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criterio oggettivo della ‘intenzione’

2. Critica della ‘concezione pluri-negoziale’ dell’impresa

Neppure il filone più conservatore della nuova commercialistica novecentesca può sfuggire alle oculate valutazioni mosse, alla sua concezione dell’impresa, da una critica accorta e scevra di qualsivoglia pregiudizio. Ad un primo esame, invero, appare senz’altro chiaro che, ove quell’unico organismo intorno al quale deve raggrupparsi tutto un complesso di negozi giuridici – che, all’evidenza, costituisce il nocciolo del fenomeno imprenditoriale – sia inteso come la solita organizzazione degli elementi della produzione, e dunque come un organismo propriamente economico, si ricade ingenuamente nelle difficoltà in cui si involgono le definizioni della prima concezione.

Se, invece, intendiamo tale organismo come qualunque combinazione di attività e di mezzi diretta ad ottenere un guadagno qualsiasi – ossia, come una struttura

impropriamente economica – la nozione di impresa verrebbe a coincidere con quella, amplissima, comprendente ogni attività complessa, ogni complesso di affari. In tal caso – allora – si rivelano corrette e puntuali le osservazioni avanzate precipuamente da Alfredo Rocco, che afferma che se ogni impresa – che è atto di commercio – è di necessità un’attività complessa, non ogni attività complessa è un’impresa né è atto di commercio; e così, pure, non possono rientrare nel numero delle imprese – secondo il concetto del codice – l’attività del professionista e quella, anzidetta, dell’artigiano.499

498

Sul punto, si veda meglio la nota n. 1, a pag. 47, del contributo, citato, dell’Arcangeli.

499

Osserva il giurista napoletano che: “Non è infatti vero che ogni attività

complessa, che ogni complesso di affari possa considerarsi come impresa, e quindi atto di commercio, secondo il codice. Se ogni impresa è, di necessità, una attività complessa, non ogni attività complessa è un’impresa, né è atto d commercio. (…) Egualmente sono attività complesse e continuative quella

Quanto all’esercizio dell’agricoltura – che è, del pari, qualificata dall’illustre detrattore di questa seconda concezione come una attività evidentemente complessa, e che pure non può annoverarsi tra le imprese della legge –

500conveniamo pienamente nel ritenere che la coltivazione della terra e la vendita fatta dal proprietario (o coltivatore)

dei prodotti che ne derivano non può costituire ‘impresa’ ove si limiti all’ordinario sfruttamento del suolo e alla alienazione delle derrate.501 Presa in tal senso, infatti,

l’opera dell’agricoltore, che consta di una serie – talora considerevole – di atti fra loro connessi, può essere giustamente opposta ai sostenitori della concezione che si critica come esempio di attività complessa,502 che, però,

evidentemente, non è impresa nel senso del codice.

Ma le cose cambiano – si osservi – ove l’agricoltura venga esercitata in forma diversa da quella ordinaria e tradizionale, ed assuma cioè le caratteristiche di una organizzazione di tipo industriale. In tal caso, infatti, anche per il codice commerciale l’attività agricola diventa indubbiamente una ‘impresa’, senza tuttavia acquistare la qualità di ‘atto oggettivo’ – o ‘complesso di atti oggettivi’ – di commercio, per la ragione che non viene compresa nell’articolo 3; né può venirvi introdotta dall’interprete, in quanto non è contenuta nei limiti segnati dalla enumerazione esemplificativa della legge.

Chi qualifica poi, genericamente, come impresa qualunque complesso di affari – e considera, pertanto, quella come una serie di atti – erra anche sotto un altro aspetto, in quanto viene a confondere la ‘funzione attiva dell’impresa’ – ossia, la sua esplicazione pratica – con l’impresa stessa. Il legislatore dell’82, invero, dichiara ‘atto del professionista e quella dell’artigiano: ma l’esercizio di una professione non è impresa sotto nessun punto di vista; e l’artigianato, per quanto implichi una impresa in senso economico, non è impresa secondo la legge”

(cfr. ROCCO A., Saggio di una teoria generale degli atti di commercio, cit., p. 99).

500

E’ infatti esclusa espressamente dal novero degli atti di commercio dall’articolo 5 del codice.

501

“(…) Indubbiamente, è una attività complessa la coltivazione del suolo. Eppure l’art. 5 cod. comm. stabilisce che non è atto di commercio la vendita che il proprietario o il coltivatore fa dei prodotti del fondo suo o da lui coltivato (…)” (cfr. ROCCO A., Saggio di una teoria generale degli atti di

commercio, cit., p. 99). 502

di commercio’ proprio l’impresa in sé, non gli affari di questa benché acquistino – per il tramite di essa – carattere commerciale. Sebbene sia inammissibile – in fatto – una impresa senza affari, è chiaro tuttavia che la caratteristica essenziale di tale entità non è nella esistenza di questi bensì nell’attitudine a determinarli. E non sono soltanto gli ‘affari attuali’ quelli che vengono assoggettati alla speciale disciplina giuridica della legge commerciale, ma anche gli ‘affari futuri’, purchè si agglomerino intorno ad un unico organismo.503

Vero è, comunque, che la concezione del fenomeno imprenditoriale come complesso di negozi giuridici o di affari ha l’innegabile pregio di rifarsi dal punto di vista (normativo) del legislatore: seguendo, cioè, quel

procedimento logico di costruzione giuridica che muove ‘dall’esterno verso l’interno’ dei fenomeni della realtà sociale e quotidiana, e che è caratteristico proprio della legislazione commerciale la quale accorre a regolare, a seconda del bisogno, le manifestazioni estrinseche delle diverse attività, preoccupandosi piuttosto di stabilire un retto governo degli atti che si verificano nella prassi, che di indagarne l’intima essenza;504 e a tale indagine in tanto

503

Nelle caratteristiche fondamentali di questo – e non altrove – dovrebbe, pertanto, ricercarsi il criterio discretivo tra l’impresa ed altre consimili entità.

504

Il codice di commercio del 1882, invero, risale dal ‘fatto sociale’ al ‘rapporto sociale’ che da quello è stato generato, e dichiara commerciali i rapporti sociali derivanti da certi fatti sociali.

I fatti sociali che la legge commerciale prende in considerazione sono di due specie diverse.

Sono, in primo luogo, fatti transeunti, e, più precisamente, azioni umane, semplici o complesse, risultanti cioè sia da un singolo atto che da un insieme di atti (ossia, da una intera attività). Questi atti sono dalla legge chiamati atti

di commercio (artt. 3, 4, 5, 6, 7, 54 del codice di commercio).

Sono, in secondo luogo, fatti permanenti o condizioni o stati di fatto, e, più precisamente: a) la professione o stato di commerciante, vale a dire la condizione di ‘professionista del commercio’: di quelle persone fisiche, cioè, che esercitano il commercio in modo stabile con lo scopo di trarne un guadagno (art. 8 cod. di comm.); b) la condizione degli enti che hanno per

iscopo il commercio, vale a dire le società commerciali (artt. 8 e 76 cod. di

comm.); c) la condizione di alcuni enti che non hanno per iscopo il

commercio, in quanto assumono forme destinate solitamente agli enti commerciali: vale a dire le società civili che assumono la forma di ‘società

per azioni’ (art. 229 cod. di comm.). E’ – questo – l’unico caso di rapporti dichiarati commerciali e regolati dal diritto commerciale, per ragioni di pura forma; d) il godimento, totale o parziale, delle cose destinate al commercio o per la loro natura o per volontà dell’uomo, che dà luogo a rapporti regolati dal diritto commerciale, e perciò a diritti reali di natura commerciale. E’, questo, uno ‘stato di fatto’ che acquista carattere commerciale per una ragione di ‘connessione’, in quanto si ricollega ad una attività commerciale, e

solo si accinge in quanto essa le sia indispensabile per la classificazione degli atti medesimi, in vista della loro disciplina.505

quindi con un atto di commercio. Questo caso rientra nella categoria più generale dei fatti che si considerano commerciali ‘per connessione’, e a cui appartengono – per ciò stesso – anche gli ‘atti commerciali per connessione’;

e) infine, certe condizioni o stati personali che egualmente, per la loro

connessione con attività commerciali, sono regolati, sia pure parzialmente, dal diritto commerciale: così la professione di ‘mediatore’ (artt. 29 e ss. cod. di comm.), lo stato di ‘ex commerciante’ (artt. 26 e 690 cod. di comm.) nonché la condizione di ‘erede di un commerciante’ (ancora, artt. 26 e 690 cod. di comm.).

505

Così si spiega (e appare giustificata) la categorizzazione dottrinale classica degli atti di commercio in atti ‘oggettivi’ e atti ‘soggettivi’.

Nel sistema del codice dell’82, l’atto di commercio rappresenta il prius, il concetto primordiale. Esso è sufficiente, per sé, a creare rapporti regolati dal diritto commerciale. Invece i fatti transeunti, i fatti permanenti o condizioni o stati di fatto commerciali non si concepiscono (salvo il citato caso delle società civili che assumono la forma di ‘società per azioni’) se non ci si riferisce al concetto dell’atto di commercio.

M. VERRUCCHI – Un prodotto della modernità. L’impresa tra continuità e trasformazione dei paradigmi ottocenteschi

Capitolo Quarto