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1-4. “Donne graziose e nobili amanti, separati dal volgo e gloriosi al mondo, udite la nuova guerra dei miei dolci sospiri, piaceri e pianti!”.

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1-4. I vv. si aprono con un’invocazione alle donne e agli uomini innamorati, e perciò sensibili al tema amoroso, affinché ascoltino i tormenti d’amore dell’io lirico e partecipino dei suoi sentimenti, secondo un’intonazione elegiaca che riprende, pur introducendo come destinatari della preghiera anche gli uomini, il prologo della boccacciana Elegia di Madonna Fiammetta, nel quale la protagonista si rivolge alle altre donne per narrare la propria sfortunata vicenda amorosa. Questo tipo di incipit è presente anche negli altri testi di argomento amoroso-elegiaco di Saviozzo (25 e 74).

1. Donne leggiadre: il sintagma è ripreso da Boccaccio, Caccia di Diana, 1, 9-10 («“Donne leggiadre” in voce alta gridando, / venite omai, venite alla gran corte»). Pellegrini: “nobili”.

2. Sciolti da vulgo: l’espressione rimanda all’innalzamento morale provocato dall’amore, che eleva spiritualmente gli innamorati rispetto al resto degli uomini, definiti qui in senso dispregiativo come «vulgo» per rimarcarne la condizione di inferiorità. Sciolti: “separati”. Vulgo: lat. Glorïosi in terra: “eccellenti sulla terra”. L’espressione evidenzia per contrasto rispetto al termine negativamente connotato «vulgo» lo stato di perfezione degli amanti, i quali sono considerati come gli esseri più virtuosi nel mondo.

3. Nova: l’aggettivo indica come l’innamoramento di Pandolfo, in persona del quale è scritto questo testo, sia un evento recente. Guerra: “tormento amoroso” (Pasquini). L’utilizzo del termine per definire il tormento amoroso è di derivazione stilnovistica e petrarchesca.

4. Dolci sospiri: il sintagma è usato frequentemente nella poesia di argomento amoroso per definire il turbamento provocato dall’amore sull’animo dell’innamorato. Cfr Dante, If., 5, 118 («Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri, / a che e come concedette amore»); Petrarca, Rvf, 171, 14 («le mie speranze, e i mei dolci sospiri»); Boccaccio, Filostrato, 2, 60. 7 («sì che per te li suoi dolci sospiri»); Am. Vis., 16, 21 («e sanza copia di dolci sospiri»). Diletti: “piaceri”. Il termine si pone in contrapposizione con «pianti» a creare un dittico in grado di riassumere le due facce dell’amore, fatto di gioie e dolori per l’innamorato. Sospir, diletti e pianti:

tricolon.

5-8. “Io non so se mai i cavalieri arturiani, sto parlando di Tristano e di Lancillotto, o di colui che fu reso più smarrito dai colpi suoi, sapessero adesso manifestare (la mia situazione)”.

5. Uomini erranti: “i cavalieri arturiani”. Cfr. Petrarca, Tr. Cup., 3, 80 («Lancilotto, Tristano, e gli altri erranti»), da cui deriva anche la menzione di Tristano e Lancillotto del v. successivo.

6. Dico: “parlo”. Tristano e Lancillotto: i due cavalieri più famosi del ciclo bretone, noti anche per le vicende amorose che li legano, rispettivamente, a Isotta e a Ginevra.

7-8. Quel che fu più dotto da’ colpi suoi: Artù, innamorato non ricambiato della moglie Ginevra, la quale lo tradisce con Lancillotto. Perifrasi. Dotto: l’aggettivo è in questo caso participio del verbo “dottare”, che poet. designa il senso di smarrimento dovuto all’amore e il timore di non essere ricambiato dall’amante (TLIO).

8. Dechiararmi: “manifestare la mia situazione”.

9-12. “Io ve lo dirò, ma se con pochi versi poetici forse non sarebbe ben chiaro il mio pensiero, afferrerete il significato, voi che accorrete spesso a tale servizio”.

9. Pochi carmi: “pochi versi”. Sineddoche.

10. Il v. indica l’incapacità di esprimere a parole, anche volendo affidarsi all’ispirazione poetica, il sentimento provato dall’amante, per il quale non bastano pochi versi per descriverlo.

11. Pigliarete: “afferrerete”. Il riferimento è alla capacità degli altri innamorati di capire al volo la situazione in cui si trova l’io lirico, il quale è completamente in balia della passione amorosa. L’effetto: “il significato” (TLIO).

12. Il v. rimarca quanto detto al v. precedente, ossia la capacità degli innamorati di comprendere, unici al mondo, il tormento amoroso dell’io lirico per via del fatto che provano anch’essi lo stesso sentimento. Correte: “accorrete”. Tal: di Amore. Mestieri: “servizio” (Pasquini). Ant.

13-20. “Udite come l’arciere errante mi affondò nel cuore i ricorrenti inganni, che non sono passati ancora molti anni da che mi condusse nel luogo in cui io mi innamorai; e come io venissi infiammato con grande intensità da uno splendore tale che non nacque mai niente di simile. Sicuramente mi piacque così tanto che non potrei dirlo con parole umane”.

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13. Udite: cfr. v. 3. Il verbo reitera l’invocazione agli innamorati già espressa nella prima quartina.

Vagabondo arcieri: Amore, raffigurato nella mitologia classica come un putto alato armato di arco e frecce.

Perifrasi. Vagabondo: “errante” in quanto si muove con destrezza nel mondo per colpire con le proprie frecce gli uomini, riempiendo il loro cuore di passione. Arcieri: la forma con la -i finale al singolare è comune nel toscano antico (TLIO).

14. Mi giunse: “mi affondò, mi piantò” (TLIO). In mezzo: “nel cuore”, situato per antonomasia al centro del corpo di uomo. Gli usitati inganni: le illusioni dell’amore.

15. Il v. indica che l’innamoramento di Pandolfo è un avvenimento recente, riprendendo quindi quanto espresso nella didascalia (cfr. «certi novi casi d’amore»).

16. Loco: “luogo”. Ant. Cfr. Rohlfs, par. 107. Preso: “avviluppato, attratto”.

17. Fusse: “fossi”. Ant. Cfr. Rohlfs, par. 560. Crudelmente: “con intensità, con violenza”, ad indicare il subitaneo e totalizzante sentimento da cui viene preso Pandolfo. Acceso: “infiammato”. L’aggettivo è utilizzato frequentemente nella poesia amorosa medievale per indicare il cuore dell’innamorato, che avvampa di passione per il proprio oggetto d’amore.

18. D’: “da”. Lume: lo splendore della donna. Il termine, petrarchesco (nei Rvf ha ben sessanta occorrenze), è solitamente utilizzato (cosa che avviene anche in alcuni componimenti serdiniani) per definire specificamente la luce promanante dagli occhi della donna, mentre qui è scelto per indicare genericamente la fulgida bellezza dell’amata, che fa la sua comparsa per la prima volta nel componimento. Mai simel non nacque: l’espressione è tipicamente usata nella poesia d’amore due-trecentesca per indicare l’assoluta bellezza e perfezione dell’amata, che non ha pari nel mondo.

19. Tanto: “così tanto, talmente tanto”.

20. Lingua mortal: “parole umane”. Porria: “potrebbe”. Ant. Cfr. Rohlfs, par. 594.

21-24. “Per esaltare tanta grazia e l’eccelsa bellezza che io vidi allora, dalle quali io rimasi completamente avviluppato, ci vorrebbe una seconda cetra di Orfeo, un altro canto”.

21. Altra: “una seconda” (Pasquini). Cetra d’Orfeo: Orfeo, il più celebre cantore d’amore della mitologia classica. L’allusione ha valore iperbolico nel dichiarare la bellezza della donna, introdotta ai vv. precedenti, degna soltanto di un canto lirico («cetra») come quello del poeta tracio. Cetra: “poesia”. Metonimia. Ermonia: “canto, poesia”. La forma “ermonia” non è attestata, fra Duecento e Trecento, in nessun autore. Compare per la prima volta in Saviozzo, il quale, tuttavia, adopera questa forma sistematicamente al posto di “armonia”. Inoltre, “ermonia” non risulta nella lista delle forme dell'italiano antico della parola 'armonia' data dal TLIO.

22. Essaltar: “innalzare, celebrare”. La forma con la “s” doppia è usata sistematicamente, nel toscano medievale, accanto a quella con la scempia (TLIO). Adornezze: “grazia, splendore”. Cfr. «lume», v. 18.

23. Eccelse: l’aggettivo, spesso utilizzato per riferirsi alla perfezione divina, è scelto qui per rimarcare l’assoluta bellezza della donna, la cui perfezione la rende simile a una divinità.

24. Inviscai: “fui avviluppato, mi innamorai”. Il verbo è utilizzato frequentemente in contesto amoroso per definire la completa soggezione dell’amante ad Amore.

25-32. “Non diversamente i raggi splendenti (del sole) tolgono l’immagine agli occhi, in cui vive la potenza fisiologica della vista e gli fa sbattere le palpebre in maniera debole e fiacca; da come si fecero gli occhi miei disorientati e imperfetti guardando i raggi preziosi che uscivano dagli occhi di una bella donna e che vidi (essere) immortali e divini”.

25-32. La similitudine riportata nei vv., ossia quella di una visione talmente fulgida da abbagliare la vista di chi la osserva, così come accade a chi guarda i raggi del sole, è ripresa da Dante (Pd., 30, 46-51), anche se il contesto è diverso: mentre Dante rimane abbagliato dalla vista degli angeli nel Paradiso, infatti, Pandolfo rimane colpito dalla bellezza della donna amata. La scelta di questa similitudine da parte di Serdini non può, però, per via della differenza di contesto, dirsi casuale, dal momento che concorre alla raffigurazione dell’amata in sembianze quasi angeliche.

25. Rutilanti rai: i raggi splendenti del sole. Rai: lat. 26. L’obietto: “l’immagine”. Respira: “vive”.

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27. Il motor… gira: “la potenza fisiologica della vista” (Pasquini).

28. Palpebrar: “sbattere le palpebre”. Timidi e stanchi: “deboli e fiacchi, abbagliati”. Dittologia. L’utilizzo dell’aggettivo “stanco” per riferirsi agli occhi è petrarchesco, Rvf, 190, 13 («gli occhi miei stanchi di mirar, non sazi»); 288, 7 («gli occhi miei stanchi lei cercando invano»); Tr. Cup., 1, 20 («l’abito in vista sì leggiadro e novo / mirai, alzando gli occhi gravi e stanchi»).

29. Fêr: “fecero”. Lett. Smarriti e manchi: “disorientati e imperfetti”. Dittologia. Cfr. «timidi e stanchi», v. precedente.

30. Raggi preziosi: gli occhi splendidi della donna, definiti in maniera uguale ai «rutilanti rai» del sole, v. 25.

31. Immortali e divi: “immortali e divini”. Dittologia. Gli aggettivi conferiscono all’amata qualità proprie della divinità, rendendola simile ad essa.

32. Bella donna: l’amata, definita nuovamente in senso estetico.

32-36. “O beata virtù, colonna perenne (diceva la mia anima), unica dea, fu simile (a te) Venere avvolta in Tiria dall’arco e dalla faretra?”.

32. Felice: “beata”. L’aggettivo viene spesso utilizzato per indicare lo stato di beatitudine di cui godono le anime nel Paradiso, rimarcando quindi, in questo caso, la natura angelica dell’amata. Viva colonna: il sintagma richiama all’importanza fondamentale nella vita di Pandolfo della donna, la quale è definita pilastro assoluto e imperituro dell’esistenza di Malatesta, il quale è totalmente votato all’amore per lei. Viva: “perenne”.

33. Spirto: “anima”. Cfr. Rohlfs, par. 138. Iddea: “dea”. Toscanismo. Cfr. Rohlfs, par. 153. Il termine è usato frequentemente nella poesia amorosa medievale per definire la donna amata, la quale viene così elevata dall’amante al rango di divinità.

34. Citarea: “Venere”.

34-35. Citarea in Tiria: si tratta della Venere Tiria, altro nome di Astarte, divinità fenicia relazionata ad Adone con caratteristiche a metà fra quelle di Afrodite e quelle di Giunone (Biografia universale antica e

moderna, vol. 1, p. 40).

35. Cinta: “avvolta”. L’arco in Tiria e la faretra: tmesi. L’arco e la faretra: strumenti genericamente attribuiti nella mitologia classica ad Artemide, dea della caccia, qui sono assegnati a Venere molto probabilmente in quanto, essendo strumenti di Amore, per esteso vengono conferiti anche alla dea dell’eros.

36-40. “Quale cuore di marmo o di più fredda pietra, quale serpente orientale, quale tigre o belva, quale feroce orso dei boschi non tornerebbe mansueto davanti a lei!”.

36-40. La quartina si concentra sulla capacità della donna amata di mutare il comportamento insito per natura negli animali selvatici o feroci, rendendoli mansueti. I vv. sono affini a un altro passo di Saviozzo, 25, 33-36 («Io non so qual si sia sì duro core / di tigre, d'orso, donna o di donzella, / che la sua faccia bella / non adorasse in terra per suo dio»).

36-39. Qual: anafora. Qual… orso: accumulazione.

36. Cor di marmo: il sintagma è petrarchesco, Rvf, 135, 71 («ch’un cor di marmo a pietà mosso avrebbe»). Cor: cfr. Rohlfs, par. 107. Fredda: “dura” (TLIO). Petra: toscanismo. Forma tipica letteraria del Medioevo. Cfr. ROHLFS,par. 87.

37. Aspe: “serpente”. Orïental: l’aggettivo è utilizzato qui nell’accezione moderna di “esotico”.

40. Tornarebbe: la forma con la -a intervocalica è tipica del senese medievale. Cfr. Rohlfs, par. 586. Uman: “docile, mansueto”.

41-44. “Taccia Diana, (tacciano) gli uomini e gli dei, smetta di parlare Paride del suo rapimento, e (lo stesso faccia) Teseo, ora smetta di parlare Tolomeo di Cleopatra e (così faccia) ogni altro amante!”.

41-44. Nella quartina si rimarcano l’assolutezza e, nello stesso tempo, l’insuperabilità della bellezza della donna amata e l’amore che Pandolfo prova per lei attraverso il confronto con altri celebri amori della mitologia e della storia antica e con quanto provato dagli altri uomini.

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42-44. Taccia… di: la costruzione sintattica dei vv. è ripresa da Dante, If., 25, 94-97 («Taccia Lucano ormai là dove tocca / del misero Sabello e di Nasidio, / e attenda a udir quel ch’or si scocca. // Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio»).

41. Taccia: “smetta di parlare, risparmi il fiato”. Diana: il riferimento non è ben chiaro nel contesto amoroso del testo, dal momento che Diana è una dea vergine della quale non sono note vicende amorose che la vedano amante attiva, ma soltanto oggetto d’amore passivo. Òmini: toscanismo. Cfr. Rohlfs, par. 107.

42. Parìs del ratto suo: il riferimento è al celebre casus belli della guerra di Troia, ovvero il rapimento di Elena da parte di Paride. Teseo: il riferimento è al rapimento di Arianna da parte di Teseo dopo la vicenda del Minotauro. Parìs del ratto...Teseo: tmesi.

43-44. Tolomeo di Clëopatra: si tratta del fratello-marito di Cleopatra, per alcuni storici avvelenato dalla sorella-moglie amante di Cesare.

44. Ciascun altro amante: l’espressione rimarca ulteriormente l’eccezionalità e l’assoluta superiorità dell’amore di Pandolfo per la propria amata.

45. “Le fiamme d’amore che escono di tempo in tempo dalle luci sante furono la sfera che nella mia mente fece rifiutare tutto fuorché il suo nome”

45. Fiamme d’amor: cfr. «acceso», v. 17. Luce sante: gli occhi della donna. Il sintagma utilizzato per definirli è lo stesso adoperato da Dante per le stelle contemplate nel cielo in Pg., 1, 37 («Li raggi de le quattro luci sante») e riecheggia, inoltre, le denominazioni date nel Paradiso alle anime dei beati. Questa scelta non pare essere casuale ed è volta a sottolineare l’essenza celestiale dell’amata. Luce: l’utilizzo della -e finale per il plurale è tipico di alcune varietà dell’Italia centrale. Cfr. Rohlfs, par. 142.

46. Ad ora ad or: “di tempo in tempo, di tanto in tanto”. Fûr: “furono”. Lett. L’emispero: “la visione luminosa degli occhi della donna, che chiude quasi in una sfera di fuoco” (Pasquini).

47. Pensero: “mente”. Cfr. Rohlfs, par. 87.

48. Il v. ribadisce il sentimento totalizzante provato da Pandolfo per la donna, che fa perdere di significato qualunque altro interesse o pensiero. Posero in bando: “fecero rifiutare”.

49-52. “Io rimasi profondamente turbato al primo assalto, e quando avevo iniziato a rinvenire un po’, un desiderio intenso mi fece essere ancora più legato (a lei) di prima”.

49. Mi smarrii: “rimasi turbato”. Il verbo è utilizzato frequentemente nella poesia amorosa due-trecentesca per definire lo stato d’animo provato nel momento dell’innamoramento. Primo assalto: si tratta dell’attimo dell’innamoramento, qui indicato secondo una metaforica presa dalla sfera dell’arte militare per cui cfr. anche «guerra», v. 3. L’utilizzo del sintagma in contesto amoroso è ripreso da Cino da Pistoia, Rime, 57, 5 («sì che nel primo assalto l’abattio»); Petrarca, Rvf, 23, 21-22 («I’ dico che dal dì che ‘l primo assalto / mi diede Amor, molt’anni eran passati»); Boccaccio, Rime, 34, 44 («così nel primo assalto sbigottire»), che, oltre al sintagma presenta anche un verbo sinonimico (“sbigottire”) a quello usato da Serdini (“smarrirsi”), di modo che è l’intera immagine boccacciana ad essere recuperata in questo v.

50. Alquanto: “un po’”. A rinvenire: a recuperare un po’ della capacità raziocinante che si è persa a causa dell’improvviso «assalto» di Amore, che ha causato un profondo turbamento nell’anima dell’io lirico.

51. Acceso desire: “intenso desiderio”. Cfr. vv. 17-18. Il sintagma mette in evidenza l’intensità della passione amorosa («acceso») di cui avvampa l’io lirico. Desire: ant. lett.

52. Fe’: apocope. Ligato: “legato, unito”. ant. lat. Il termine rimanda all’immagine, frequente nella poesia amorosa medievale, dei lacci d’Amore che avviluppano il cuore dell’innamorato.

53-56. “E dopo che io mi fui innamorato così intensamente, di modo che né gli occhi, né il pensiero ebbero mai più tregua, quante volte mi mossi per rivedere spesso il suo bel viso!”.

53. Sì forte: “così intensamente”.

54. Gli occhi né ‘l pensier: l’espressione indica come l’attrazione ad aver fatto innamorare Pandolfo è sia l’aspetto fisico della donna, che l’aspetto spirituale, di modo che a essere coinvolti sono sia gli occhi, l’organo attraverso cui ammira l’amata, sia la mente («’l pensier»), attraverso la quale riesce a pensare a lei. Posossi: “ebbero tregua”. Legge Tobler-Mussafia. Concordanza ad sensum.

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55-56. I vv. lasciano intendere come Pandolfo decida di recarsi spesso verso il «loco» (v. 16) dell’innamoramento per rivedere l’amata, che parrebbe essere usa («spesso») frequentare tale posto.

56. Bel viso: il sintagma è largamente adoperato nella poesia amorosa due-trecentesca per riferirsi alla donna amata.

57-60. “L’aspetto benevolo e il sorriso aggraziato, un atteggiamento innocente pieno d’onestà e una generosità che talmente grande che non poté essercene mai tale in un cuore nobile”.

57. Benigno aspetto: “aspetto benevolo”. Il sintagma è usato frequentemente nella poesia e nella prosa medievali in contesti differenti, ma mai in contesto amoroso. In questo caso, è adoperato da Saviozzo per introdurre a partire dall’aspetto fisico le caratteristiche spirituali positive dell’amata elencate ai vv. successivi.

Grazïoso riso: “sorriso aggraziato”. Il sintagma concorre, al pari di «benigno aspetto» alla costruzione di un

ritratto fisico della donna che, in virtù delle caratteristiche di grazia e benevolenza che esprime, sia lo specchio tangibile delle sue qualità morali.

58. Atto püeril: “atteggiamento giovanile”. Püeril: l’aggettivo, spesso usato con accezione negativa per definire come immaturo il comportamento di una persona ormai adulta, ha qui una connotazione positiva volta a rimarcare quelle caratteristiche di innocenza e candore proprie dell’età infantile che solitamente si perdono con la crescita e che, invece, sono rimaste intatte nell’amata. Pien d’onestade: l’espressione esplicita come l’onestà sia la virtù emergente dall’«atto püeril» della donna. Onestade: ant.

59-60. I vv. sottolineano la perfezione senza pari dell’amata, la quale ha virtù talmente grandi che nessuna persona al mondo, anche se onesta e gentile, potrebbe mai eguagliarla.

59. Umanitade: “generosità” (GDLI). Ant.

60. Cor gentile: “cuore nobile”, con riferimento alle caratteristiche di onestà e generosità che si è già detto nei vv. precedenti essere possedute dalla donna. Il sintagma è uno dei più usati nella poesia medievale sia per definire una delle principali qualità morali della donna amata, sia per indicare genericamente una delle doti spirituali più apprezzabili in una persona. Cor: cfr. Rohlfs, par. 87.

61-64. “Io quando vedevo il suo portamento e il suo costume mi accendevo ancora di più allora mentre la ammiravo, perché all’ardente fuoco ogni sua dolce azione era una fiamma”.

61-64. I vv. indicano come la perfezione fisica e spirituale della donna amata sia talmente grande che l’io lirico non può fare altro che innamorarsi di lei sempre di più.

61. Che: “quando” (Pasquini). Vedea: “vedevo”. Ant. lett. Cfr. Rohlfs, par. 550. E l’abito e lo stile: “il portamento e il costume”. Cfr. «gli occhi né ‘l pensier», v. 54.

62. Più: “ancora di più”. M’accendevo: il verbo è utilizzato frequentemente nella poesia amorosa medievale per

indicare il sentimento provato dall’innamorato, che avvampa di passione per il proprio oggetto d’amore. Cfr. «acceso», v. 17.

Remirando: “ammirando”. Loco: “allora”. Avv. (TLIO).

63. Ardente foco: la passione amorosa che si è accesa come un fuoco nel cuore dell’amante. Il sintagma è utilizzato assai frequentemente nella poesia d’amore medievale con questa accezione. Foco: cfr. Rohlfs, par. 107.

64. Atto: “azione”. Face: “fiamma” (Pasquini). Cfr. «ardente foco», v. precedente.

65-68. “Così senza quïete e senza pace mi trattenne Amore in suo potere, così che con i passi estranei a me stesso spesso calcavo la strada nemica”.

65. Senza quïete e senza pace: dittologia. L’espressione serve a rilevare il tormento provocato dall’amore nell’animo di ogni innamorato. Un’espressione simile si trova altrove in Saviozzo, 61, 5 («Così senza quïete e senza lena»).

66. Il v. evidenzia il completo assoggettamento dell’amante ad Amore, dopo aver espresso nel v. precedente il tormento che la passione provoca in un cuore innamorato. In podestà di lui: “in suo potere”.

67. Coi passi altrui: “con i passi estranei a me stesso” (Pasquini). L’espressione indica il trasognamento amoroso, per il quale l’amante, completamente in balia di Amore, sembra quasi smarrire la propria identità.

68. Calcava: “calpestavo”. La desinenza in -a per la 1a pers. sing. dell’imperfetto indicativo è tipica del

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69-76. “Non più ardente d’amore lo struzzo accudisce l’uovo guardandolo a lungo per generare la sua discendenza, con l’occhio fisso e quieto fino al momento (della nascita) della desiderata prole, rispetto all’occhio inerme della mia mente che, insieme a quelli esterni che porto con mia (grande) pena, mi rendono sempre attento e accorto per (poter) vedere colei che vedo e muoio di voglia di vedere”.

69-76. I vv. sono costruiti su una similitudine presa dall’orizzonte dei bestiari medievali, testi allegorico- moralizzanti nei quali si fornisce un’interpretazione allegorica dei comportamenti degli animali a scopo didattico. In questo caso, a essere preso come termine di paragone da associare all’atteggiamento dell’amante,