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dell’associazionismo imprenditoriale di tipo moderno Il caso settentrionale

Ricapitolando quanto finora esposto, non si ha dubbio alcuno nell’affermare che il Novecento si apre in uno scenario assolutamente inedito. Né i venti di cambiamento soffiano solo nel campo economico-giuridico: altri processi di profondo mutamento sono, allora, in atto sul terreno propriamente politico-parlamentare.

Qualunque sia la valutazione – positiva o negativa – delle vicende politiche e sociali che risolvono la lunga ‘crisi di fine secolo’, gli osservatori dell’epoca sono comunque concordi nel constatare che, dagli ultimi anni dell’Ottocento fino al 1907, la crescita economica del paese è uniforme e di proporzioni talora rilevanti.407

Diversi fattori generali favoriscono questa dinamica. Nuove aspettative attraversano – nel loro complesso – le economie occidentali, mobilizzando capitali in quantità precedentemente sconosciute. Nello specifico caso italiano, poi, l’aumento della domanda aggregata e della disponibilità di nuovi capitali viene accentuato da una dinamica favorevole della bilancia dei pagamenti, alimentata dalle rimesse degli emigranti e dai crescenti flussi turistici, mentre le imprese possono continuare a disporre di un’offerta sovrabbondante di manodopera sul mercato del lavoro, che tende a deprimerne il costo.408

Come effetti complessivamente favorevoli – del resto – esercitano anche le politiche doganali protezioniste (dazi che ostacolano o impediscono la concorrenza di prodotti stranieri sul mercato nazionale, divieti contingenti, ostacoli all’esportazione di materie prime che possono essere utilizzate da industrie nazionali, nonché facilitazioni e franchigie all’importazione di materie prime e semilavorati esteri, premi all’esportazione di prodotti

407

Mentre dopo la crisi verificatasi in quell’anno essa subisce – insegnano gli storici dell’economia – un notevole rallentamento, senza tuttavia frenarsi del tutto.

408

Cfr. BANTI A.M., Storia della borghesia italiana. L’età liberale, Donzelli, Roma, 1996, p. 271.

nazionali, etc.),409 le nuove convenzioni commerciali

stipulate tra il 1898 e il 1906 con Francia, Germania, Austria e Svizzera410 e l’imponente e vertiginoso aumento

della spesa pubblica in specifici settori (alcuni dei quali abbiamo già opportunamente analizzato).411

Un impatto non meno rilevante, infine, ha la complessiva riorganizzazione del sistema bancario, attuata dopo i drammatici fallimenti del 1893-94.412

409

E ciò nonostante le durissime critiche cui tutte queste misure vengono sottoposte in questi anni ad opera di politici ed economisti di fede liberista.

410

Si tratta – per la precisione – di accordi pensati per favorire l’esportazione di prodotti agricoli specializzati, senza tuttavia derogare alla tutela dei settori già protetti (in particolare, quelli cerealicolo e vinicolo con i trattati del 1891- 92).

411

Così per la domanda di materiale ferroviario, dopo la nazionalizzazione delle strade ferrate nel 1905; e anche per la ripresa della domanda di attrezzature militari, evidente a partire dal 1906-1907.

412

Tra il 1889 e il 1894 il sistema bancario italiano attraversa una fase di profondissima crisi, provocata dall’esaurirsi del ‘boom edilizio’ degli anni precedenti, nel quale molti istituti di credito investono cospicue risorse, e da una serie di indagini parlamentari e giudiziarie che mettono in luce gravissime irregolarità di gestione in alcune banche di emissione (si pensi al famoso ‘scandalo della Banca Romana’).

Per quanto concerne questo settore, la crisi viene risolta con la legge 10 agosto 1893 che istituisce la Banca d’Italia (affiancata, con funzioni di minore rilievo, dal Banco di Napoli e dal Banco di Sicilia). Pochi mesi dopo la legge di riordino delle banche di emissione, i due più grossi istituti di credito ordinario – il Credito mobiliare e la Banca generale – devono arrendersi di fronte ad una situazione debitoria fattasi insostenibile, fino a decidere la chiusura degli sportelli e l’avvio delle pratiche di fallimento (novembre 1893 e gennaio 1894). Il vuoto lasciato dal crollo di questi due istituti – che sono i più importanti dell’epoca – viene colmato con la costituzione di due banche nate col cospicuo apporto di capitali stranieri, soprattutto tedeschi.

La prima è la Banca Commerciale Italiana, costituita a Milano nell’ottobre del 1894 con un capitale iniziale di 20 milioni di lire, sottoscritto da banche tedesche (78%), austriache (13%) e svizzere (9%). A partire dal 1900, tuttavia, la presenza di capitale tedesco e austriaco praticamente svanisce in seguito alla vendita delle azioni, il cui valore è andato – nel frattempo – rapidamente crescendo; in sostituzione dei capitali tedeschi, cresce, accanto alla presenza di azionisti italiani, l’apporto dei capitali svizzeri e francesi (sui caratteri e la storia della Comit, si veda in particolare CONFALONIERI A.,

Banca e industria in Italia, 1894-1906. III. L’esperienza della Banca Commerciale Italiana, il Mulino, Bologna, 1979).

La seconda banca ‘mista’ a costituirsi è il Credito Italiano, fondato nel febbraio 1895 a Genova sulle ceneri di un precedente istituto di credito (la Banca di Genova). Anche in questo caso, l’originaria preponderanza di capitali tedeschi viene più tardi sostituita da capitali svizzeri, francesi, belgi e italiani (cfr. CONFALONIERI A., Banca e industria in Italia, 1894-1906.

II. Il sistema bancario tra due crisi, il Mulino, Bologna, 1979).

A queste due banche vanno aggiunte anche – per dovere di cronaca – la Società bancaria italiana (istituto nato nel 1899 come ‘Società bancaria milanese’) e il Banco di Roma (società di credito strettamente collegata con gli ambienti cattolico-vaticani, e meno delle altre banche impegnata in investimenti in imprese industriali).

Tuttavia, accanto a questi favorevoli elementi di contesto, ve n’è almeno uno più specifico, che ha per lo scopo della nostra indagine un interesse tutto particolare. Proprietari e affittuari al Sud, ma – soprattutto – imprenditori e uomini d’affari al Nord,413 cominciano in

La novità di tutte queste banche rispetto agli istituti di credito crollati nella crisi dei primi anni Novanta sta più nella rigorosa organizzazione interna del lavoro che nel tipo di attività svolte. Le banche miste, infatti, accolgono i depositi dei risparmiatori, concedono crediti a breve e, contemporaneamente, si occupano di immobilizzi a più lungo termine in iniziative industriali: attività, peraltro, svolte anche dai precedenti istituti di credito ordinario (come il Credito mobiliare o la Banca generale); ma si differenziano da questi perché dedicano una cura maggiore sia all’espansione territoriale degli sportelli (per potere avere un ampio bacino di raccolta del risparmio) che alla normale attività di credito (lo sconto di cambiali commerciali, per esempio): ciò consente a queste banche di muoversi nel settore dell’investimento industriale avendo alle spalle una solida rete di attività creditizie per il pubblico. Questo tipo di organizzazione consente soprattutto alle due ‘prime arrivate’ (Comit e Credit) di dedicarsi all’investimento industriale, in una fase congiunturale che si fa sempre più favorevole, aggiudicandosi così la gestione del credito e dei finanziamenti alle imprese più solide o alle iniziative più promettenti (mentre la Società bancaria italiana – arrivata più tardi sul mercato – deve dirigersi verso investimenti più rischiosi: un orientamento che la porta nel 1907 sull’orlo del fallimento, evitato solo per l’intervento di salvataggio di un consorzio di banche, tra cui Credit e Comit, coordinato dalla Banca d’Italia).

L’intervento delle banche miste è stato considerato – ancora di recente –

“determinante per lo sviluppo industriale giolittiano” (l’opinione è di

ZAMAGNI V., Dalla periferia al centro. La seconda rinascita economica

dell’Italia. 1861-1981, il Mulino, Bologna, 1990, p. 194. Vera Zamagni si

richiama, in particolare, alle interpretazioni offerte da COHEN J., Italia

81861-1914), in Le banche e lo sviluppo del sistema industriale, a cura di R.

Cameron, il Mulino, Bologna, 1975). I principali interventi di queste banche a favore delle imprese sono – almeno in origine – di due tipi: collocazione delle emissioni azionarie delle imprese giudicate meritevoli di sostegno; accordi per la gestione dei conti correnti delle aziende, e svolgimento di operazioni dirette di finanziamento. Non in tutti i campi le banche intervengono nella stessa misura. Fra i principali ambiti di azione vi sono: il settore dell’energia elettrica (che è quello che attira maggiormente l’attenzione della Comit), quello siderurgico, chimico, zuccheriero, meccanico (in particolare, dopo il 1907, il settore automobilistico) e le compagnie di navigazione. Come dire: non solo i settori in più rapida espansione – che vedono la maggiore fioritura di società per azioni – ma anche quelli che si caratterizzano per una notevole diffusione di accordi oligopolistici di varia natura (cfr. BANTI A.M., Storia della borghesia

italiana, cit., pp. 285-286). 413

Il dualismo produttivo che già immediatamente dopo l’Unità politica caratterizza l’economia nazionale assume, proprio ad inizio secolo, caratteri che sembrano – allora, come poi, in effetti, si sono rivelati fino ad oggi – assolutamente irreversibili.

La grande stagione del dibattito sulla ‘questione meridionale’ (questione che, riunendo in sé quelle – specifiche – dell’antiprotezionismo, dell’emancipazione delle classi agricole, del decentramento fiscale e tributario e del riequilibrio tra aree regionali e settori produttivi, diviene l’etichetta del nuovo problema della politica economica e commerciale italiana, cui si tenta di far fronte con l’emanazione di alcune leggi speciali quali quelle per la Basilicata, la Calabria e Napoli del 1904) prende vigore in

questo periodo, con maggiore determinazione di quanto abbiano mai fatto prima, a dotarsi di organizzazioni che possano coordinare la loro azione sui mercati: è il fenomeno dell’associazionismo imprenditoriale.414

Invero, è più o meno con i primi anni del secolo che comincia a porsi in maniera sempre più pressante proprio agli imprenditori delle aree, dei bacini e dei settori ad alto tasso di dinamismo economico – ma anche a livello di più alta concentrazione e organizzazione sindacale della controparte lavoratrice – il bisogno di arricchire e affinare la loro stessa esperienza associativa nell’ottica di un più diretto confronto collettivo – se necessario ‘muro contro muro’ – con il sindacalismo operaio.415 E’ questo,

questi anni dalla constatazione della distanza che separa, giorno dopo giorno sempre più nettamente, il ‘triangolo di Nord-ovest’ e l’area padana nel suo complesso, dal resto dei bacini produttivi del Centro, e soprattutto del Sud. Nelle zone di più antica industrializzazione la quantità e la qualità di economie esterne di cui le aziende nuove possono disporre (in termini di istituti finanziari esistenti, di istituti di formazione di personale tecnico, di facilità di contatto con altre imprese collegate, di capacità di minimizzare i costi di transazione, compresi i costi imposti da organizzazioni delinquenziali, inesistenti al Nord) favoriscono la concentrazione territoriale delle imprese, cosicchè un ‘moderato’ differenziale produttivo – come quello presente già nella seconda metà dell’Ottocento – diviene, in una fase di rapida espansione come quella di inizio Novecento, un ‘drammatico’ differenziale produttivo.

Ed è, questa, una concentrazione che riguarda non solo e non tanto gli assetti proprietari, ma anche e soprattutto le modalità di azione delle imprese sul mercato (cfr. TONIOLO G., Storia economica dell’Italia liberale: 1850-

1918, il Mulino, Bologna, 1988, p. 193). 414

Fin dai primordi dell’Unità – e in alcuni casi anche prima – la borghesia industriale e produttiva in genere si preoccupa di promuovere e sostenere organismi associativi per una più efficace tutela dei propri interessi collettivi e come sede di studio e discussione dei miglioramenti tecnici realizzabili nei diversi settori.

Ma questi organismi associativi (tra i quali è sufficiente – qui – ricordare la

Società promotrice dell’industria nazionale, sorta a Torino fin dal 1868;

l’Associazione fra gli industriali metallurgici, del 1900; l’Associazione

laniera italiana, fondata nel 1877; l’Associazione cotoniera italiana,

promossa nel 1883), in quanto gruppi di pressione specifici, orientano in prevalenza la loro attività in direzione dei pubblici poteri, allo scopo di influenzare – in un senso o nell’altro – governo e parlamento in materia di pubblica economia e di legislazione sociale (in particolare, su questioni come dazi e sovvenzioni, orari di lavoro e previdenza infortunistica, manovra fiscale e potenziamento dei trasporti).

In tutti questi casi – peraltro – gli interlocutori naturali, diretti o indiretti, non sono – oltre alle autorità romane – le maestranze più o meno organizzate, ma semmai le altre categorie produttive con interessi non collimanti o addirittura nettamente antagonistici (cfr. AQUARONE A., Tre capitoli

sull’Italia giolittiana, il Mulino Bologna, 1987, pp. 259-260). 415

Se le esigenze di ordine economico danno una spinta potente alle varie tendenze di natura organizzativa sia nell’uno che nell’altro fronte, un importante stimolo alla trasformazione profonda delle strutture di sociabilità

all’evidenza, un esplicito riconoscimento – per così dire – che la ‘lotta di classe’ deve essere accettata e combattuta nei suoi termini specifici come scontro continuo all’interno dei singoli luoghi dell’organizzazione dei fattori della produzione, per quanto possibile con un minimo di coordinamento e di spirito di solidarietà padronale.416

Orbene: lo stretto rapporto che intercorre tra le nuove, più compatte e meglio coordinate forme di lotta adottate ormai su larga scala dalla manodopera organizzata e l’esigenza per gli imprenditori di tutelarsi e reagire – anch’essi – con mezzi e strategie adatti alle nuove condizioni del confronto-scontro sociale,417 viene illustrato

con incisiva chiarezza – e ben ferma coscienza di classe – da Luigi Einaudi, in un celebre articolo apparso sulle colonne della Stampa del 1° marzo 1902 e dedicato, appunto, alle ‘Leghe operaie e leghe padronali’.418 La penna

dell’insigne economista piemontese traccia fin dalle prime righe l’elemento di novità più dolente – perché più

viene certamente dagli esempi inglese e svizzero – ormai ben consolidati, e stupefacenti per molti – dell’efficacia del modello associativo del sindacato operaio (sul punto, solidissimi si presentano i contributi di CORNIL G.,

L’organizzazione professionale. I sindacati obbligatori – i parlamenti professionali, in La Riforma sociale, 1900, a. VII, vol. X; BARASSI L., Le

associazioni professionali, in Riv. dir. civ., 1916, a. VIII).

La nuova linea di neutralità nei conflitti di lavoro, introdotta dal governo Zanardelli, favorisce certamente questi sviluppi, cosicchè ai primi del Novecento le forme di organizzazione sindacale attraversano un periodo di grande diffusione e di notevole consolidamento. La prima Camera del lavoro – un organismo che coordina sul piano locale varie leghe di diversi settori professionali – sorge a Milano nel 1891. In seguito se ne formano altre: a Bologna, Firenze, Genova e Roma. Al secondo Congresso nazionale delle Camere del lavoro – tenutosi a Piacenza nell’agosto del 1897 – le associazioni presenti sono una ventina, per scendere a 17 nel 1900. ma già nel 1901 diventano 57, per crescere a 76 nel 1902, e ancora di più negli anni avvenire. Spettacolare è la diffusione delle leghe sindacali dei braccianti nelle campagne (soprattutto nelle campagne padane), che già nel 1901 sono in grado di strutturarsi in una federazione nazionale (la Federterra), un’associazione che nel suo statuto si propone come obiettivo ultimo la socializzazione delle proprietà terriere. Più tardi, nel 1906, si forma anche una più comprensiva struttura sindacale che coordina anche i lavoratori del settore industriale: la Confederazione Generale del Lavoro. Entrambi gli organismi coordinano la loro azione sindacale con quella politica del giovane Partito socialista (cfr. BANTI A.M., Storia della borghesia italiana, cit., pp. 292-293).

416 Cfr. AQUARONE A., Tre capitoli sull’Italia giolittiana, cit., p. 260. 417

Esigenza senza la quale – in effetti – la lotta di classe resterebbe, nell’alveo della più generica conflittualità quotidiana, sostanzialmente gelatinosa.

418

Ora in EINAUDI L., Cronache economiche e politiche di un trentennio,

insidioso – che maggiormente angustia gli ambienti imprenditoriali dell’epoca, ed è costituito dal diffondersi del fenomeno dello sciopero (spesso di solidarietà o con fini prettamente politici) che colpisce alla cieca anche realtà aziendali nelle quali non si riscontrano vertenze di sorta, e che vengono talora coinvolte in scontri e disordini cui si sentono perfettamente estranee.419

La soluzione prospettata da Einaudi non fa una piega: contro i danni e i pericoli degli scioperi – scrive – uno solo è, in sostanza, il rimedio, e questo si deve cercare ricorrendo ai medesimi strumenti di cui dispongono i lavoratori nella loro lotta contro gli imprenditori.420

D’altronde, l’adozione da parte padronale di una consimile strategia di lotta non avrebbe avuto per effetto – di certo – l’inasprimento dello scontro sociale, ma anzi quello opposto della sua attenuazione, con beneficio generale per l’economia del paese.421

419

Ivi, pp. 472-473.

Impressionanti i dati riportati da Banti (op. cit., p. 293). Nel periodo 1891- 1900 nel settore industriale si verificano – in media – 195 scioperi l’anno; dal 1901 al 1905 se ne contano 732, cresciuti a 1318 dal 1906 al 1910; quanto agli operai scioperanti, essi sono – in media – più di 33.000 all’anno tra il 1891 e il 1900, ma diventano quasi 150.000 tra il 1901 e il 1905, e 220.000 circa tra il 1906 e il 1910. Nelle campagne si verificano – in media – 15 scioperi l’anno nel periodo 1891-1900; dal 1901 al 1905 sono 238, diventano 250 circa nel periodo 1906-1910; i contadini che incrociano le braccia sono mediamente 7.700 circa tra il 1891 e il 1900, per diventare poi oltre 106.000 tra il 1901 e il 1905, e 123.000 tra il 1906 e il 1910 (per un ulteriore approfondimento dell’argomento, si vedano SCHIAVI A., Lavoratori e

padroni nel 1902, in La Riforma sociale, 1903, a. X, vol. XIII; nonché

MINISTERO DELL’ECONOMIA NAZIONALE, DIREZIONE

GENERALE DEL LAVORO E DELLA PREVIDENZA SOCIALE, I

conflitti del lavoro in Italia nel decennio 1914-1923 (Dati statistici), Roma,

1924).

420

“Gli operai si stringono in leghe per vincere colla forza organizzata del numero gli imprenditori ed ottenere cresciuti salari e migliori condizioni di lavoro? Ebbene gli imprenditori si uniscano in leghe ed oppongano anch’essi alla forza coalizzata dei lavoratori, la forza dell’unione e della concordia nella difesa” (cfr. EINAUDI L., Cronache economiche e politiche di un

trentennio, cit., p. 474). 421

Uno scontro che – in questo modo – avrebbe evitato di essere combattuto in un ordine piuttosto sparso, capace di volta in volta – e solo nei momenti di maggiore tensione – di ricomporsi a precaria unità sul piano dell’intervento governativo o della legislazione speciale o d’urgenza.

Tutti aspetti, questi, di una politica sociale che, se da un lato rivela in positivo una maggiore sensibilità – anche a livello istituzionale – per i problemi del lavoro e della tutela dei prestatori d’opera salariata in una società industriale, denuncia pure i termini alquanto angusti nei quali essa rimane confinata, non solo a causa dei suoi limiti intrinseci di visione e progettazione legislativa, ma anche delle forti e spesso vittoriose resistenze opposte dagli interessi imprenditoriali e dagli ambienti più conservatori in

genere: i quali, tanto meno sono disposti ad accettare più o meno di buon grado una legislazione sociale più avanzata che rischierebbe di volgersi a danno del livello dei profitti e della concorrenzialità dei prodotti nazionali sui mercati esteri, in quanto tale legislazione sociale non si presenta come contropartita – secondo il modello bismarckiano – di rigorose misure antisocialiste nel quadro di una politica fermamente conservatrice e tendenzialmente autoritaria.

Ha scritto con una certa sommaria ironia Epicarmo Corbino, che la legislazione sociale dell’anteguerra rappresenta in Italia “(…) il prezzo

pagato dalla borghesia per addomesticare i socialisti, aggiogandoli al suo carro politico ma giustificando così agli occhi delle masse, con dei piccoli successi formali, la loro esistenza come forza politica. Essa era una specie di ‘leit motiv’ di tutti gli uomini politici di quell’epoca; se ne parlava in tutti i discorsi della Corona, in tutte le comunicazioni del governo, nelle esposizioni finanziarie; la si faceva entrare come il sale ed il pepe in tutti i disegni di legge, vi si accennava in tutti i discorsi elettorali, la chiedevano tutti: conservatori e radicali, clericali e socialisti, repubblicani e liberali. Solo nei congressi socialisti qualche fazione, fra quelle più estremiste, la respingeva sdegnosamente, non perché ne riconoscesse la sua ingiustizia fondamentale malgrado l’apparente giustizia, ma perché vi vedeva il pericolo dell’addomesticamento borghese. (…). Si badi però che malgrado il tanto parlarne, di fatto, in materia di leggi sociali si fece ben poco, sia perché la mentalità generale era ancora troppo liberista nel fondo perché si potesse andare rapidamente innanzi, sia perché il pregiudizio del pareggio del bilancio creava un serio ostacolo al correr troppo in un campo in cui anche fuori d’Italia non si era poi fatto gran che (…)” (cfr.CORBINO E.,

Annali dell’economia italiana, Società editrice Leonardo da Vinci, Città di

Castello, 1938, vol. V, pp. 471-472).

Il campo d’intervento di maggiore rilievo è comunque quello della tutela della manodopera minorile e femminile: con le leggi del 1902 e del 1907, relative alla disciplina dei lavori pericolosi o insalubri e all’obbligo del riposo settimanale; con una legge del 1910 istitutiva della Cassa nazionale di

maternità, alimentata da contributi obbligatori sia delle operaie fino a 50 anni

di età, che dei datori di lavoro, con una partecipazione dello Stato per il completamento dell’indennità; e con la legge n. 1361 del 22 dicembre 1912 istitutiva dell’indispensabile Ispettorato del lavoro, sia pure con poteri di vigilanza sulla effettiva applicazione delle leggi emanate a protezione dei lavoratori notevolmente ridimensionati rispetto al progetto e alle intenzioni iniziali.

A ben guardare, questi progressi realizzati nella protezione del lavoro (con particolare riferimento ad alcune categorie, mentre altre continuano ad essere totalmente trascurate o quasi), per quanto innegabili e non solo sulla carta (anche se non di rado permane un eccessivo divario fra il dettato legislativo e la sua realizzazione pratica), rientrano tutto sommato nell’ambito di una