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Caso di responsabilità medica e risarcimento del danno

Il fatto in esame riguarda un caso di malpractice avvenuto in Italia nell’anno 2007 ed esaminato in Cassazione nell’anno 2015, anno in cui era ancora in vigore la legge Balduzzi

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Fatti. A una giovane ragazza il medico di famiglia diagnosticò ascesso tonsillare e prescrisse antibiotico e cortisone. A seguito di ricovero ospedaliero la paziente venne visitata dal primario della struttura che diagnosticò ascesso peritonsillare con edema. Venne prescritta terapia con cefalosporine in endovena e cortisonico.

Nel prosieguo la giovane venne assistita in diversi momenti da diversi medici: il medico M. fu di turno di reperibilità notturna il (omissis) nonché in servizio la mattina del (omissis). Il medico B. fu presente nel pomeriggio e la notte del (omissis). In quella stessa notte il medico M. effettuò una consulenza anestesiologica.

La giovane venne condotta in sala operatoria per esecuzione di tracheotomia resa necessaria per progressiva ingravescenza della patologia. Qui l’anestesista tentò due volte di dar corso ad anestesia generale con somministrazione di curaro ed intubazione, ma senza esito. L’effetto miorilassante del curaro determinò la paralisi dei muscoli respiratori con conseguente totale occlusione delle vie respiratorie.

Sopraggiunse anossia con desaturazione. In tale drammatica contingenza il medico S tentò l’esecuzione di tracheotomia in emergenza, ma senza esito. Il bisturi incise pure l’esofago, ledendo alcuni vasi. Sopravvenne l’esito letale per arresto cardiocircolatorio seguito ad asfissia indotta farmacologicamente. I sanitari sono stati imputati del reato di omicidio colposo.

Peculiarità della fattispecie. La Corte esamina il ruolo di guida del capo del gruppo di lavoro e l’applicazione concreta, nei suoi confronti, del principio di affidamento.

In tema di responsabilità medica dell’equipe, il principio di affidamento opera in maniera diversa per il capo dell’equipe?

La Corte attraverso un exursus storico della giurisprudenza evidenzia i principi espressi in tema di colpa medica nell’attività di equipe. In particolare, ricorda che

ciascuno dei soggetti che si dividono il lavoro risponde dell’evento illecito, non solo per non aver osservato le regole di diligenza, prudenza e perizia connesse alle specifiche ed effettive mansioni svolte, ma, altresì, per non essersi fatto carico dei rischi connessi agli errori riconoscibili commessi nelle fasi antecedenti o contestuali al suo specifico intervento172.

Segnatamente, il principio di affidamento non trova applicazione nei confronti della figura del capo equipe: chi dirige l’attività del gruppo di lavoro ha la responsabilità di una costante e diligente vigilanza in ogni momento: è stata in conseguenza ritenuta la colpa del primario ginecologo che, avendo assunto il controllo dell’andamento di un parto aveva lasciato la sala parto, affidando la paziente ad un assistente e determinando cosi, con la sua negligenza, la morte del neonato173

Il chirurgo capo équipe, fatta salva l’autonomia professionale dei singoli operatori, ha pure il dovere di portare a conoscenza di questi ultimi tutto ciò che è venuto a sapere sulle patologie del paziente e che, se comunicato, potrebbe incidere sull’orientamento degli altri.

È stato quindi ritenuto responsabile di omicidio colposo, insieme con l’anestesista, il chirurgo per non essersi egli premurato di informare l’anestesista stesso delle condizioni cardiologiche del paziente174.

La Corte ha pure affermato che il chirurgo capo équipe, una volta concluso l’atto operatorio in senso stretto, qualora si manifestino circostanze denunzianti possibili complicanze, tali da escludere l’assoluta normalità del decorso post-operatorio, non può disinteressarsene, abbandonando il paziente alle sole cure dei suoi collaboratori, ma ha l’obbligo di non allontanarsi dal luogo di cura, onde prevenire tali complicanze e tempestivamente avvertirle, attuare quelle cure e quegli interventi che un’attenta diagnosi consigliano e, altresì, vigilare sull’operato dei collaboratori175.

Il ruolo di guida e protagonista della capo-équipe è stato rimarcato, affermando che deve considerarsi negligente il comportamento del chirurgo responsabile dell’intervento il quale, facendo esclusivo affidamento sulla pregressa diagnosi svolta dal suo aiuto e comunicatagli verbalmente in sala operatoria, proceda all’operazione senza aver prima proceduto al riscontro della diagnosi176.

172 Cass. sez IV, 11 ottobre 2007, n. 41317, C.E.D. Cass., n. 237891. 173 Cass. sez. IV, 3 marzo 1988, G., C.E.D. Cass., n. 177967. 174 Cass. sez. IV, 24 novembre 1992, G., C.E.D. Cass., n. 198445. 175 Cass. sez. IV, 7 novembre 1988, S. C.E.D. Cass. n. 180245. 176 Cass. sez. IV, 26 giugno 2008, Rv. 241365.

Il tema delle diverse specializzazioni in ambito medico e delle conseguenze che ne discendono in tema di definizione delle rispettive sfere di responsabilità è stato esaminato in un’interessante sentenza177 che riguarda una équipe coinvolta nelle complesse opera-

zioni inerenti al trapianto d’organo. Il caso riguardava l’imputazione del reato di omicidio colposo in danno di due persone morte dopo aver ricevute il trapianto di un rene dal cadavere di persona affetta da metastasi da melanoma, malattia che ostava al prelievo. L’accusa era rivolta a diversi sanitari che erano intervenuti nel corso della procedura. La pronunzia analizza la caratterizzazione dell’attività medica in équipe osservando che il trapianto di organi si sviluppa attraverso una serie di attività poste in essere da tutti i sanitari o gruppi di sanitari chiamati a svolgere i loro compiti in successione e sul presupposto di una o più precedenti attività svolte da altri e tutte finalizzate alla salvaguardia della salute del trapiantato.

Tutte le attività sono interdipendenti e devono essere tra loro coordinate senza che possa immaginarsi né un’assoluta autonomia tra le varie fasi né una sorta di compartimen- tazione o segmentazione degli specifici interventi delle singole competenze che, al contrario, non possono prescindere l’una dall’altra e si integrano a vicenda concretandosi in un apporto collaborativo interdisciplinare che, unificato dal fine, può configurarsi come un’attività unica anche se, per le sue peculiari caratteristiche, è scandita da cadenze diverse in un arco temporale anche lungo ed anche se i singoli interventi, convergenti e coordinati verso l’unico fine, attingono a fonti scientifiche ed a tecniche affatto diverse tra loro. E, come accade per le équipe chirurgiche, anche nell’ambito dei trapianti ogni sanitario oltre che il rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, sarà anche costretto dagli obblighi ad ognuno derivanti dalla conver- genza di tutte le attività verso il fine comune unico. In virtù di tali obblighi il sanitario non potrà esimersi dal valutare l’attività precedente o contestuale svolta da altro collega sia pure specialista in altra disciplina, e dal controllarne la correttezza ponendo se occorre rimedio ad errori altrui che siano evidenti e non settoriali, e come tali rimediabili ed emendabili con l’ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio.

In tal senso, vista la precedente giurisprudenza, il lavoro di equipe vede l’istituzionale cooperazione di diversi soggetti, spesso portatori di diverse competenze. Tale attività deve essere integrata e coordinativa nonché sottratta all’anarchismo. Nei suoi confronti non opera, in linea di massima, il principio di affidamento. Naturalmente, però, tale responsabilità non è senza limiti.

Per esemplificare, l’anestesista rianimatore è portatore di competenze specialistiche e assume la connessa responsabilità in relazioni alle fasi di qualificata complessità nell’ambito dell’atto operatorio. Diverso discorso va fatto, invece, perché attiene a scelte e determinazioni che rientrano nel comune sapere di un accorto terapeuta, per quanto riguarda ambiti interdisciplinari, nei quali è coinvolta la concorrente competenza di diverse figure. In tali situazioni riemerge il ruolo di guida e responsabilità del capo- équipe.

Quando l’errore è riconoscibile, perché banale o perché coinvolge la sfera di conoscenza del capo-équipe, questi non può esimersi dal dirigere la comune azione ed imporre la soluzione più appropriata al fine di sottrarre l’atto terapeutico all’agire individuale. Egli dovrà dunque avvalersi dell’autorità connessa al ruolo istituzionale affidatogli.

Alla luce di principi la Corte di Cassazione ha ritenuto corretta la valutazione dei giudici di merito. Nel caso di specie178, infatti, la procedura di anestesia generale con intubazione a rapida sequenza dopo somministrazione di curaro era inappropriata. Il rilassamento dei muscoli respiratori unitamente all’ascesso ha determinato la completa occlusione delle vie respiratorie, ha impedito la respirazione autonoma, altresì ostacolato l’intubazione, con la conseguente asfissia anche a seguito dell’edema ulteriore indotto dai tentativi di inserimento del tubo respiratorio. Il sanitario, a fronte delle iniziative aneste- siologiche palesemente errate, non avrebbe dovuto tenere un atteggiamento acquiescente: avrebbe dovuto rifiutare di eseguire l’atto operatorio in quelle condizioni ed avrebbe semmai dovuto dar corso a tracheotomia in anestesia locale, estromettendo gli anestesisti. Proprio alla luce degli accesi contrasti insorti in sala operatoria circa le modalità dell’esecuzione dell’anestesia, il capo-équipe era ben consapevole della alta pericolosità dell’intubazione a rapita sequenza. Dall’altra parte si era in ambito interdisciplinare, l’errore era ben riconoscibile e dunque non poteva farsi affidamento sul comportamento degli anestesisti. L’alternativa condotta omessa avrebbe salvato la vita della paziente e dunque i due indicati profili di colpa fondano la responsabilità.

Poiché l’evento chirurgico costituisce evenienza ordinaria, è conforme alle regole di ordinaria prudenza e diligenza, oltre che all’arte medica, l’esecuzione dell’accertamento strumentale con ecografia o tac. In tal senso si sono espressi alcuni dei consulenti tecnici. La Corte in merito alla posizione del Capo-équipe, per ciò che attiene alla condotta tenuta in sala operatoria evidenzia che egli aveva ben chiaro i rischi e avrebbe dunque dovuto

178 Cfr. Pascale G. Responsabilità del medico e risarcimento del danno dopo le sezioni unite, Maggioli

opporsi rifiutando di seguire l’intervento in quel rischiose condizioni. È la colpevole acquiescenza che fonda testualmente la responsabilità179.

Proviamo ora ad esaminare il caso alla luce della nuova legge sulla responsabilità sanitaria e ad ipotizzare un possibile giudizio di merito.

Nel caso proposto, la paziente è deceduta per arresto cardiaco seguito ad asfissia indotta farmacologicamente, pertanto la responsabilità è addebitabile in primis all’aneste- sista che non solo non si è attenuto alle linee guida prescritte per l’operazione in esame ma ha proceduto, incurante degli effetti, alla somministrazione di curaro concorren- temente all’intubazione della paziente ed in secundis al primario, capo équipe, che ha continuato l’operazione chirurgica mostrando acquiescenza in merito al lavoro dei suoi colleghi, dovendosi invece rifiutare a procedere l’operazione in quelle rischiose condizioni.

La condotta del singolo medico è, dunque, funzionalmente connessa a quella del resto dell’equipe, dal momento che senza la necessaria interazione fra le competenze tecnico- scientifiche differenti proprie di ciascun componente, lo scopo unitario non potrebbe essere raggiunto. Ciò comporta che - in caso di esito negativo della diagnosi, terapia, o intervento chirurgico svolto in equipe - l’attribuzione di responsabilità in capo a ciascun componente può derivare non solo dalla violazione delle leges artis relative al proprio ambito di competenza e specializzazione, ma anche dalla mancata osservazione di un più ampio obbligo di vigilanza e controllo sull’operato degli altri membri. Entrambi i medici, secondo la Suprema Corte, rispondono di colpa grave180 in quanto, seguendo le regole di diligenza prudenza e perizia, avrebbero potuto prevedere l’evento avverso ed evitare l’infausto esito.

Alla luce della nuova normativa Gelli-Bianco, il giudizio dei giudici della Corte non sarebbe stato molto diverso, in quanto pur essendo i medici e la struttura assicurati da ogni rischio, riscontriamo sempre delle macro-carenze professionali in capo all’équipe che ha svolto suddetta operazione.

Nonostante l’introduzione della nuova legge, ed in particolar modo dell’art 590 sexies c.p. disciplinante la responsabilità del medico e l’esclusione della punibilità di quest’ultimo per imperizia, pur se attenutosi alle linee guida, i medici sarebbero stati condannati senza indugio. Sarebbero stati condannati ai sensi dell’art. 590 sexies c.p.181 non solo per non aver osservato le regole di diligenza e prudenza, ma anche quelle di

179 Cass. Penale, 5 maggio 2015 n. 33329.

180 Nel caso di specie colpa cosciente, art 61 n. 3 c.p.

181 Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario: Se i fatti di cui agli articoli 589

e 590 sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste salvo quanto disposto dal secondo comma. Qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto.

imperizia, non avendo osservato le linee guida del caso, ed altresì per non essersi fatto carico dei rischi connessi agli errori riconoscibili commessi nelle fasi antecedenti o contestuali al suo specifico intervento.

Le linee guida, introdotte in maniera definitiva dalla legge 8 marzo 2017 n. 24, rappresentano non solo uno strumento utile al fine di prevenire eventi avversi in ambito medico, ma valgono ad esimere il medico da responsabilità per imperizia nell’esercizio della pratica medica e quindi a svolgere il proprio lavoro senza preoccupazioni.

C

ONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

Da quanto fin qui esposto si può tentare di fare alcune valutazioni.

I fattori di crisi che principalmente hanno segnato il quadro in cui svolge la professione medica possono essere così sinteticamente indicati:

- il progresso della scienza medica, che ha innovato le tecnologie, generando nuove tipologie di pericolo e con esse nuove responsabilità;

- una maggiore consapevolezza da parte dei pazienti, che ha determinato un’accentuazione della tendenza a ricorrere all’autorità giudiziaria tutte le volte che le aspettative di guarigione, piuttosto che di cura, sono disattese: per paradosso, mentre un tempo l’errore medico era accettato come qualcosa di inevitabile perché insito in una professione esposta a umana fallibilità, oggi al contrario l’evento avverso non è più tollerato, anche quando non ha procurato nessun danno;

- una forte influenza da parte dei media, sempre pronti ad amplificare in maniera sensazionalistica i casi di responsabilità medica, determinando così nei confronti delle capacità della classe medica una crescente sfiducia che rischia di condizionare irrimediabilmente l’intesa tra medico e paziente;

- in ultimo, un profondo mutamento dell’elaborazione giurisprudenziale, che, non senza

iniziali contrasti, oggi si assesta su un allargamento delle tutele riconosciuto a favore del paziente.

L’incremento del contenzioso ha, contestualmente, messo in evidenza due fenomeni correlati alla responsabilità medica: quello relativo alla medicina difensiva e quello della fuga delle assicurazioni dal settore della responsabilità civile del medico.

La preoccupazione derivante un contenzioso sempre più accentuato, che genera forti timori nella classe medica, è tra le principali cause della cd. medicina difensiva.

I dati raccolti nel nostro Paese rivelano uno scenario preoccupante: secondo quanto riportato nella relazione finale della Commissione parlamentare e sugli errori e i disavanzi sanitari, l’incidenza percentuale dei costi della medicina difensiva si attesta intorno all’11,8%. Se si tiene conto dell’incidenza sulle risorse dello Stato, può dirsi che la medicina difensiva pesa sulla spesa sanitaria pubblica per 0,75% punti di PIL, ossia per oltre 10 miliardi di euro.

In secondo luogo, all’incremento del contenzioso legato alla medical malpractice si è accompagnata, come diretta conseguenza, una profonda crisi dell’assicurabilità per i

medici con specialità ad alto rischio e le strutture sanitarie, seguita nel tempo da un’impennata del costo dei risarcimenti e quindi dei premi assicurativi.

La difficile congiuntura del settore della responsabilità medica ha comportato sia una forte diminuzione dell’offerta da parte del mondo assicurativo, a causa del ritiro di alcune principali compagnie di assicurazione da questo segmento del mercato, scoraggiate dalla crescente alea del rischio; sia la predisposizione di soluzioni assicurative, da parte delle poche imprese che continuano ad assumere tali rischi, con franchigie molto elevate, ovvero facendo ricorso a tutta una serie di clausole tese a circoscrivere la copertura.

In un simile contesto, dopo decenni di immobilismo, il Legislatore è intervenuto con l’ultimo provvedimento normativo che potrebbe essere destinato a segnare il panorama della responsabilità medica.

La stesura della tesi è iniziata quando la legge Gelli-Bianco era ancora all’esame del Senato e oggi, non sappiamo ancora, nonostante sia in vigore da quattro mesi, quali risvolti vi saranno nella applicazione completa della legge e delle linee guida nell’operato del professionista e delle strutture del sistema sanitario nazionale.

La Legge 8 marzo 2017 n. 24 contenente: “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie”, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana il 17.03.2017 ed entrata in vigore il 01.04.2017, si propone di riformare il campo della responsabilità professionale dell’esercente le professioni sanitarie, creando criteri interpretativi ed applicativi certi ed univoci che, nell’intenzione del Legislatore, garantiscano una maggiore tutela del bene della salute, protetto nella sua rilevanza individuale e collettiva dalla nostra Carta fondamentale.

Tale finalità, senza dubbio alcuno, trova realizzazione nella regolamentazione dell’attività medica attraverso norme comportamentali specifiche (le raccomandazioni previste dalle linee guida) pubblicate ai sensi di legge ed elaborate da enti e istituzioni pubbliche e private nonché dalle società scientifiche e dalle associazioni tecnico- scientifiche delle professioni sanitarie, iscritte in un apposito elenco istituto e regola- mentato con decreto del Ministero della Salute, del quale viene imposta l’emanazione entro 90 giorni dalla entrata in vigore della legge.

L’obiettivo rilevante - anche se occorrerà attendere che il nuovo sistema venga con- cretamente “messo alla prova” - è quello di uniformare le prassi e linee comportamentali, caratterizzanti la professione sanitaria, in un determinato ambito e settore, mediante la validazione dei criteri e delle regole da parte dello Stato; il Quale, imponendo requisiti

minimi di rappresentanza, serietà e adeguatezza tecnica degli enti pubblici e privati nonché delle società ed associazioni tecniche scientifiche, che operano nel settore e verificano ininterrottamente se gli standards richiesti vengono mantenuti ai fini dell’iscrizione nell’elenco, diviene garante della qualità dell’assistenza medica e della effettività della tutela del bene salute dei cittadini, “fruitori” delle prestazioni sanitarie.

Da qui, la creazione della banca-dati di raccomandazioni previste da linee guida validate a livello nazionale, integrata nel neonato Sistema nazionale per le Linee Guida e costantemente aggiornata secondo quanto previsto dall’art. 5, comma 3, della Legge n° 24/2017.

Si vuole maggiore tutela anche per il cittadino, convenientemente tutelato da condotte scorrette del medico, divergenti dagli standards richiesti dalla professione sanitaria; maggiore tutela per il sanitario, al quale si vogliono fornire criteri e linee guida uniformi, che facciano da bussola o quanto meno da “quadro dei venti previsti” in un mare ricco di insidie e di correnti spesso contrastanti.

Ma c’è dell’altro. Non si dimentica l’Azienda, nel tentativo di ridimensionare, nonostante il ricorso all’utilizzo di polizze assicurative, il fenomeno della malpractice al fine di garantire lo standard di qualità: qualità che si traduce in risorse finanziarie e risultati espressi dal PNE (Programma nazionale esiti), che, attraverso una serie di indicatori, deve rendere conto della qualità dell’attività sanitaria per supportare i programmi di auditing clinico ed organizzativo finalizzati al miglioramento dell’efficacia e della equità nel Sistema Sanitario Nazionale.

Se il corpus delle regole è unico o comunque condiviso, maggiore chiarezza viene offerta anche agli operatori del diritto, a vario titolo, chiamati ad accertare e stabilire le eventuali responsabilità dell’esercente la professione sanitaria nei casi di esito infausto per il paziente.

Le finalità del provvedimento sono confermate dalle parole del primo firmatario che ha seguito il Disegno di Legge sin dal suo nascere in uno dei rami del Parlamento italiano, il quale ha affermato che: “Con questa legge aumentiamo le tutele dei professionisti prevedendo, al contempo, nuovi meccanismi a garanzia del diritto al risarcimento da parte dei cittadini danneggiati da un errore sanitario. Non solo: riusciremo a dare risposta principalmente a due problematiche: la mole del contenzioso medico legale, che ha causato un aumento sostanziale del costo delle assicurazioni per professionisti e strutture sanitarie, e il fenomeno della medicina difensiva che ha prodotto un uso inappropriato delle risorse destinate alla sanità pubblica. Il tutto nell’ottica della ricerca di un nuovo