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L’art. 9 della Legge prevede una disciplina speciale relativamente al diritto delle strutture private di agire nei confronti dei sanitari responsabili dei danni subiti dai pazienti.

Lo strumento pensato per far valere tale diritto è l’azione di rivalsa, ammessa, secondo la previsione del primo comma, “solo in caso di dolo o colpa grave” degli operatori.

Viene introdotta una limitazione di responsabilità, così da dar luogo alla medesima disciplina sia per coloro che esercitano la professione in strutture private sia per i sanitari in rapporto di servizio con strutture pubbliche, venendo meno, quindi, una difformità di trattamento, perché per questi ultimi la limitazione di responsabilità al dolo e alla colpa grave derivava già dalla disciplina generale della responsabilità amministrativa (art. 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20).

I commi da 2 a 4 e il comma 6 dell’articolo 9 disciplinano specificamente tale azione di rivalsa privatistica, mentre il comma 5 è dedicato all’azione di responsabilità amministrativa per danno erariale indiretto.

Dispone il comma 2 che “Se l’esercente la professione sanitaria non è stato parte del giudizio o della procedura stragiudiziale di risarcimento del danno, l’azione di rivalsa nei suoi confronti può essere esercitata soltanto successivamente al risarcimento avvenuto sulla base di titolo giudiziale o stragiudiziale ed è esercitata, a pena di decadenza, entro un anno dall’avvenuto pagamento”.

L’azione di rivalsa può essere esperita dalla struttura anche nel medesimo giudizio in cui la stessa viene convenuta dal paziente o dagli eredi ed eventuali ulteriori danneggiati in caso di suo decesso. Ma, se ciò non avviene, la formulazione della disposizione porta a ritenere che la sentenza di condanna non sia sufficiente per rendere procedibile l’azione di rivalsa, essendo necessario il risarcimento. La suddetta previsione appare incoerente con la possibilità di agire in rivalsa già nell’ambito del giudizio d’ingiunzione incardinato dal danneggiato.

A tutela del diritto di difesa dei professionisti, il comma 3 sancisce che “La decisione pronunciata nel giudizio promosso contro la struttura sanitaria o sociosanitaria o contro l’impresa di assicurazione non fa stato nel giudizio di rivalsa se l’esercente la professione sanitaria non è stato parte del giudizio”.

Altre due disposizioni appaiono ispirate alla medesima logica.

Il comma 4 precisa che “in nessun caso la transazione è opponibile all’esercente la professione sanitaria nel giudizio di rivalsa”. Nel comma 7, invece, la possibilità per il giudice di desumere argomenti di prova dalle prove assunte nel giudizio instaurato dal danneggiato nei confronti della struttura sanitaria o sociosanitaria o dell’impresa di assicurazione, il Senato ha introdotto una limitazione: ciò può avvenire solo se il professionista è stato parte di quel processo.114

Il comma 6, invece, introduce un tetto all’ammontare sia della rivalsa della struttura che della surrogazione dell’assicuratore, stabilendo che “In caso di accoglimento della domanda proposta dal danneggiato nei confronti della struttura sanitaria o sociosanitaria privata o nei confronti dell’impresa di assicurazione titolare di polizza con la medesima struttura, la misura della rivalsa e quella della surrogazione, ai sensi dell’articolo 1916, primo comma, del codice civile, per singolo evento, in caso di colpa grave non possono superare una somma pari al valore maggiore del reddito professionale, ivi compresa la retribuzione lorda, conseguito nell’anno di inizio della condotta causa dell’evento o nell’anno immediatamente precedente o successivo, moltiplicato per il triplo”.

Questo limite alla misura della rivalsa “non si applica nei confronti degli esercenti la professione sanitaria di cui all’articolo 10, comma 2”, ossia a coloro che svolgono la propria attività al di fuori delle strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private o che prestino la loro opera all’interno delle stesse in regime libero-professionale oppure che si avvalgano delle stesse nell’adempimento della loro obbligazione contrattuale assunta con il paziente ai sensi del citato art. 7, comma 3.

Tali professionisti, quindi, dovrebbero rispondere integralmente dei danni, perché l’attività nell’ambito della quale sono stati cagionati non è di servizio nei confronti della struttura, ma rientra nell’adempimento di uno specifico rapporto contrattuale esistente con il paziente.

Un aspetto particolarmente delicato riguarda proprio il tetto all’ammontare dell’azione di rivalsa. In particolare occorre valutare se tale soluzione sia coerente con la funzione della responsabilità civile. Quest’ultima, infatti, secondo parte della dottrina, tende non soltanto all’integrale risarcimento del danneggiato, ma anche ad operare una

necessaria deterrenza rispetto alla commissione di fatti dannosi con dolo o con colpa, come emerge dall’art. 1229 c.c.

Tale disposizione pone, altresì, un problema di parità di trattamento tra strutture. Infatti, gli ospedali e gli istituti che, per il tipo di prestazioni che erogano, sono più esposti al rischio di cagionare danni molto ingenti, si troverebbero ad essere irragionevolmente svantaggiati rispetto a strutture a minor rischio, perché, quasi sicuramente, anche decurtando l’importo indicato dal comma 6, non riuscirebbero a recuperare le somme pagate ai pazienti danneggiati.

La Consulta ha infatti dichiarato incostituzionale l’art. 4, comma 1, della legge della Provincia di Bolzano, riapprovata il 3 febbraio 2000, che limitava la responsabilità amministrativa per colpa grave alla metà di un’annualità di stipendio o compenso netto complessivo.

In tale prospettiva, il Giudice delle leggi, ha ritenuto irragionevole una “riduzione predeterminata ed automatica della responsabilità”, in quanto non consente la necessaria “valutazione sul comportamento complessivo e sulle funzioni effettivamente svolte, nella produzione del danno, in occasione della prestazione che ha dato luogo alla. Responsabilità”.

In secondo luogo, simili tetti alla responsabilità sono incompatibili con il principio per cui alla Corte dei conti spetta il potere riduttivo sul quantum tenendo conto delle capacità economiche del soggetto responsabile, oltre che del comportamento, del livello di responsabilità e del danno effettivamente cagionato115.

Sebbene tale sentenza riguardi la responsabilità amministrativa, la sua impostazione sembra condurre all’incostituzionalità del tetto anche nell’azione di rivalsa. Infatti, se la limitazione del risarcimento è irragionevole in un settore, quello della responsabilità amministrativa, in cui l’ordinamento attribuisce al giudice un potere limitativo del

quantum, altrettanto incostituzionale dovrebbe essere nella responsabilità civile, che non

conosce misure premiali per il danneggiante.

Anzi, l’art. 2055 c. c, sancisce la regola, espressione del basilare principio di “autoresponsabilità” per cui ciascun coobbligato in solido al risarcimento del danno deve rispondere nella misura determinata dalla gravità della propria colpa e dall’entità delle relative conseguenze116. Pertanto, il meccanismo introdotto dal citato art. 9 appare in contrasto con il principio di ragionevolezza.

115 Corte Cost., 24 ottobre 2001, n. 340, in Foro it., 2002, I, 327.

116 Proprio in virtù dell’art. 2055 c.c. non sembra porre alcun problema il fatto che l’art.9 non estenda

4.2 Il risarcimento del danno al paziente e la rilevanza del comportamento