nell’età antica, ciò è avvenuto in parte per la ristrettezza della materia compresa in quella competenza, e più ancora per il successivo sopraggiungere del diritto romano, generalmente considerato come affatto alieno dal creare istituzioni particolari per una determinata professione e dal dettare uno speciale ordine di norme per disciplinare l’attività commerciale oggettivamente considerata.

Vero è, tuttavia, che il Fadda, nelle sue preziose lezioni di diritto romano per l’anno accademico partenopeo 1902-1903 (edite su Istituzioni

commerciali del diritto romano, Napoli, Pierro, 1903), partendo dai risultati

degli studi precedenti – e specialmente dalla sintetica esposizione storica del Goldschmidt – corregge in parte le affermazioni troppo recise di questi, e constata che “le tracce di norme speciali per I rapporti di commercio sono

ben più numerose e importanti di quanto per solito si crede” (§ 36). E infine

conclude che “i Romani ebbero un concetto sostanzialmente esatto della

specialità del diritto commerciale, considerando le sue norme come discipline speciali di particolari rapporti del diritto privato generale” (§ 45).

Il Fadda, quindi, parla anche per il diritto romano di ‘atti di commercio’, che nelle fonti vengono designati con i termini negotiatio o negotiari (§ 38); o ancora con la parola exercere, ma congiunta ad altro termine – es. mercem – che designa un campo di speculazione commerciale (§ 42).

essenziali dell’impresa manifatturiera e industriale, pure risentendone gli identici bisogni.

In tal modo, il concetto di impresa si viene necessariamente ampliando fino a comprendere forme – come quelle di ‘commissioni’, ‘agenzie’ e ‘uffici d’affari’ – nelle quali gli elementi della ‘produzione’ e del ‘prodotto’ esulano completamente, anche a voler intendere dette voci – si osservi – nel loro significato più ampio: a maggior ragione, quindi, esulano ove si vogliano riportare alla nozione strettamente economica che considera ‘attività produttrice’ unicamente quella diretta ad ottenere dei beni materiali.

E’ evidente, dunque, ove si tenga presente l’evoluzione storica subita dal concetto di impresa, che le definizioni puramente economiche del fenomeno non possono rispondere alla concezione giuridica che informa l’intenzione del legislatore dell’82. Non ci pare esatto dire – col Vivante – che il diritto commerciale ‘fa suo’ il concetto economico di impresa,472 perché il punto di vista

del diritto non è – e non può essere – lo stesso dell’economia.

Quello che, all’evidenza, sembra un ‘punto di forza’ su cui poggia la formula avanzata dal Montessori,473 è in

realtà il suo specifico ‘torto’: essa, cioè, non tiene conto proprio del fatto che il procedimento logico del legislatore è necessariamente diverso – e deve essere, perciò stesso, tenuto rigorosamente distante – da quello dell’economista. L’economia, invero, si preoccupa di determinare la struttura interna ed il funzionamento degli organismi produttivi in vista della loro posizione nel gioco delle forze economiche generali (ossia, sostanzialmente nel mercato); il diritto, invece, tiene conto dei rapporti giuridici cui tali organismi danno origine nei molteplici contatti con attività e individualità operanti nella loro sfera di influenza: si occupa, quindi, principalmente, delle relazioni ‘esterne’ delle entità economiche,474 e per la

particolarità del suo punto di vista può – così –

472

V., retro, di questo capitolo, § 1, pag. 171.

473

V., retro, di questo capitolo, § 1, pag. 178.

474

Nello specifico, ciò ha essenzialmente valore per il diritto commerciale che prescinde dai rapporti giuridici interni delle aziende produttrici, i quali formano oggetto – piuttosto – del diritto industriale.

accomunare, in un’unica nozione generale, organismi che per i loro caratteri più intimi hanno natura e struttura profondamente diverse.

E’ questa – ci pare – un’osservazione che coglie il punto debole di un po’ tutte le definizioni economiche dell’impresa. Qualunque sia il concetto economico che di questa si abbia – la si intenda, cioè, nel senso più ampio di ogni ‘organizzazione, per conto e rischio propri, dei vari elementi della produzione a scopo (appunto) produttivo’; o nel senso ristretto di quella ‘organizzazione degli elementi della produzione che mira a produrre beni per scambiarli’; o, infine, nel senso più ristretto ancora di ‘organizzazione della produzione diretta a produrre beni per il mercato generale’ – non può dubitarsi che nessuna di queste definizioni coincide con il concetto di ‘impresa’, quale risulta dalle disposizioni positive del codice di commercio.

E’ lo stesso Rocco infatti che, da un punto di vista rigorosamente sistematico-legislativo, osserva anzitutto che l’elemento economico dell’impresa si trova non solo negli atti così qualificati espressamente e specificamente dal codice, ma in tutti gli atti di commercio costitutivi: è nella compera per rivendere e successiva rivendita – ossia, nel commercio vero e proprio – perché anche il commercio è un ramo della produzione economica, e ogni produzione commerciale implica una organizzazione dei vari fattori della produzione diretta a produrre, e a produrre per il mercato generale (quindi un’impresa non solo nel più largo, ma anche nel più ristretto senso); è poi – per la identica ragione – nel commercio bancario, che pure rappresenta una sottospecie della produzione economica, la cui organizzazione è una ‘impresa’; e infine è nell’industria delle assicurazioni, che, creando una utilità, è produzione, l’organizzazione della quale è ‘impresa’. Dunque, un elemento comune a tutti gli atti di commercio non può assurgere a criterio distintivo di una sola categoria di essi: il carattere di impresa in senso

economico non è la ‘differenza specifica’ che distingue le imprese del codice dagli altri atti di commercio.475

Ancora: il giurista napoletano rileva che vi sono imprese in senso economico, ma che non sono imprese secondo il codice. Va infatti escluso dal campo del diritto commerciale tutto l’artigianato, benché l’artigiano sia spesso un imprenditore nel senso dell’economia; non si ha una impresa di manifatture nel cosiddetto ‘mestiere’, ossia nel caso dell’operaio che da solo, o con il sussidio di qualche garzone, trasformi la materia prima e fabbrichi prodotti lavorati; non siamo in presenza di un’impresa di spettacoli pubblici nel caso dell’artista che sfrutta la propria abilità offrendo dei cosiddetti ‘numeri’; non si ha, infine, una impresa di trasporti nel caso del vettore che esegua percorsi e tratte conducendo personalmente la carrozza.476

Ciò non significa – beninteso – volere escludere dal campo commerciale la ‘piccola impresa’, e dunque asserire che l’impresa del codice è soltanto la ‘grande’ e ‘media impresa’ dell’economia. Infatti, in primo luogo – ammonisce il Rocco – vi sono senz’altro piccole imprese nel senso economico, che sono imprese pure nel senso del codice;477 in secondo luogo, la distinzione ‘quantitativa’ fra

piccola, media e grande impresa, che può avere valore in campo economico, non può diventare un parametro giuridico: il diritto, invero, ha bisogno di limiti precisi, e se si ammette che non tutte le imprese in senso economico sono imprese nel senso giuridico, occorre dare un criterio chiaro e preciso di distinzione: un criterio ‘qualitativo’, dunque, e non quello necessariamente indeterminato che offre la distinzione fornita dalla scienza economica.478

475

Cfr. ROCCO A., Saggio di una teoria generale degli atti di commercio, cit., p. 98.

476 Ibidem. 477

“(…) le piccole imprese di fabbriche e costruzioni, in cui un capomastro che impieghi pochi operai, assume piccoli lavori, sono imprese nel senso del codice; le piccole imprese di trasporto, in cui l’intraprenditore adoperi il lavoro di un personale, sia pure limitatissimo, sono pure imprese nel senso del codice (…)” (ivi, p. 99).

478 Ibidem.

Capitolo Terzo

IL FILONE TRADIZIONALE NELLA