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Dalla lettura dell’art. 7 della Legge emerge la scelta del Legislatore di distinguere la responsabilità dei professionisti e delle strutture sanitarie in base alla natura: extracontrattuale per i primi e contrattuali per le seconde.

Dalla distinzione in esame discendono, come è noto, rilevanti conseguenze: nell’illecito extracontrattuale il termine di prescrizione è quinquennale, anziché decennale, la costituzione in mora non è richiesta (art. 1219, comma 2, n. 1 del c.c.), sono risarcibili anche i danni non prevedibili, per effetto del mancato richiamo dell’art. 1225 da parte dell’art. 2056 c.c., e l’onere della prova è interamente a carico del danneggiato80.

La riforma non prende in considerazione gli effetti - tutt’altro che pacifici - della natura contrattuale della responsabilità sulla ripartizione dell’onere della prova, limitandosi al richiamo degli artt. 1218 e 2043 del c.c., senza risolvere i relativi contrasti giurisprudenziali.

La modalità di ripartizione dell’onere della prova detta al giudice una regola di giudizio cui basarsi per dare risposta alle domande delle parti in tutti i casi in cui la fase istruttoria non consenta al giudice di acquisire prove o presunzioni sui fatti di causa.

La disciplina dell’onere probatorio riveste, quindi, particolare importanza nei settori caratterizzati da mancanza di univoche evidenze scientifiche, come quello della responsabilità medica81.

80 Gazzoni F., Manuale di diritto privato, Napoli, Anno 2015, 643, 645, e 647.

81 Cfr. Stella F., Giustizia e modernità: la protezione dell’innocente e la tutela delle vittime, Milano, Anno

In tale ambito, si è assistito ad una radicale evoluzione giurisprudenziale, che non ha mancato di suscitare vivaci critiche in ambito giuridico e medico-legale.

Secondo la giurisprudenza di legittimità, dovendosi distinguere tra l’onere della prova e quello di allegazione, “nel giudizio avente ad oggetto il risarcimento del danno causato da un errore del medico o della struttura sanitaria, al quale sono applicabili le regole sulla responsabilità contrattuale, ivi comprese quelle sul riparto dell’onere della prova, l’attore ha il solo onere - ex art.1218 c.c. - di allegare e provare l’esistenza del contratto, e di allegare l’esistenza d’un valido nesso causale tra l’errore del medico e l’aggravamento delle proprie condizioni di salute, mentre spetterà al convenuto dimostrare che l’inadempimento non vi è stato, ovvero che esso pur essendo sussistente non è stato la causa efficiente dei danni lamentati dell’attore”82. Ciò comporta che anche “il mero dubbio sull’esattezza dell’inadempimento ricade necessariamente a carico dei convenuti83.

Segnatamente, tale giurisprudenza riferisce l’onere di allegazione non ad un qualsiasi inadempimento, “ma ad un inadempimento, per così dire qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno, competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non c’è stato, ovvero che, pur essendoci stato, non è stato causa del danno”.

Ai fini dell’assolvimento dell’onere della prova, è sufficiente la contestazione dell’aspetto colposo dell’attività medica secondo quelle che si ritengono essere, in un dato momento storico, le cognizioni ordinarie di un non-professionista che, espletando la professione di avvocato, conosca comunque (o debba conoscere) l’attuale stato dei profili di responsabilità del sanitario.

L’attribuzione alle strutture e ai professionisti sanitari dell’onere di dimostrare la correttezza della prestazione risale ad un’altra nota sentenza delle Sezioni unite che ha statuito che l’art. 2697 c.c., richiedendo all’attore di provare i fatti costitutivi del diritto fatto valere e al convenuto i fatti modificativi o estintivi del diritto stesso, sancisce il principio della presunzione di persistenza del diritto, pacificamente applicabile ai casi in cui l’attore domanda l’adempimento. Conseguentemente, il creditore deve provare l’esistenza della fonte negoziale o legale del credito e, se previsto, del termine di scadenza, in quanto si tratta di fatti costitutivi del diritto di credito, ma non anche l’inadempimento, dovendo il debitore provare l’adempimento, quale fatto estintivo dell’obbligazione.

82 Cass. Civ., Sez. Unite, 11 gennaio 2008, n. 577.

II secondo motivo sostenuto dalle Sezioni unite consiste nel principio di riferibilità o di vicinanza della prova secondo cui l’onere viene “ripartito tenuto conto in concreto, della possibilità per l’uno o per l’altro soggetto di provare fatti e circostanze che ricadono nelle rispettive sfere di azione”. Diversamente - vi si afferma - “il creditore incontrerebbe difficolta, spesso insuperabili, se dovesse dimostrare di non aver ricevuto la prestazione”84.

Parte della giurisprudenza offre un’interpretazione dell’art. 1218 c.c. che sembra porre a carico dell’attore solo la prova del danno e della conclusione del contratto di spedalità con la struttura, gravando i sanitari dell’onere di dimostrare non solo la correttezza del proprio operato, ma anche la causa che ha reso impossibile il conseguimento del risultato normalmente atteso dal trattamento eseguito.

Alla base di tale impostazione vi è il superamento della tradizionale distinzione tra obbligazione di mezzi e di risultato.

In quest’ultima tipologia di obbligazione, “ciò che importa è il conseguimento del risultato stesso, essendo indifferente il mezzo utilizzato per raggiungerlo. La diligenza opera solo come parametro, ovvero come criterio di controllo della valutazione del comportamento del debitore; in altri termini, è il risultato cui mira il creditore, e non il comportamento, ad essere direttamente in obbligazione”. Diversamente, “nelle obbliga- zioni di mezzi la prestazione dovuta prescinde da un particolare esito positivo dell’attività del debitore, che adempie esattamente ove svolga l’attività richiesta nel modo dovuto. In tali obbligazioni è il comportamento del debitore ad essere in obbligazione, nel senso che la diligenza è tendenzialmente considerata quale criterio determinativo del contenuto del vincolo, con l’ulteriore corollario che il risultato è caratterizzato dall’aleatorietà, perché dipende, oltre che dal comportamento del debitore, da altri fattori esterni oggettivi o soggettivi”85.

Tale distinzione è stata, tuttavia, superata dalla recente giurisprudenza di legittimità. Secondo la più recente giurisprudenza di legittimità, il medico è “tenuto non già ad una prestazione professionale purchessia, bensì impegnato ad una condotta specifica

84 Cass. Civ. Sez. Unite, 30 ottobre 2001, n. 13533, secondo cui si trova conferma nell’articolo 2697 c.c.

Infatti, fa un distinguo “tra fatti costitutivi e fatti estintivi” secondo cui: “Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda. Spetta, al debitore convenuto, dimostrare, quindi, la prova diretta e positiva dell’adempimento, trattandosi di fatto riferibile alla sua sfera di azione.

particolarmente qualificata, in ragione del proprio grado di abilità tecnico-scientifica nel settore di competenza, in vista del conseguimento di un determinate obiettivo dovuto, avuto riguardo al criterio di normalità”86.

Inoltre, “un risultato è dovuto in tutte le obbligazioni, poiché in ciascuna obbliga- zione assumono rilievo cosi il risultato pratico da raggiungere attraverso il vincolo, come l’impegno che il debitore deve porre per ottenerlo”87.

Quindi, secondo la Suprema Corte, “il medico e l’ente sanitario sono contrattual- mente impegnati al risultato dovuto, quello cioè conseguibile secondo criteri di normalità, da apprezzarsi in relazione alle condizioni del paziente, alla abilità tecnica del primo e alla capacità tecnico-organizzativa del secondo”88.

Quindi, se il professionista è uno specialista o comunque assume un’obbligazione che presuppone tale qualità, la diligenza ex art. 1176, comma 2, c.c. gli impone di uniformare la propria condotta a quella “misura qualificata di perizia corrispondente allo specifico grado di specializzazione nell’ambito del settore di competenza in cui rientra l’attività professionale esercitata e nell’adozione dei mezzi tecnici adeguati allo standard della categoria”89.

Anche nel caso in cui il medico non sia specialista, la differente formulazione del secondo comma dell’art. 1176 c.c. rispetto al primo impedisce interpretazioni di favore per il professionista. In particolare, ai sensi del comma 1, solo per le obbligazioni estranee all’esercizio di attività professionali la condotta del convenuto viene valutata prendendo come punto di riferimento “il comportamento che avrebbe tenuto, nelle medesime circostanze, il “cittadino medio”, ovvero il bonus pater familias: vale a dire la persona di normale avvedutezza, formazione e scolarità”90.

Invece, nell’adempimento delle obbligazioni professionali, il fatto che nel comma 2 dello stesso art. 1176 c.c. la natura dell’attività esercitata rappresenta il criterio di valuta- zione della diligenza induce a credere che l’accertamento della diligenza in tale ambito debba essere ben più rigoroso, specie ove si tratti di prestazioni incidenti su diritti fondamentali. Di conseguenza, come recentemente chiarito dalla Corte di Cassazione, la colpa sussiste non solo quando la condotta è difforme da quella che avrebbe tenuto il

86 Cass. Civ. Sez. III, 13 aprile 2007, n. 8826. 87 Cass. Civ. Sez. Unite, 11 gennaio 2008, n. 577. 88 Cass. Civ. Sez. III, 9 ottobre 2012, n. 17143. 89 Idem nota n. 62.

bonus pater familias, ma anche ogniqualvolta diverga da quella propria del “professio-

nista medio” (ossia l’homo eiusdem generis et condicionis)., intendendosi per uomo medio non il professionista mediocre, ma soltanto quello “bravo”, ossia “serio, preparato, zelante, efficiente”91 proprio perché, come precisato, la natura professionale dell’attività

eleva lo standard di diligenza richiesto.

Allora, non si tratta di un’obbligazione di risultato in senso tradizionale, poiché l’inadempimento del medico non può essere automaticamente desunto dal mancato raggiungimento del risultato, “ma deve essere valutato alla stregua dei doveri inerenti allo svolgimento dell’attività professionale (...). L’inadempimento consegue infatti alla prestazione negligente, ovvero non improntata alia dovuta diligenza da parte del professionista (e/o della struttura sanitaria) ai sensi dell’art. 1176, comma 2, adeguata alla natura dell’attività esercitata e alle circostanze concrete del caso”92.

Sebbene venga superata la concezione della tradizionale obbligazione di risultato, il suddetto, nuovo modo di intendere la prestazione è foriero di un notevole cambiamento nella gestione del contenzioso, giacché comporta per i convenuti conseguenze molto sfavorevoli in termini di ripartizione dell’onere della prova.

È intuitivo che ove si identifichi la prestazione professionale con l’obbligo di tenere una condotta diligente, prudente e perita, la dimostrazione di aver rispettato le leges artis comporta di dover considerare adempiente il convenuto indipendentemente dalla valutazione del nesso causale. Quando, invece, la prestazione consista nel far conseguire al paziente il beneficio normalmente conseguibile nelle particolari circostanze oggettive e soggettive del caso concreto, la divergenza tra l’esito del trattamento ed il risultato atteso comporta l’inadempimento, che il paziente deve solo allegare, ossia dedurre in giudizio, e non già necessariamente dimostrare. E poiché il fatto estintivo ex art. 1218 c.c. si identifica nell’impossibilita della prestazione derivante da causa non imputabile al professionista, il convenuto viene ad essere gravato dell’onere di dimostrare che il

91 Cass. Civ. Sez. III, 16 aprile 2015, n. 7682. La diligenza deve valutarsi avuto riguardo alla natura dell’at-

tività esercitata - art.1176 c.c.-, al professionista è richiesta una diligenza qualificata dalla perizia e dall’impiego di strumenti tecnici adeguati al tipo di attività da espletare e allo standard professionale della sua categoria; l’impegno del medesimo dovuto se si manifesta superiore a quello del comune debitore, va considerato viceversa corrispondente alla diligenza normale in relazione alla specifica attività professionale esercitata, giacché il medesimo deve impiegare perizia ed i mezzi tecnici adeguati alla standard professionale della sua categoria. Tale standard va a determinare, in conformità alla regola generale, il contenuto della perizia dovuta e la corrispondente misura dello sforzo diligente adeguato per conseguirlo, nonché del relativo grado di responsabilità.

raggiungimento del risultato solitamente conseguibile, ossia la prestazione, è stato impossibile per una causa non ascrivibile a propria colpa, vale a dire ossia a causa di un fatto non prevedibile o non evitabile”93.

In applicazione di tale impostazione, in un caso, per esempio, di postumi permanenti subiti da una bambina per effetto della lesione del nervo circonflesso, avvenuta nell’esecuzione dell’iniezione intramuscolare finalizzata alla vaccinazione obbligatoria antitifica, i genitori hanno adempiuto al proprio onere probatorio, allegando l’erronea esecuzione del trattamento, poiché risponde a regolarità causale il fatto che le iniezioni correttamente seguite non causano lesioni. Sarà onere del convenuto dover dimostrare sia di aver seguito i protocolli nella localizzazione e nell’esecuzione dell’iniezione sia che la causa dell’evento dannoso era riconducibile “al caso fortuito, ovvero all’andamento variabile e talvolta imprevedibile del nervo circonflesso, come accertato dalla consulenza”, che rappresenta una circostanza estranea alla sfera di controllo e di prevedibilità della professionista, tanto più che la natura routinaria del trattamento non rendeva necessari altri e più complessi accertamenti preventivi. Solo in virtù di tali evidenze, la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza di merito che aveva rigettato la domanda risarcitoria94.

La tesi dell’obbligo del risultato (normalmente conseguibile) non produce conse- guenze operative solo sulla ripartizione dell’onere della prova, ma anche sul contenuto stesso del nesso causale.

Infatti, secondo parte della giurisprudenza, “si deve ritenere che, dal punto di vista del danneggiato la prova del nesso causale, quale fatto costitutivo della domanda intesa a far valere la responsabilità per l’inadempimento del rapporto curativo si sostanzia nella dimostrazione che dell’esecuzione del rapporto curativo, che si sarà articolata con comportamenti positivi ed eventualmente omissivi, si è inserito nella serie causale che ha condotto all’evento di preteso danno, che è rappresentato o dalla persistenza della patologia per cui si era richiesta la prestazione o dal suo aggravamento fino anche ad un esito finale come quello mortale o dall’insorgenza di una nuova patologia che non era

93 Così rileva Cass. Civ. Sez. III, 30 giugno 2015, n. 13328. Ai fini di tale accertamento, è irrilevante che

la statistica clinica consideri un fatto come complicanza, ossia come: “un evento dannoso, insorto nel corso dell’iter terapeutico, che pur essendo astrattamente prevedibile, non sarebbe evitabile”. Infatti, l’impreve- dibilità ovvero l’inevitabilità escludono la responsabilità se rendono impossibile in concreto il raggiungimento del risultato, non soltanto sul piano astratto dei dati statistici.

quella con cui il rapporto era iniziato. La dimostrazione di uno di tali eventi, connotandosi come inadempimento sul piano oggettivo, essendosi essi verificati a seguito dello svolgimento del rapporto curativo, e, quindi, necessariamente - sul piano della causalità materiale - quale conseguenza del suo svolgimento, è ciò che deve provare il danneggiato ai fini della dimostrazione del nesso causale”95.

Ne consegue che, per la sussistenza del nesso causale, è sufficiente che il danno derivi dallo svolgimento dell’attività sanitaria, non necessariamente da determinate condotte colpose.

Infatti, se l’inesatto adempimento viene identificato nella condotta commissiva od omissiva del convenuto, l’indagine sulla relazione eziologica con il pregiudizio consiste nell’accertamento della causalità materiale ex artt. 40 e 41 c.p. e, quindi, incontra le incertezze connesse al consueto carattere probabilistico delle conoscenze scientifiche su cui si basa tale giudizio.

Se invece si ritiene che l’inesatto adempimento consiste nel mancato raggiungimento del risultato normalmente atteso, l’esame del rapporto causale si identifica nella causalità giuridica ex art. 1223 c.c. tra evento lesivo (o insuccesso del trattamento) e danni risarcibili. Su questa base, l’incertezza delle evidenze scientifiche non grava sull’attore, ma sul professionista in quanto tenuto a dimostrare per quale causa a se non imputabile è stato impossibile procurare all’assistito il beneficio solitamente conseguito96.

Quest’impianto argomentativo della giurisprudenza di legittimità è stato contestato da chi ha messo in luce che tale impostazione riduce l’accertamento del nesso eziologico al mero criterio di “eliminazione mentale” tra evento e trattamento, senza tenere conto delle teorie elaborate per selezionare gli antecedenti giuridicamente rilevanti nell’ambito di tutte le condiciones sine quibus non, dei criteri medico-legali di accertamento del rapporto causale e del fatto che quest’ultimo, avendo la funzione di selezionare i responsabili, deve mettere in relazione il danno con determinate condotte colpose poste in essere nel corso del trattamento, non con la prestazione sanitaria nel suo complesso.

All’orientamento giurisprudenziale consolidato sono state mosse numerose critiche, che portano ad attribuire all’attore l’onere di dimostrare anche i profili di negligenza, imprudenza o imperizia rilevanti nella fattispecie concreta. In primo luogo, il fatto che la prestazione sia tesa a procurare un determinato beneficio al creditore non pregiudica né

95 Cass. Civ. Sez. III, 12 settembre 2013, n. 20904, cit. 96 Cass. Civ. Sez. III, 9 ottobre 2012, n. 17143, cit. a pag. 40.

l’esistenza né l’utilità della distinzione tra obbligazione di mezzi e di risultato, essendo l’oggetto dell’obbligazione di mezzi “la condotta diligente” del debitore, ossia l’impiego di quella misura di sforzo e di impegno che, nell’ordine naturale delle cose, dovrebbe portare al risultato sperato.

È evidente come la necessaria funzionalizzazione della prestazione a realizzare l’interesse del creditore non sia affatto incompatibile con la natura di obbligazione di mezzi.

Del resto, il diritto deve descrivere e tenere conto della realtà che va a regolare, spesso ricca di sfaccettature e di peculiarità’97. Occorre, dunque, riflettere se la sussistenza di un risultato pratico in ogni obbligazione legittimi il superamento dell’obbligazione di mezzi o se quest’ultima debba continuare a far parte del mondo del diritto in quanto espressione della multiforme realtà in cui si manifesta l’adempimento del rapporto obbligatorio.

Si è affermato che “vi possono essere ipotesi in cui il verificarsi di un certo risultato in termini di bene o di utilità, cui tiene il creditore (ad es. la guarigione di una malattia o l’esito favorevole di una causa), non dipende solo dalla volontà del debitore, ma da altri fattori oggettivi o soggettivi (riguardanti, questi ultimi, anche il comportamento del creditore), il che fa sì che sulla produzione di quel risultato vi sia una forte carica di aleatorietà, definendosi in questi casi l’obbligazione “di mezzi”, stante che la prestazione del debitore non può realizzare di per sé l’interesse del creditore.

Esistono, pero, obbligazioni nelle quali “la produzione del risultato” può essere messa in relazione con un preciso comportamento del debitore, onde il comportamento potrà assumere forma e contenuto “a partire dal risultato” (si pensi alla prestazione consistente nel procurare l’acquisto di un bene al creditore o l’esecuzione di un’opera).

Diversamente, nelle prestazioni connotate da aleatorietà - come avviene in quelle mediche - il comportamento diligente, prudente e perito del debitore non può di per sé realizzare l’interesse del creditore’. Dunque, la mancanza di beneficio per il creditore non dimostra di per sé la violazione degli obblighi del debitore, perché può dipendere da circostanze estranee alla sfera d’azione di quest’ultimo, ad esempio all’alea terapeutica. Di conseguenza, in tali casi, affermare la responsabilità per non aver fatto ottenere al creditore il risultato significa configurare una presunzione di inadempimento (non già un

inadempimento provato), la quale, come è noto, è concetto ben diverso rispetto a quello di presunzione di colpa e molto meno compatibile con l’art.1218 c.c.

Seguendo tale via, si giunge a ritenere che il soggetto che esegue prestazioni caratterizzate da aleatorietà si vede presumere l’inadempimento e viene condannato al risarcimento per non aver dimostrato il fatto estintivo ex art. 1218 c.c., nonostante non vi sia prova di negligenza, imprudenza o imperizia; mentre, per le prestazioni non connotate da aleatorietà, l’assenza del risultato dimostra (e non soltanto fa presumere) l’inadempimento.

Di conseguenza, nelle prestazioni di carattere aleatorio, la negligenza, l’imprudenza o l’imperizia sono necessarie ai fini della sussistenza dell’inadempimento, anziché rilevare soltanto nella successiva fase della prova del fatto estintivo.

Dunque, l’affermazione della responsabilità presuppone che la condotta del medico diverga dal canone di comportamento idoneo a procurare il massimo beneficio possibile per la salute del paziente.

Tale accertamento è necessario per la sussistenza dell’inadempimento. Una volta raggiunta tale prova, il medico viene ad essere gravato ex art. 1218 c.c. dell’onere di dimostrare che, per causa a sé non imputabile, era impossibile conformarsi a tale canone di condotta.

Ad esempio, il chirurgo che si allontani dalla sala operatoria prima della chiusura della breccia chirurgica e inadempiente rispetto all’obbligo di prudenza, ma può dimostrare di essersi dovuto allontanare per l’urgenza di occuparsi di un altro malato98.