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ché spesso in gentil cor pietà si trova!

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1-7. “Verdi boschi impervi e selvaggi, dove cambiò aspetto colei che, da (creatura) umana mi apparve (creatura) angelica! Quando fra le rigogliose piante e le aeree armonie degli uccellini e i graziosi branchi di animali vidi suscitati dalla sua presenza dei modi mansueti in un leopardo;”.

1. Il v. introduce l’ambientazione che fa da sfondo al testo, che si presenta sin da subito come un locus

amoenus, ovvero un posto bucolico e idilliaco il quale ricorda in alcuni tratti il locus amoenus per eccellenza,

ovvero il paradiso terrestre. Verde: l’utilizzo della -e finale per il plurale è tipico di alcune varietà dell’Italia centrale. Cfr. Rohlfs, par. 142. Aspre e fere: “impervie e selvagge”. Dittologia. I due aggettivi, che normalmente hanno una connotazione negativa, assumono invece qui un’accezione positiva in quanto sono atti a dimostrare la completa incontaminatezza del luogo, in cui la natura la fa da padrona.

2. Cambiò sembianti: “cambiò aspetto”. La serenità e la bellezza del luogo, le cui caratteristiche lo riconducono al paradiso terrestre, portano a una trasformazione in senso angelico della donna, che si eleva a uno stato di perfezione totale.

3. Lei: la donna amata in lode della quale è composta la canzone. La comparsa dell’amata in un contesto bucolico rimanda alla figura di Matelda nell’Eden dantesco e a tutti gli altri personaggi femminili che, sul modello dantesco, vengono ritratti in modo simile nella poesia d’amore del Trecento (si pensi, ad esempio, alla Ghita di Fazio degli Uberti nella canzone Nel tempo che s’infiora e cuopre d’erba). Angelica m’apparse: l’apparizione, o, meglio della donna-angelo è un elemento tipico della poesia amorosa due-trecentesca, in particolare dello Stilnovo.

4-5. I vv. rimarcano la connotazione bucolico-idilliaca della scena. In tal senso, fondamentali risultano essere gli aggettivi adoperati per qualificare gli elementi vegetali e animali ivi descritti («fresche», «celsi», «leggiadre»), i quali contribuiscono in maniera decisiva alla creazione di un contesto edenico.

4. Fresche erbe: “piante rigogliose”. Celsi canti: “aeree armonie”. Il sintagma si trova altrove in Saviozzo, 41, 6 («che più potrebbe sopra i celsi canti»).

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6-7. I vv. costruiscono un adynaton provocato dalla bellezza e dalla perfezione angelica della donna, in grado perfino di rendere docili belve per loro innata natura feroci come i leopardi.

6. Dolci: “mansuete, docili”. Manere: ant. Cfr. Rohlfs, par. 89. 7. A lei dinanzi: “dalla sua presenza”. Sparse: “suscitate”. Figur.

8-16. “poi mostrò quanto era diventata elegante e ricercata, scoccando con l’arco d’oro una saetta verso una cerva perché era nascosta tra due alberelli: «Ahi (con voce lamentosa), pietà, non scoccare, pietà, che uccidi invano!» Vedendo l’atteggiamento insolito, si voltò verso Diana e le disse: «Che vi sembra di questo, cara sorella?»”.

8. Adorna: “elegante”. Pellegrina: “ricercata, nobile”.

9. L’arco d’oro: strumento di caccia di Diana nella mitologia classica, qui adoperato proprio come primo richiamo alla figura della dea, della quale l’amata viene poi definita pochi vv. dopo sorella (vv. 15-16).

10. Il v. descrive una scena venatoria, richiamando ulteriormente alla mente, dopo il primo rinvio costituito dall’«arco d’oro» del v. precedente, la dea cacciatrice per eccellenza, Artemide. Trarre: “tirare, scoccare”. Calco dal francese traire (Pasquini).

11. Arborscelli: “alberelli”. Ant. Poet. Ascosa: “nascosta”. Ant. Lett. 12. Pietosa: “lamentosa”.

13. Merzé: “pietà”. Ant. Trar: cfr. v. 10. Scarchi: “uccidi, scarnifichi”. Il v. afferisce alla sfera dei tecnicismi della caccia, creando un ennesimo rimando alla scena venatoria allestita in questi versi.

14. Atto strano: “comportamento insolito”. Il sintagma è utilizzato altrove da Saviozzo, 46, 2 («mille odorifer fiori in atto strano»).

15. Voltossi: “si voltò, si girò”. Legge Tobler-Mussafia.

16. Cara sorella: allocuzione a Diana. La caratterizzazione dell’amata come sorella di Diana, che per la mitologia classica è una dea vergine, probabilmente non è casuale e, oltre a essere funzionale all’ambientazione bucolica della canzone, entro la quale ben si addice la figura della dea dei boschi, è un riferimento alla pudicizia e castità dell’amata, che, in virtù della sua parentela con Artemide, ne assume le principali caratteristiche (oltre alla verginità, cfr. l’attitudine alla caccia dei vv. 9-11).

17-23. “I suoi capelli biondi erano sciolti, e la dolce aura manifestava quanto (belli) sono i suoi capelli biondi e la sua chioma; e sotto quelli, distribuiti un po’ qua, un po’ là, la fronte, gli occhi lucenti; e il sole era insieme a loro per far vedere il loro tesoro, che vide già bagnarsi dentro il Tesino:”.

17-18. Eran le sue chiome d’oro disciolte: la frase riecheggia chiaramente Petrarca, Rvf, 90, 1 («Erano i capei d’oro a l’aura sparsi»).

18. La dolce ôra: “la dolce brezza, il dolce vento” Il termine «ôra» è una ripresa non tanto velata della petrarchesca “aura” che smuove i capelli di Laura in Rvf 90, 1, di modo che la descrizione dell’amata in questo testo assume sempre più i contorni della raffigurazione di Laura nel sonetto petrarchesco.

19. Mostrava: “manifestava”. Quanto è: “quanto belli sono”, con riferimento ai capelli della donna accarezzati dal vento. Lat. ‘L capel biondo e ‘l crino: dittologia. Crino: “chioma”.

20. Quelle: le chiome, v. 17. Sparte: “distribuite”. Anche in questo caso vi è ripresa lessicale di Rvf, 90, 1 (“sparsi”), anche se il termine si differenzia nei due componimenti per il significato. Ad ora ad ora: “di tempo in tempo”, letter., ossia, figur. “un po’ qua, un po’ là”, a indicare la proporzionata e perfetta distribuzione dei tratti somatici sul volto della donna.

21. Lucenti occhi: il sintagma è usato frequentemente nella poesia amorosa due-trecentesca per definire lo splendore promanante dagli occhi della donna. Riecheggia, inoltre, il sintagma «begli occhi» di Rvf, 90, 4, sonetto che, come si è visto, è di ispirazione per questa porzione di testo. ‘L sol con loro: “il sole (era) insieme a loro”, con riferimento allo splendore accecante degli occhi della donna. L’espressione riprende, anche in questo caso, Petrarca, Rvf, 90, 12-13 («un vivo sole / fu quel ch’i’ vidi»), rimarcando ancora di più l’analogia tra questi vv. e il sonetto petrarchesco.

22. Per veder: “per far vedere, per dimostrare”. Suo tesoro: “il loro tesoro, la loro lucentezza e preziosità. Concordanza ad sensum.

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23. Cui: “che” (Pasquini). Tesino: fiume delle Marche.

24-32. “Un’indole sacra, un costume elevato e divino, uno splendore celestiale fra noi mortali; un pudore delicato, per cui scelse di avere come madre Venere Pudica. Celebriamo adesso queste immense virtù e la bellezza infinita: ahi, innalziamo la sua anima di vera fama, di modo che venga perpetuata nella gloria colei che unica al mondo è uguale agli dei!”.

24. Sacro ingegno: il sintagma mette in evidenza le eccellenti qualità intellettuali e le positive tendenze spirituali della donna, che la rendono un modello per tutti e che la fanno somigliare più a una divinità che non a una persona. Ingegno: “indole, natura”. lat. Stile alto e divino: “un costume elevato e divino”. Il riferimento è ai modi angelici dell’amata, i quali, al pari delle virtù morali, la rendono simile a una vera e propria dea scesa in terra.

25. Celico splendore: “splendore celestiale”. Il sintagma assomma le qualità elencate al v. precedente, rimandando a un’idea globale di assoluta perfezione della donna, la quale è paragonata ancora una volta a una creatura celeste. Il sintagma riecheggia, inoltre, Petrarca, Rvf, 90, 12 («uno spirto celeste»), riprendendo quindi quell’analogia con il sonetto petrarchesco su cui si erano costruiti i vv. precedenti.

26. Suave pudore: “pudore delicato”. La pudicizia e la castità implicita in essa sono le caratteristiche che più rendono simile l’amata a una dea, trattandosi di doti appartenenti sia ad alcune divinità del mito greco- romano, sia alla figura della Vergine nella religione cristiana.

27. Pudica: Venere Pudica, la rappresentazione di Afrodite più comune nel Medioevo e nel Rinascimento. Si tratta della raffigurazione della dea intenta a coprirsi le pudenda il cui primo esempio si ha nella Venere Cnidia scolpita da Prassitele nel IV secolo a.C.

28. Cantiamo: “celebriamo”. Il verbo rimanda all’epica, per cui l’io lirico si mostra come cantore dell’amata, ma anche alla sfera dei canti liturgici intonati dai fedeli per decantare le lodi di Dio, di modo che la donna prende ad assommare in sé i tratti sia degli eroi e degli dei del mito classico, sia quelli della divinità cristiana.

29. Virtute immense e beltà infinita: i due sintagmi coniugano le qualità morali e fisiche della donna, rendendo evidente ancora una volta la sua perfezione totale. Virtute: ant.

30-32. I vv. si pongono come una vera e propria preghiera affinché la donna venga elevata, così come un angelo o una divinità, alla gloria eterna.

30. Rileviam: “innalziamo” attraverso il canto, la poesia.

31. Fama vera: il sintagma è boccacciano, Filocolo, 4. 148 («in vera fama li fa ritornare»). Eternin: “venga perpetuata nella gloria” (Pasquini).

32. Il v. sottolinea nuovamente la natura celestiale dell’amata, le cui virtù la rendono uguale non a un essere umano, ma bensì a una creatura divina.

33-39. “O giorno apparso dal cielo, in cui le cose inanimate gioiscono nel vedere questa eccelsa dea, in cui il mio stemma si bloccò e si collocò, vedendo lei con una bianca veste per cui la mia calda passione rese la mente priva di ogni altro desiderio!”.

33. O dì mostro dal cielo: il giorno in cui Malatesta incontra per la prima volta la donna, di cui si innamora al primo sguardo. Mostro: “apparso” (Pasquini). Toscanismo.

34. L’insensibil cose: “le cose inanimate”.

35. Si glorian: “gioiscono”. Il verbo, che viene usato frequentemente per indicare lo stato di beatitudine eterna delle anime del Paradiso (TLIO), è atto a sottolineare in questo caso lo stato di felicità estrema di cui tutti, compresi gli esseri inanimati, godono all’apparire della donna. Alma diva: “eccellente dea”, ossia la donna amata, di cui si rimarca ancora una volta la natura celestiale.

36. Il riferimento al v. è presente nella didascalia preposta al testo in Mrc7, in cui si afferma che, mentre

Malatesta entrava a Bologna, ad un certo punto «si ruppe la resta di quello che inanzi gli portava il suo vessillo: non piegandosi, cadde dritto il pennone in terra». Dunde: “dove”. lat. L’insegna mia: “il mio stemma, il mio vessillo”. Si fisse e pose: “si bloccò e si collocò in terra”, cadendo. Dittologia.

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37. Sotto: “con, in”. Bianco velo: “veste bianca”. La comparsa della donna di bianco vestita è raccontata

anche nella rubrica alla canzone di Mrc7: «vide una nobilissima giovine in veste candida». Ma l’apparizione

dell’amata vestita con un abito bianco è ripresa dantesca, rimandando all’epifania di Beatrice nel Purgatorio (30, 31-32: «sovra candido vel cinta d’uliva / donna m’apparve»). Proprio questo elemento concorre alla costruzione del ritratto della donna con connotati angelici e celestiali, dal momento che l’amata viene ritratta in maniera simile a un’anima beata del Paradiso quale è Beatrice è nella Commedia.

38. Ardente zelo: “calda passione”. Il sintagma è preso da Petrarca, Rvf, 182, 1 («Amor, che ‘ncende il cor d’ardente zelo»).

39. Il v. indica la natura totalizzante dell’amore di Malatesta per la donna, il desiderio della quale fa perdere di interesse e importanza qualsiasi altra cosa. Disio: ant.

40-48. “Quale ninfa o dea sarà mai (capitato) che aduni tante luminose faville nel (suo) viso prezioso? Che cosa sarà il paradiso, dopo che è stato (reso) così perfetto un corpo effimero? Ahi, Dio, sarò mai mortale questa giovane rosa ed eccellenza luminosissima? Deh, no, Padre dolcissimo: che sarà poi il mondo? E forse alla fine lei volerà (in cielo) per rendere più ammirevoli i cuori, le stelle e i cieli!”.

40-43. I vv. vogliono evidenziare la superiorità della donna su tutti gli altri esseri umani e perfino sulle altre creature celestiali, fra le quali appare essere la più perfetta in assoluto a tal punto che, dopo la sua nascita, anche il Paradiso ha perso il suo primato di eccellenza.

40. Ninfa o musa: creature divine, e perciò perfette, della mitologia classica, le quali, tuttavia, mostrano di essere inferiori per bellezza e virtù all’amata. Scriva: “aduni, annoveri” (Pasquini).

41. Lustre faville: “luminose faville”, con riferimento allo splendore della donna e, in particolare, alla luminosità emanata dai suoi occhi. Cfr. «lucenti occhi», v. 21. Prezïoso viso: il sintagma è presente in una rima anonima della Scuola Siciliana, De la primavera (Discordo), v. 76.

42. Qual: “che cosa”.

43. Adorno: “perfetto” (TLIO). Corpo frale: “un corpo effimero”, perché di creatura mortale. 44. Fia mortale: “sarà mortale”, ossia “dovrà morire”.

45. Il v. fa ricorso a due elementi del mondo vegetale (la rosa e il fiore) per rimarcare le qualità della donna. Tenera rosa: “giovane rosa”, ossia la donna amata, della quale, attraverso questa denominazione, si vogliono mettere in luce la delicatezza e la leggiadria propria della rosa, nonché la gioventù («tenera»). Fior

lucissimo: “eccellenza luminosissima”. Il sintagma riprende i concetti di perfezione («fior») e splendore

(«lucissimo») già espressi ai vv. 21, 24-25, 29, 41. Lucissimo: “lucidissimo, luminosissimo”. Il termine sembra essere attestato per la prima volta in Serdini (Torchio, Considerazioni, p. 101).

46. Padre dolcissimo: allocuzione a Dio. Il sintagma è dantesco ed è riferito nella Commedia a Virgilio,

Pg., 30, 50 («Virgilio, dolcissimo patre»).

47-48. La morte della donna assume qui connotati quasi cristologici, dal momento che è visto come un evento in grado di elevare moralmente gli animi degli uomini e perfino di impreziosire gli elementi della natura, divenendo quindi un fatto salvifico per il mondo, seppur doloroso.

47. Che… mondo: la domanda retorica si riferisce al fatto che, dopo la morte della donna, l’unico essere umano perfetto, la terra tornerà a essere il luogo imperfetto che era prima della sua nascita. Voli: “voli in cielo”, ossia “muoia”. Perifrasi.

48. Adornar: “rendere ammirevoli” (TLIO). I cor, le stelle e i poli: “i cuori, le stelle e i cieli”. Tricolon. I

cor: ant. Toscanismo. Cfr. Rohlfs, par. 107.

49-59. “Se Amore e la natura dotarono soltanto la mia donna di ogni eccellenza, adesso puoi vedere la quantità. Vedi il suo spirito che attraversa e vola sul terzo cielo, e vedi la sua bellezza, della quale un gioioso desiderio mi trafisse ancora di più il cuore, il giorno famoso e santo in cui, mutata nella veste e nell’apparenza, senza che io riconoscessi i dolci raggi, per la seconda volta mi innamorai di questa stessa e unica fiammella”.

49. Gentilezza: “natura” (TLIO).

50-51. I vv. evidenziano il concetto di esclusività della donna amata, la cui perfezione ed eccellenza non ha eguali nel mondo.

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51. Quanto: “la quantità” (Pasquini).

52. Spirto: ant. Cfr. Rohlfs, par. 138. Varca e vola: “attraversa e vola”. Dittologia. Allitterazione.

53. Terzo cielo: si potrebbe trattare, biblicamente, del cielo dimora di Dio cui allude Paolo nella seconda lettera ai Corinzi, Cor., 2, 12. 2 («Scio hominem in Christo ante annos quattuordecim – sive in corpore nescio, sive extra corpus nescio, Deus scit – raptum eiusmodi usque ad tertium caelum»), oppure, dantescamente, del Cielo di Venere, nel quale risiedono gli spiriti amanti.

54. Lieta vaghezza: “un gioioso desiderio”, con riferimento al desiderio amoroso di Malatesta.

55. Punse: “trafisse”. il verbo è spesso adoperato nella poesia amorosa per indicare l’azione di Amore, che con le sue frecce trafigge il cuore dell’innamorato. Core: ant. Cfr. Rohlfs, par. 107. Il dì celebre e santo: il giorno del secondo incontro di Malatesta con l’amata. Celebre e santo: dittologia. Gli aggettivi evidenziano in maniera iperbolica il giorno del secondo innamoramento, il quale finisce per essere descritto da Malatesta come una sorta di incontro salvifico con la divinità.

56. Cambiata… manto: per il cambiamento avvenuto nella figura della donna, cfr. la didascalia di Mrc7

(«essendo la preditta giovine d’altro vario abito revestita») e vv. 2-3, «cambiò sembianti / lei che, d’umana, angelica m’apparse!». Vesta e manto: “veste e apparenza”. Dittologia.

57. Né da me conosciuti: “non riconosciuti”. Cfr. la rubrica di Mrc7 («né da esso per la disformazion delle

veste riconosciuta»). I dolci rai: gli occhi della donna, il cui splendore li rende simili ai raggi del sole. Cfr. «i lucenti occhi; e ‘l sol con loro», v. 21.

58. Due volte: “per la seconda volta”, dal momento che il primo innamoramento era avvenuto il giorno del primo incontro (per cui cfr. vv. 36-37). Cfr. la didascalia preposta alla canzone in Mrc7 («si inamorò d’essa; e così due volte»).

59. Medesma e unica: dittologia. Medesma: cfr. Rohlfs, par. 138. Facella: “fiammella”, con riferimento al fuoco della passione amorosa che arde per la stessa donna per due volte, in due momenti distinti e senza che l’amante la seconda volta abbia riconosciuto l’amata, segno inequivocabile, questo, che la perfezione di lei è tale che ogni volta che Malatesta la incontra se ne innamora nuovamente.

60-64. “Avverti i dolci dardi d’amore da cui sono preso di mira e (di cui sono) bersaglio! Per cui se anche io sono degno o valente, non venne mai colpito tanto lo scudo di Minerva tanto quanto (colpì) questa graziosa cerva il mio cuore!”.

60. De’: interiezione tipica del toscano medievale. Odi: “avverti, comprendi”, con tu impersonale. Dolce:

l’utilizzo della -e finale per il plurale è tipico di alcune varietà dell’Italia centrale. Cfr. Rohlfs, par. 142. Quadrella: “dardi amorosi”.

61. Posto a mira et a berzaglio: dittologia. Berzaglio: toscanismo (TLIO).

62-64. I vv. spiegano in maniera iperbolica, prendendo a paragone addirittura Atena, come i dardi d’amore abbiano colpito talmente tante volte il cuore di Malatesta che, seppure lui si sia sempre dimostrato valoroso, non ha potuto tuttavia fare altro che soccombere alla volontà di Eros, cosa che, del resto, avrebbe finito per fare anche Minerva, l’invincibile dea della guerra, se fosse stata presa di mira con tanta violenza.

62. Che: “per cui”. Par degno o valgo: “sembro degno o valente, valoroso”.

63. Non pinse mai: “non venne mai colpito” (Pasquini). Minerva: la dea della guerra, il cui scudo è stato tante volte colpito durante i numerosi combattimenti effettuati dalla dea.

64. Leggiadra cerva: la donna amata. L’identificazione della donna amata con una cerva, animale che, per via della sua associazione alla dea vergine Diana, è considerato simbolo di purezza e castità, è petrarchesca,

Rvf, 190, 1-2 («Una candida cerva sopra l’erba / verde m’apparve»; 212, 7-8: «et una cerva errante et fugitiva

/ caccio con un bue zoppo e ‘nfermo et lento»).

65-73. “Benché tu non sia degna, canzonetta mia, di (lodare) un aspetto così grandioso e degno di gloria, perché per parlare di una simile creatura ci vorrebbe qualcosa di diverso dall’ingegno e dallo stile poetico umani; inchinati a lei pudica e pietosa e dille che mi ha provocato una grande passione, e quell’amore per il quale spero (di suscitare) pietà con un tentativo appropriato: perché spesso in un cuore gentile si trova la pietà!”.

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65. Canzonetta mia: l’allocuzione al testo affinché si rechi dalla donna amata per porgerle omaggio è un

incipit tipico dei congedi delle canzoni di argomento amoroso.

66. Solenne e glorïoso: “grandioso e degno di gloria”. Dittologia. 67. Concetto: “creatura”.

68. Il v. rimarca il concetto di perfezione quasi divina della donna asserendo che l’intelligenza e l’arte poetica umane («ingegno umano e stil») non sono sufficienti a tesserne le lodi.

69. Vergognosa e pia: “pudica e pietosa”. Dittologia.

70. Lei: la donna amata. Gran fervore: “grande passione”. Il sintagma è preso da Boccaccio, Filostrato, 2, 131. 5 («per che più volte del suo gran fervore»).

71. M’ha mosso: “mi ha provocato, mi ha suscitato”.

72. Merzede: “pietà, compassione”. Ant. lett. A degna prova: “con un tentativo appropriato”, riferito alla canzone composta per l’amata.

73. Gentil cor: la gentilezza, ovvero la nobiltà e la generosità d’animo, è una caratteristica frequentemente attribuita all’amata nella poesia amorosa medievale, in cui alla bellezza fisica corrisponde anche una perfezione morale e caratteriale. Cor: cfr. Rohlfs, par. 107. Pietà: “misericordia”, ossia l’unica emozione in grado di portare la donna, essere superiore e perfetto, a corrispondere il sentimento dell’amante.

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CANZONE 7 (P. V)

Canzone encomiastica in lode di un membro della famiglia dei Malatesta variamente identificato con Malatesta Malatesta detto Malatesta dei Sonetti o Senatore (nei tre testimoni principali del ramo a di α e

nell’edizione Pasquini) oppure con Pandolfo Malatesta (in Mrc7). Sulla base dell’argomento del testo, che,

oltre a presentare una generica celebrazione del dedicatario come buon signore e uomo moralmente retto e virtuoso, tanto da poter essere assimilato a una creatura celestiale, lo loda anche per le sue qualità di poeta (vv. 21-23; 43-46), si può però arrivare a una sua più certa identificazione con Malatesta dei Sonetti, il quale, oltre che condottiero e signore di Pesaro è stato anche poeta (delle sue Rime si ha l’edizione critica fornita da Domizia Trolli nel 1981 per le edizioni Studium Parmense di Parma). Per quanto concerne la data di composizione del testo, esso è ascrivibile al soggiorno serdiniano al servizio dei Malatesta, tra il 1402 ca. e il 1403-1404 ca., ma non vi sono elementi per poter datare il testo in maniera più precisa e circoscritta. La prima strofa si sviluppa tutta su tonalità epiche, con l’io lirico che si autoidentifica come cantore dell’epos di