• Non ci sono risultati.

1-6. “Così come quando l’occhio (guarda) il maniera diretta il sole non può sopportare la sua intrinseca luminosità e rimane più accecato del consueto; così, la mia capacità di comprendere rimane annichilita rispetto a come era prima dalla santa luce che, così come fa il sole, governa ogni altro essere”.

1. Come: l’utilizzo della similitudine incipitaria è un tratto stilistico tipico della retorica antica e medievale particolarmente caro proprio al Dante della Commedia. Dantesco è anche, oltre l’impostazione retorica dell’incipit il contenuto: Serdini, infatti, rielabora qui un’immagine analogica per superamento tipica della poesia del Paradiso, dove, l’esperienza da parte dell’uomo Dante della luce divina riflessa nei vari personaggi che incontra e nei cieli che attraversa è quasi sempre definita un “accecamento” simile, ma superiore a quello esperito da chiunque sulla terra fissi il proprio sguardo nel sole. Per dritta linea: in maniera diretta.

2. Spera: “luminosità”, riferita in particolare alla luce del sole. Cfr. ED.

3. Vinto: “sopraffatto, soverchiato” (ED, sv “vincere”). L’utilizzo del verbo per indicare la sopraffazione della luce sui sensi e sulle facoltà intellettuali dell’uomo è tipicamente dantesco e si riscontra soprattutto nel Paradiso. Assai da quel che sòle: “rispetto a come accade di consueto”. Sòle: rima identica con «sole», v. 1.

4. L’ingegno mio: “le mie capacità intellettive”. Da quel ch’egli era: “rispetto a com’era prima”.

5. Vinto: cfr. v. 3. In particolare, il verbo impiegato nell’accezione di sconfitta dell’ingegno umano nel comprendere verità o realtà che lo trascendono è tipicamente dantesco (Pd, 11, 28-30: «La provedenza, che governa il mondo / con quel consiglio nel quale ogne aspetto / creato è vinto pria che vada al fondo»). Santa

luce: Dante. Il sintagma ricalca quelli adoperati nel Paradiso da Dante per riferirsi ai beati. Cfr. Dante (Pd, 17,

4-5: «tal era io, e tal era sentito / e da Beatrice, e da la santa lampa»). 6. Impera: “governa”.

7-9. “Ardita Colonna, dal momento che tu sei padrona di comandarmi, e io voglio ubbidire; e sarà una degna Musa a guidarmi!”.

7. Franca: “ardita” (Pasquini). Colonna: senhal di Gian Colonna, al quale è inviato questo componimento. Il senhal, di ascendenza petrarchesca (cfr. Rvf 269), è adoperato altrove da Saviozzo (9, 14: «che per una colonna»; 13, 63: «Colonna di giustizia»; 15, 33: «O colonna gentil, che già molti anni»). Duce: “padrona”.

8. E io voglio ubbidire: l’espressione indica la sottomissione del poeta cortigiano alle richieste del proprio protettore.

9. Ma: “e”. Fia: “sarà”. Ant. Degna Musa: l’invocazione alle Muse è un topos costantemente impiegato nella poesia epica prima, nella quale è il poeta, prima di iniziare la trattazione vera e propria, si affida alle Muse per chiedere loro l’ispirazione necessaria per esprimere al meglio la propria arte poetica. Serdini recupera

109

qui questo tratto quasi come se si stesse accingendo a raccontare l’epos di Dante, il poeta per eccellenza (cfr. v. successivo).

10-12. “Grazie a lei ho il coraggio, e poi per servirti di parlare del sacro poeta fiorentino che ha fatto salire in cielo la nostra lingua”.

10. Lei: la Musa. Per te servire: cfr. v. 8.

11. Sacro fiorentin poeta: Dante. L’utilizzo dell’aggettivo «sacro» in riferimento a Dante è ripresa boccacciana. In questo senso, cfr. soprattutto Am. Vis., 6, in cui è rappresentata una visione di Dante connotata da toni di forte sacralità.

12. Nostra lingua ha fatta in ciel salire: l’immagine di Dante come somma gloria del volgare italiano è recuperata da Boccaccio (Trattatelo, 85 «e glorioso sopra ogni altro fece il volgar nostro»). Serdini focalizza la celebrazione di Dante sul primato poetico e linguistico di questi.

13-15. “Quale influsso divino congiunse il bel pianeta Mercurio alla costellazione della Vergine nella fase d’ascesa e e vide Venere così aggraziata e felice?”.

13-14. I vv. mettono in atto una perifrasi di tipo astrologico in accordo con la grande dottrina medievale delle congiunzioni astrali, secondo la quale i pianeti influenzano le attitudini e i comportamenti umani. In questo senso, la congiunzione di Mercurio con la costellazione della Vergine regala propensione allo studio delle lettere e delle scienze; Dante stesso sfrutta nella Commedia la credenza degli influssi astrali nel ricondurre alla propria nascita sotto la costellazione dei Gemelli il proprio «ingegno» poetico (cfr. Pd. 22, 112-120). Tuttavia, mentre Dante riconduce all’influsso dei Gemelli non solo la propria abilità poetica, ma in generale le proprie facoltà intellettive (cfr. Baranski, Paradiso XXII, p. 350), Serdini modifica la costellazione di riferimento, focalizzando il discorso sulla sola capacità poetica di Dante (cfr. v. 12).

15. Venùs: il pianeta Venere. Il sostegno del pianeta Venere sta a indicare la centralità dell’amore per Beatrice nell’esercizio da parte di Dante di una poesia resa così eccelsa dalla congiunzione astrale descritta ai vv. 13-14. Grazïosa e leta: “aggraziata e felice”, cioè propizia. Dittologia. Leta: cfr. Rohlfs, par. 87.

16-18. “In quel momento furono presenti tutte le Muse, e Apollo vide il suo Parnaso arricchito, Dafne (si vide) più che mai bella e benigna”.

16. Le ninfe: ovvero le Muse, considerate come ninfe delle sorgenti. A lui: al momento della nascita di Dante, durante il quale, secondo Serdini, devono essere state presenti le Muse, le quali gli hanno infuso, così come i pianeti, la capacità poetica. Presente: l’utilizzo della -e finale per il plurale è tipico di alcune varietà dell’Italia centrale. Cfr. Rohlfs, par. 142.

17. Apollo: il riferimento si può meglio comprendere alla luce del riferimento da parte di Dante stesso ad Apollo nella prima invocazione del Paradiso, in cui appunto si chiede al Dio greco il dono di una capacità poetica tale da guadagnare a Dante la corona di alloro poetico (cfr. Pd. 1, 13-15: «O buono Apollo, a l’ultimo lavoro / fammi del tuo valor siffatto vaso, / come dimandi a dar l’amato alloro»). Serdini banalizza questa terzina, non riconoscendo in Apollo una figura del Dio cristiano e leggendo questo brano come un riconoscimento del merito apollineo nell’aver ispirato il canto di Dante: di qui anche l’allargamento della dimensione mitologica parnassiana di questi versi. Parnaso: il monte Parnaso, nella mitologia greca sede di Apollo e delle Muse e per questo considerato come monte dedicato all’arte poetica. Ricco: “arricchito”. Vide Apollo il suo ricco Parnaso: tmesi.

18. Damnès: Dafne, considerata in questo caso come “alloro” e, quindi, metaforicamente come “gloria poetica”, dal momento che il lauro è la pianta con cui vengono incoronati i poeti. L’ambientazione mitologica è probabilmente ispirata dal Trattatello boccacciano, dove, pur non essendoci una scena completamente sovrapponibile a questa, compare l’episodio del sogno della madre di Dante incinta di lui, nel quale la donna immagina di partorire sotto un albero di alloro suo figlio, il quale, appena nato, inizia a nutrirsi soltanto delle foglie dell’albero trasformandosi in un breve tempo in un pastore, associando così la celebrazione delle capacità poetiche di Dante all’immagine dell’albero d’alloro che cresce in un locus amoenus, che Serdini specifica in esplicito riferimento al Parnaso della tradizione classica (cfr. v. precedente). Cfr. Boccaccio (Trattatello, p. 7: «Pareva alla gentile donna nel suo sonno essere sotto uno altissimo alloro, sopra uno verde

110

prato, allato ad una chiarissima fonte, e quivi si sentia partorire uno figliuolo, il quale in brevissimo tempo, nutricandosi solo delle orbache, le quali dello alloro cadevano, e delle onde della chiara fonte, le parea che divenisse un pastore, e s’ingegnasse a suo potere d’avere delle fronde dell’albero, il cui frutto l’avea nudrito»).

Bella e fervente: “bella e benigna”. Dittologia.

19-21. “Minerva vide il ventre benedetto pieno di rugiada partorire un fiore che poi è rimasto in braccio a Beatrice”.

19. Minerva: anche in questo il riferimento alla dea può essere considerato come una semplificazione in chiave mitologico-classicistica di Minerva, la quale, in Dante è soggetta invece, come si è già visto per Apollo, a interpretazioni di tipo cristiano, dal momento che Minerva è la dea vergine integra e perfetta che sembra indicare la sapienza derivante direttamente da Dio (cfr. ED, sv. Minerva). Benedetto vaso: la madre di Dante. Sineddoche. Il sintagma è dantesco (Pg, 10, 64: «li precedeva al benedetto vaso»), ma è soggetto a un fraintendimento da parte di Serdini, dal momento che in Dante il «benedetto vaso» è l’arca santa, mentre qui è perifrasi per definire la madre di Dante. La santificazione di questa è, comunque, anch’essa di matrice dantesca. Il termine «benedetto» riecheggia, infatti, un passo della Commedia (If, 8, 44-45: «Baciommi il volto, e disse: “Alma sdegnosa, / benedetta colei che in te s’incinse!”» poi ripreso anche da Boccaccio (Am. Vis, 6, 17-19: «Molto si posson riputar beati / color che già ti seppero e colei / che ‘n te si ‘ncinse, onde siamo avvisati»). Anche l’impiego del termine «vaso» coopera alla santificazione della madre di Dante, indicando il ventre di questa (e, dunque, essendo sineddoche per indicare la donna), con riferimento al luogo del suo corpo che generò Dante. In questo senso la metafora del vaso-ventre è propria della tradizione mariana, dove, appunto, la Vergine in quanto madre di Cristo è celebrata come «vas electum», «vas honoris», «vas caelestis gratiae» nella liturgia medievale (cfr. SLML, vol. I, p. 132).

20. Pien di rugiada: l’immagine del vaso pieno di rugiada proviene anch’essa dalla liturgia medievale, ove significa il ventre che ospita il frutto di un parto divino (Harmonia mundi, p. 228), come nel caso della liturgia legata a Sant’Anna che la definisce «vas caelestis plenum roris» (Salve sancta parens, in HLMA, vo. III, p. 189, v. 4). Parturire: ant. Fiore: il termine è ripreso dallo stesso inno Salve sancta parens, in cui Maria è definita «flos mulierum» (p. 189, v. 21).

21. ‘n grembo a Bëatrice è poi rimaso: “poi è rimasto in braccio a Beatrice”, ossia “poi si è dato completamente a Beatrice”. Il v. riconosce l’indubbia e fondamentale importanza di Beatrice per la nascita e lo sviluppo dell’ispirazione poetica di Dante.

22-24. “Felice ventre nel quale tutto il valore della nostra lingua acquistò gloria fra i popoli latini, e tu ne hai l’onore!”.

22. Felice ventre: la madre di Dante. Sineddoche. Il sintagma è ripreso anch’esso dalla liturgia di Sant’Anna («felix venter tuus», AHME, vo. 39, p. 56) e, così come accade per «benedetto vaso» al v. 19, contribuisce a connotare in senso sacrale la nascita di Dante, pur non sviluppando questo tipo di celebrazione in riferimento al contenuto religioso e all’impostazione profetica della Commedia, ma concentrandosi, da un lato, sulla vena più propriamente amorosa della sua poesia (cfr. v. 21), dall’altro sull’aspetto retorico- linguistico (cfr. v. 12 e vv. 23-24).

23-24. I vv. si focalizzano sull’aspetto di Dante come somma gloria poetica in lingua volgare, in accordo con gli standard esegetici trecenteschi della Commedia e conformemente a quanto espresso da Boccaccio nel Trattatello (cfr. v. 12 e Trattatello, par. 19: «per costui ogni bellezza di volgar parlare sotto debiti numeri è regolata»; par. 191: «e mostrando la bellezza del nostro idioma»). In fra’ latini: fra i popoli parlanti latino, ossia fra gli italiani.

24. Tu: la madre di Dante, il quale detiene l’onore di aver partorito colui che è considerato il sommo poeta in lingua volgare.

25-27. “O lume di eloquenza fra i poeti divini, che la sua patria e tutti suoi concittadini hanno venerato in virtù della sua fama!”.

25. Lume di eloquenza: Dante. Il termine «lume» per definire Dante è una ripresa di quanto già detto al v. 5 («santa luce»). Il riferimento all’«eloquenza» della quale lui si rivelerebbe essere il massimo splendore si

111

collega alla superiorità dantesca nell’aspetto retorico-linguistico già evidenziata ai vv. 12 e 23-24. Divini poeti: “poeti eccelsi”.

26-27. I vv. sono ironici e vogliono introdurre il tema del disprezzo che Dante ha dovuto subire dai suoi concittadini, i quali lo hanno ingiustamente esiliato, e da tutti gli altri che non lo hanno aiutato nel corso delle sue peregrinazioni in giro per le corti della penisola italiana. Il tema, che viene poi sviluppato nella terzina successiva, è boccacciano (cfr. vv. successivi).

27. Vicini: “concittadini”. Il termine è utilizzato nella Commedia nel corso della profezia che Oderisi da Gubbio fa dell’esilio dantesco. Cfr. Dante (Pg. 11, 140-141: «ma poco tempo andrà, che ‘ tuoi vicini / faranno sì che tu potrai chiosarlo»)

28-30. “Ti puoi giustamente vantare del bene che quando era in vita tu non riconoscesti, e del quale poi hai disprezzato perfino le ceneri!”.

28. Ti puoi millantar: “ti puoi vantare”. Ironia. Cfr. vv. precedenti. Popolo ingrato: i Fiorentini. Il sintagma costituisce uno degli epiteti adoperati da Dante nelle sue invettive antifiorentine della Commedia. Cfr. Dante (If, 15, 61-62: «Ma quello ingrato popolo maligno / che discese di Fiesole ab antico»).

29-30. I vv. mostrano come Dante ha dovuto subire il disprezzo dei propri concittadini non soltanto in vita, ma anche dopo morto, connotando così in maniera enormemente negativa i Fiorentini, i quali si sono macchiati del massimo scempio verso il loro più illustre conterraneo. Si tratta di uno dei temi-cardine di Boccaccio

(Trattatello, par. 8: «quanto per vertù e per scienzia e per buone operazioni meritasse, assai il mostrano e

mostreranno le cose che da lui fatte appaiono: le quali, se in una republica giusta fossero state operate, niuno dubbio ci è che esse non gli avessero altissimi meriti apparecchiati […] In luogo di quegli, ingiusta e furiosa dannazione, perpetuo sbandimento, alienazione de’ paterni beni, e, se fare si fosse potuto, maculazione della gloriosissima fama, con false colpe gli fur donate. Delle quali cose le recenti orme della sua fuga e l’ossa nelle altrui terre sepulte e la sparta prole per l’altrui case, alquante ancora ne fanno chiare. Se a tutte l’altre iniquità fiorentine fosse possibile il nascondersi agli occhi di Dio, che veggono tutto, non dovrebbe questa una bastare a provocare sopra sé la sua ira? Certo sì»; «Oh ingrata patria, quale demenzia, quale trascutaggine ti teneva, quando tu il tuo carissimo cittadino, il tuo benefattore precipuo, il tuo unico poeta con crudeltà disusata mettesti in fuga, e poscia tenuta t’ha? Se forse per la comune furia di quel tempo mal consigliata ti scusi; ché, tornata, cessate l’ire, la tranquillità dell’animo, ripentùtati del fatto, nol rivocasti?»; «Ahi! misera madre, apri gli occhi e guarda con alcuno rimordimento quello che tu facesti; e vergógnati almeno, essendo reputata savia come tu se’, d’avere avuta ne’ falli tuoi falsa elezione!»; par. 000: «Adunque se gli odii, l’ire e le inimicizie cessano per la morte di qualunque è che muoia, come si crede, comincia a tornare in te medesima e nel tuo diritto conoscimento; comincia a vergognarti d’avere fatto contra la tua antica umanità; comincia a volere apparire madre e non più inimica; concedi le debite lagrime al tuo figliuolo; concedigli la materna pietà; e colui, il quale tu rifiutasti, anzi cacciasti vivo sì come sospetto, disidera almeno di riaverlo morto; rendi la tua cittadinanza, il tuo seno, la tua grazia alla sua memoria […] Che dunque farai? starai sempre nella tua iniquità ostinata? sarà in te meno d’umanità che ne’ barbari, li quali troviamo non solamente avere li corpi delli loro morti raddomandati, ma per riavergli essersi virilmente disposti a morire? […] Cerca tu adunque di volere essere del tuo Dante guardiana: raddomandalo; mostra questa umanità, presupposto che tu non abbi voglia di riaverlo; togli a te medesima con questa fizione parte del biasimo per addietro acquistato: raddomandalo. Io son certo che egli non ti fia renduto; e ad una ora ti sarai mostrata pietosa, e goderai, non riavendolo, della tua innata crudeltà […] Chi dunque disidererebbe di tornare a te per dovere giacere fra le tue, le quali si può credere che ancora servino la rabbia e la iniquità nella vita avute, e male concorde insieme si fuggano l’una da l’altra, non altramenti che facessero le fiamme de’ due Tebani?»).

31-33. “I tuoi antenati non furono tanto dannosi da far sì che l’invidia scacciasse le virtù solo al fine di operare bene, come tu facesti”.

31. Gli antichi: “gli antenati”. Troppo molesti: “gravosi, difficili da sopportare” (ED), con l’accezione politica (“dannoso per lo stato”) che il termine “molesto” ha in If, 10, 25-27, da cui Serdini riprende l’intero

112

sintagma e il tono ironico («La tua loquela ti fa manifesto / di quella nobil patrïa natio / a la qual forse fui troppo molesto»).

32. Le virtù: le virtù di Dante, per cui cfr. i vv. iniziali. Invidia: è uno dei vizi tipici attraverso cui vengono connotati i Fiorentini nelle invettive anti-fiorentine di Dante, qui recuperato ironicamente da Saviozzo. Cfr. Dante (If, 6, 49-50: «ed elli a me: “La tua città, che è piena d’invidia / sì che già trabocca il sacco»; 74-75: «superbia, invidia e avarizia sono / le tre faville ch’hanno i cuori accesi»; 15, 68: «gent’è avara, invidiosa e superba»).

33. Sol per ben fare: “solo per operare bene”. L’espressione ricalca If., 15, 64 («per tuo ben far»), dedicato all’esilio di Dante. Serdini riusa in chiave ironica questo verso, attribuendo ai Fiorentini l’intenzione di operare bene e non, come nella Commedia, a Dante stesso. In questo modo, la decisione di esiliare Dante, che nel luogo citato del poema dantesco viene ricondotta all’ingiusta persecuzione di un giusto da parte di una città moralmente corrotta, viene inquadrata in ironico riferimento all’incapacità dei Fiorentini di discernere tra azioni buone e malvagie e, dunque, alla loro convinzione di aver operato una giusta scelta nell’esiliare il poeta. Il tono ironico è rinforzato dalla chiusa del v.: «come tu facesti».

34-36. “O maledetta fame, o malvagia tentazione dei beni terreni, anzi veleno che vi ha accecati con la sua perfidia!”.

34-36. I vv. proseguono l’invettiva contro i Fiorentini che hanno esiliato Dante, accecati dallo smisurato desiderio di potere che gli ha impedito di vedere la grandezza del poeta.

34-35. O maladetta… caduchi: l’espressione riecheggia Boccaccio, Trattatello, 000 («oh stolta vaghezza degli umani splendori»).

34. Insidia: “tentazione”, allo scopo di far deviare da un codice etico o religioso (TLIO). 35. Stati caduchi: “beni terreni”. Veneno: ant.

37-39. “(Sono) rapidi e impalpabili come un lampo, divisi da tormenti e da paure, per cui a poco a poco ci smarriamo”.

37-39. I vv. costituiscono una riflessione gnomico-moraleggiante riguardante la caducità dei beni terreni, con particolare riferimento qui alla partecipazione attiva alla vita politica nella cui trappola anche Dante ha avuto in un primo momento la tentazione di finire (cfr. 49-54; ma la matrice di quest’idea è da rintracciarsi nel

Trattatello boccacciano, cap. 7).

38. Con affanni e con paure: dittologia.

39. Veniamo… meno: “lentamente ci smarriamo, a causa della «trista insidia» delle suggestioni materiali del v. 34.

40-42. “Non bastano soltanto le tombe o le sepolture delle ossa divelte dalle morti crudeli, di cui sono pieni i campi e le pianure!”.

40-42. I vv. introducono il topos, assai frequente nel Medioevo, dell’invettiva contro il tempo presente, considerato sede di corruzione e aberrazione, in totale contrapposizione alla perfezione e alla virtuosità del passato.

40. Le tombe o sepolture: dittologia.

41. Osse: l’utilizzo della -e finale per il plurale è tipico di alcune varietà dell’Italia centrale. Cfr. Rohlfs, par. 142. Isvelte: “divelte, estirpate”. l’aggettivo è funzionale alla connotazione estremamente violenta e imperfetta del presente. Crude morti: “morti crudeli”, letter., ossia, “morti violente”.

42. I poggi e le pianure: “i campi e le pianure”. Dittologia.

43-45. “Furti, incendi, omicidi e torti, fare mercimonio di vergini e di altari: o giustizia di Dio, come lo tolleri?”.

43. Rapine… torti: accumulazione. Rapine: “furti”. Il v. riecheggia concettualmente Dante, Pg., 24, 79- 81 («Però che 'l loco u' fui a viver posto, / di giorno in giorno più di ben si spolpa / e a trista ruina par disposto»).

Occisïone: l’utilizzo della -e finale per il plurale è tipico di alcune varietà dell’Italia centrale. Cfr. Rohlfs, par.

113

44. Il v. rimarca la corruzione totale del presente indicando come perfino coloro che più dovrebbero essere immuni dalla degenerazione morale, ossia le donne e la Chiesa, ne vengono invischiati. L’espressione mette insieme due distinti passi danteschi, Pg. 23, 98-102 («Tempo futuro m'è già nel cospetto, /cui non sarà quest'ora molto antica, / nel qual sarà in pergamo interdetto / alle sfacciate donne fiorentine / l'andar mostrando con le poppe il petto») e Pd.,9, 136-142 («A questo intende il papa e' cardinali: / non vanno i lor pensieri a Nazarette, / là dove Gabriello aperse l'ali. / Ma Vaticano e l'altre parti elette / di Roma che son state cimitero / alla milizia

che Pietro seguette, / tosto libere fien de l'adultèro»). Puttaneggiar: “fare mercimonio”.Il verbo è utilizzato,

con riferimento alla compromissione della Chiesa con il potere temporale, da Dante nel canto dei simoniaci,

If., 19, 108 («puttaneggiar coi regi a lui fu vista»).

45. Il v. riecheggia l’invettiva dantesca di San Pietro sulla corruzione della Chiesa, Pd., 27, 57 («o difesa di Dio, perché pur giaci?»).

46-48. “Questi bocconi desiderati e graditi renderanno acerba la gola anche dei figli, e forse sembreranno amari ancora ai giorni nostri”.

46-48. I vv. indicano ironicamente («desiderosi» e «cari») come la corruzione estrema vigente al tempo di Dante e che ha provocato l’esilio del poeta è un avvenimento che trascende la sua contemporaneità e ha ripercussioni sul futuro più immediato («i figli») e su quello più lontano («a’ nostri dì»).

46. Desiderosi e cari: “desiderati e graditi”. Dittologia.

47. Acerbaràn: “renderanno acerba” (Pasquini). Strozza: “gola”. Il termine è una ripresa lessicale dantesca