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Ma dòmmi pace, perch'io non so' solo.

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1-8. “O influssi avversi, o moti perpetui, detestabili cieli e tristi presagi, destini crudeli e malvagi, agguerriti contro la mia vita priva di difese; o Fortuna avversa, o congiunzioni astrali inquietanti, influssi degli astri, pianeti celesti, qualunque sia che governa la mia vita, attenui nel suo corso la sua furia e la sua ira!”.

1-8. I vv. presentano un avvio tipico della disperata, genere poetico di cui Serdini è uno degli iniziatori e degli esponenti principali del Tre-Quattrocento. In esso il poeta maledice dapprima l’universo e tutto il creato, per poi rivolgersi ai singoli elementi della natura e, infine, alla propria stessa nascita e vita. In questo caso particolare si nota, però, come l’incipit, che pure fa pensare a una disperata, non contenga un anatema, ma bensì una preghiera ai corpi celesti (invocati con una lunga serie di sinonimie) e alla Fortuna affinché, da avversi, decidano di cambiare la propria rotta divenendo propizi all’io lirico.

1. Maligne influenze: “influssi avversi”. Moti eterni: i perpetui movimenti astrali dei pianeti. Cfr. Beccari,

Rime, 48, 3 («l’eterno moto e tutta la sua forza»).

2. Essacrabile: “detestabili, esecrabili”. l’utilizzo della -e finale per il plurale è tipico di alcune varietà dell’Italia centrale. Cfr. Rohlfs, par. 142. Stelle: “cieli”. Il termine, in questa accezione, ricorda l’avvio della già citata disperata di Beccari, Rime, 48, 1 («Le stelle universali e i ciel rotanti»). Auguri: “presagi”.

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3. Crudeli e duri: crudeli e malvagi. Dittologia.

4. Armati: “agguerriti”. Mia debil vita: l’aggettivo possessivo si riferisce a Gian Colonna, in persona del quale è scritta la canzone. Il sintagma si ritrova altrove in Saviozzo, 21, 8 («già son molti anni alla mia debil vita»). Debil: “priva di difese”. La forma con la -i intervocalica è un senesismo (TLIO).

5. Fortuna: l’invocazione è tipica del genere trecentesco delle rime sulla fortuna. In questo caso, crea una mescolanza con i sintagmi dei vv. precedenti e successivi, i quali si rifanno, invece al genere della disperata.

Dispetta: “dispettosa, avversa” (Pasquini). Punti: “congiunzioni astrali” (Pasquini).

6. Celico: “celeste”. L’aggettivo fra Due e Trecento ha una sola altra attestazione, nell’accezione di “uomo celestiale”, nei Fioretti di San Francesco, 42. 23 («O cielico, grande consolazione hai avuto oggi») (TLIO).

Impression: “influssi degli astri”. Cfr. Beccari, Rime, 48, 4 («e propiamente quelle impressione»). Corpi:

“pianeti”. Superni: “superiori, celesti”. L’aggettivo è spesso usato per qualificare gli dei dell’Olimpo. Lat. 7. Qual: “chiunque, qualunque”.

8. Tempre: “attenui”. L’impeto e l’ira: “la furia e l’ira”. Dittologia.

9-16. “E tu, Signore, adesso aiutami in tutto e per tutto: vedi quella meretrice ingrata e crudele, che dietro di sé reca tutto (ciò che) di male nacque mai sopra la terra! Questa è colei che porta la rovina mortale al triste ospizio, alimento al mio rancore, l’ingratitudine, madre di ogni vizio!”.

9. Il v. riprende una delle formule invocativa tipiche della preghiera cristiana, ponendosi quindi a tutti gli effetti come tale; in questo modo, dopo aver invocato in maniera laica, o, meglio, pagana (cfr. «superni», v. 6), gli elementi dell’universo, ora si passa a supplicare Dio in persona. M’aita: “aiutami”. Ant. Lett.

10-16. I vv. riprendono piuttosto esplicitamente Dante. Così, la corte di Ladislao viene rappresentata da Serdini, sia dal punto di vista linguistico, sia da quello concettuale, in termini analoghi a quelli con cui Pier delle Vigne, in If, 13, 64-69, descrive la corte di Federico II, offrendo quindi l’immagine di un luogo in cui regnano il vizio, l’ira e l’ingratitudine.

10. La meretrice: l’ingratitudine, come poi viene esplicitato al v. 16. Il termine è una chiara ripresa dantesca, If, 13, 64 («la meretrice che mai da l’ospizio»), anche se nella Commedia ad essere appellata «meretrice» non è l’ingratitudine, ma uno dei sette vizi capitali, ossia l’invidia. Dira: “crudele”. Ingrata e dira: dittologia.

11-12. I vv. svolgono una funzione iperbolica nell’esprimere come l’ingratitudine, vizio principale da cui derivano tutti gli altri, rechi con sé tutte le brutture del mondo.

13. Questa: l’ingratitudine, nominata v. 16. Afferra: “porta” (Pasquini). Il termine è un calco dal latino “affero”.

14. Eccidio: “rovina”. Toscanismo (TLIO). Ospicio: “albergo”. Il termine è ricavato dal passo dantesco di cui si è detto, per il quale cfr. v. 10. Doloroso ospicio: la corte di re Ladislao, definita “dolorosa” in quanto luogo in cui regnano il vizio e la corruzione. Il sintagma è ripreso da Dante, ove è adoperato per indicare l’Inferno. Cfr. If., 5, 16 («O tu che vieni al doloroso ospizio»).

15. Incendio alla mia guerra: “alimento alla mia fiamma d’ira” (Pasquini).

16. Ingratitudo, madre d’ogni vicio: la formula richiama anche in questo caso Dante, If., 13, 64-66 («La meretrice che mai da l’ospizio / di Cesare non torse li occhi putti, / morte comune e de le corti vizio»).

Ingratitudo: lat.

17-24. “Ho consumato e sconfitto in battaglia ogni altra avversità, ogni altro fato e ogni altro destino, l’ira del cielo, della terra e degli Inferi, ogni congiunzione astrale; né altro temetti mai nella mia vita, né la morte, né una signoria o una prigionia prossima, né i Francesi, né i Romani, tanto da perdere il coraggio o la speranza”. 17-20. I vv. fanno riferimento all’enorme coraggio dimostrato in ogni occasione da Gian Colonna, la cui forza d’animo gli ha permesso di combattere in maniera indefessa persino contro avversari superiori e svincolati dal controllo umano come il destino, gli elementi naturali e l’universo intero.

17. Avversità, fato e destino: tricolon. 18. Dell’abisso: degli Inferi.

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20. Ho lograto: “ho consumato”. Lat. La forma “lograre” è un senesismo (TLIO). Ho lograto e vinto: dittologia. Per battaglia: “combattendo”. La locuzione si riferisce non soltanto all’indole combattiva di Gian Colonna, ma anche al suo essere un condottiero sempre pronto a lanciarsi nella battaglia.

21-24. I vv. fanno seguito a quanto espresso nei vv. 17-20 spostando l’attenzione sulla capacità dimostrata dal dedicatario del testo di non soccombere non solamente agli elementi della natura e al destino, ma anche a situazioni e personaggi concreti come gli altri stati, la prigionia, la morte e gli avversari.

21. Dottai: “temetti”. Francesismo. Provenzalismo. Visso: “vissuto”. Toscanismo. Cfr. Petrarca, Rvf, 145, 13 («sarò qual fui, vivrò com’io son visso»).

22. Morte, stato o carcere vicino: i tre termini afferiscono tutti alla natura di condottiero di Gian Colonna, la quale, porta spesso l’uomo a doversi confrontare con il rischio della morte in battaglia, oppure dello scontro con signorie vicine e con la probabilità di una prigionia in seguito a una sconfitta politica o militare.

23. Gallico: “francese”. Latino: “romano”, ossia le truppe pontificie. La scelta di Francesi e Romani probabilmente non è casuale, dal momento che le truppe pontificie e i loro alleati francesi sono gli avversari di Gian Colonna e di Ladislao nell’ambito dello scontro che vede il re di Napoli fronteggiarsi con l’esercito papale per la conquista dello Stato pontificio.

24. L’ardire e la speranza: Dittologia. Si tratta delle due qualità che caratterizzano l’animo di Gian Colonna, il quale non perde mai né il coraggio per affrontare le sfide politiche e militari, né la speranza di risultare vittorioso.

25-32. “Adesso contro di lei non mi servono né le lamine dell’armatura, né la maglia di ferro di essa, né (mi occorrono) la conoscenza, la forza o la lealtà: ha meno gioia colui che aspetta di essere gratificato da lei; e io, sventurato mi trovo a essere beffato per aver dato tutto il mio cuore e la mia fedeltà! Che possa provare la stessa cosa chi non mi crede!”.

25. Costei: l’ingratitudine, cfr. v. 16. Piastra: “ciascuna delle lamine ricurve di un’armatura” (TLIO), estens. “armatura”. Sineddoche. Maglia: “il tessuto metallico intrecciato usato per coprire il corpo del combattente” (TLIO), estens. “armatura”. Sineddoche. Piastra né maglia: la scelta di questi due termini afferenti alla sfera dei tecnicismi militari ribadisce la natura di combattente del dedicatario della canzone, dal momento che si tratta di due degli strumenti del mestiere che hanno sempre protetto il condottiero Gian Colonna nel corso delle sue battaglie.

26. Val: “serve, occorre”. Saper: “conoscenza”. Lianza: “lealtà”. Provenzalismo. Saper, forza o lianza: tricolon. Si tratta delle tre virtù che deve possedere il buon condottiero, il quale deve conoscere l’arte politico- militare, deve possedere la forza fisica e guerresca necessaria a gettarsi nella battaglia e deve saper dimostrare lealtà verso il signore presso cui è al servizio.

27-28. I vv. presentano un assunto sentenzioso tipico della poesia gnomica, creando quindi un inserto di tonalità diversa rispetto a quella adoperata finora, che si è visto essere quella della disperata e della rimeria sul tema della Fortuna.

27. Baldanza: “gioia ardita” (Pasquini).

28. Espetta: lat. Lei: l’ingratitudine, cfr. v. 16 e v. 25. Esser premiato: “essere gratificato”. 29. Sventurato: ant. lett.

30. Core: ant. lett. Cfr. Rohlfs, par. 107. Fede: “fedeltà, lealtà”. I due termini rimandano nuovamente alle qualità che deve possedere il buon condottiero, che deve dimostrare nello stesso tempo coraggio e forza d’animo («core») e lealtà verso il proprio signore («fede»). Per il tema cfr. v. 26.

31. Gabbato: “beffato”. Francesismo.

32. Il v. riprende il tono anatematico tipico del genere della canzone disperata.

33-40. “O colonna nobile, purpurea, di cristallo, immacolata, che già da molti anni fosti tanto celebrata quanto si spetta a una persona così venerabile, dov’è la tua corona, dove hai lasciato il coraggio e l’ardire? Perché ti vedo (essere) in tormenti tanto grandi, e sola nella mia condizione miserevole e (vedo) smarrito il bellicoso Marte?”.

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33. Colonna: senhal di Gian Colonna, in persona del quale è scritto il testo. L’allocuzione al senhal del condottiero segna un cambiamento di prospettiva da parte dell’io lirico. Infatti, mentre nelle prime due strofe

ha parlato in 1a pers. sing. in tono essenzialmente narrativo, adesso passa a proporre un dialogo con sé stesso

(come si evince dall’utilizzo della 2a pers. sing. in tono allocutorio e dialogico) ove si duole della propria sorte.

Colonna gentil: sintagma già adoperato per definire Gian Colonna. Cfr. Saviozzo, 13, 49 («Questa gentil

Colonna assunse il nome»).

33-35. Già molti anni… fusti tanto essaltata: tmesi.

34. Purpurea: l’aggettivo è utilizzato come segno distintivo della dignità pubblica posseduta da Colonna; di porpora venivano rivestiti infatti, tra antichità e Medioevo, le più alte cariche politiche (senatori e re) ed ecclesiastiche (i cardinali). Il termine potrebbe anche essere adoperato qui antonomasticamente per ricordare che del casato dei Colonna hanno fatto parte alcuni fra i più importanti cardinali del Trecento. Di cristallo: “splendente”. Figur. Il termine viene associato ai concetti di trasparenza, splendore, chiarezza e bellezza (TLIO). Immacolata: “onesta”. Purpurea, di cristallo, immacolata: tricolon. I tre aggettivi vengono accostati per definire i vari aspetti nei quali si esplica l’assoluta perfezione e virtù di Colonna, ossia la sua grande dignità sociale e politica, il suo nobile splendore e la sua onestà morale.

35. Fusti: “fosti”. Ant. Lett. Cfr. Rohlfs, par. 583. Essaltata: “celebrata”. Il verbo “essaltare” viene adoperato sistematicamente da Serdini nel lodare i Colonna. Cfr. Saviozzo, 35, 2 («vaglia il mio stile ad essaltare in loro»).

36. Venerabil chioma: Gian Colonna. Chioma: “capigliatura”, ma anche, estens., “capo, testa” (TLIO). Cfr. Petrarca, Rvf, 28, 81 («tre vole triumphando ornò la chioma»). Sineddoche.

37. Diadema: “corona”. Il termine fa riferimento al potere di Gian Colonna che ora, in seguito ai rovesci di fortuna, sembra aver abbandonato la «chioma» (cfr. v. precedente) del condottiero. Lassata: cfr. Rolhfs, par. 225.

38. Franchezza: “coraggio”. La franchezza e l’ardire: dittologia. Si tratta delle qualità delle quali Gian Colonna si è presentato come possessore fin dall’inizio del componimento. Cfr. v. 24.

39. Veggio: ant. lett. Cfr. Rohlfs, par. 276. Danni: “condizione miserevole” (TLIO).

40. Smarrito il bellicoso Marte: l’espressione fa riferimento ancora una volta, attraverso l’utilizzo della figura del dio romano della guerra, alla perdita di forza e potere subiti da Colonna a causa della fortuna avversa. Cfr. vv. 37-38. Il richiamo alla perdita del sostegno di Marte, progenitore dei Romani in quanto padre di Romolo, anticipa inoltre il concetto, meglio esplicitato ai vv. immediatamente successivi, della mancanza di aiuto da parte dell’ormai scomparso Impero Romano sperimentata da Gian Colonna.

41-48. “Dov’è il trionfo? Dov’è l’antica Roma? Ormai il nobile e famoso impero non può più aiutarti, né (possono aiutarti) la potenza e la maestria delle bende delle toghe (dei senatori romani) e delle spade (dei guerrieri romani)! Ma prima che tu ti muova dal cammino consueto, o che il tuo onore perda di valore, dovrà prima accadere che il cielo cada e precipiti pezzo per pezzo”.

41. Il v. indica la perdita di potere e di successo subita da Gian Colonna attraverso due domande retoriche atte a mostrare la scomparsa dell’Impero Romano, il quale si poneva come massimo tutore delle virtù politiche, militari e morali che incarnava. Triunfo: lat. Si tratta del massimo onore tributato a Roma ai comandanti supremi tornati vittoriosi dalla battaglia. L’antica Roma: richiamo alle supreme qualità mostrate da Roma in campo politico-militare, che sono scomparse assieme all’Impero, portando alla decadenza morale, civile e militare causa della disgrazia di Colonna.

42. L’almo impero: l’Impero Romano, massima espressione di gloria e virtù. Aitarte: “aiutarti”. La forma “atare” è tipica del fiorentino medievale (cfr. TLIO, s.v. “aiutare”).

43. La potenza e l’arte: “la forza e la maestria”. Dittologia. Cfr. Sacchetti, Libro delle rime, 280, 3 («e qui mi manca ogni potenza e arte»).

44. Togate fasce: le bende della toga dei senatori romani. Metonimia. Togate fasce e spada: i termini indicano, per metonimia, rispettivamente le qualità politico-civili e le qualità militari proprie degli antichi

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Romani che si sono perse a seguito della caduta dell’Impero portando alla decadenza e alla corruzione del presente.

45-48. I vv. indicano la strenua volontà di Gian Colonna di continuare a combattere per mantenere salde le proprie qualità e il proprio onore, nonostante la decadenza del contesto (di cui l’ingratitudine viene individuata come la causa principale, cfr. v. 16), attraverso la costruzione di una proposizione fondata su un adynaton («pria convien che cada / e che sommerga il cielo a pezzi a pezzi», vv. 45-46).

45. Convien: “accadrà” (TLIO).

45-46. Che cada e che sommerga: dittologia.

46. Sommerga: “precipiti, piombi” (Pasquini). A pezzi a pezzi: “pezzo per pezzo”, ossia “per intero”. 47. L’usata strada: “il cammino consueto”, ossia, figur., il comportamento, morale, politico e militare, dimostrato da sempre da Gian Colonna.

48. Ti mova: “ti sposti, cambi”. Cfr. Rohlfs, par. 107. L’onor: cfr. «l’usata strada», v. precedente. Ti

disprezzi: “perda di valore” (TLIO).

49-56. “Io non fui il primo a innalzarti al cielo, né (il primo) a darti come dote la fortezza, la quale, fra le quattro virtù, ancora ti stima come suo simbolo prediletto. La nobile progenie e l’eccellenza dei miei antenati e il loro insigne ardore non può fallare neppure un nonnulla, tanto da portare qualcun altro a fallire (in queste dote).

49. Io non fui il primo: il v. dà l’avvio alla celebrazione del proprio casato da parte di Gian Colonna, il quale si ritiene l’ultimo erede delle virtù dimostrate nel corso dei secoli dai propri antenati. Sublimarti: “innalzarti, nobilitarti”. Gli antichi esponenti della casata dei Colonna sono elevati, in virtù delle loro enormi qualità morali, tra gli spiriti beati del Paradiso. La 2a pers. sing., allocutoria, è riferita al senhal «colonna» del

v. 33, cui l’io lirico si è rivolto nella strofa precedente.

50. Ti dei: cfr. «sublimarti», v. precedente. Ant. Fortezza: una delle quattro virtù cardinali, grazie alla quale Gian Colonna, e prima di lui i suoi progenitori, dimostrano e hanno sempre dimostrato fermezza e costanza di fronte alle avversità, senza lasciarsi mai scoraggiare.

51. Ti prezza: “ti stima”.

52. Fra le quattro virtù: le quattro virtù cardinali, ossia prudenza, giustizia, fortezza e temperanza. Diletta

insegna: “simbolo prediletto”. Gian Colonna si pone come simbolo assoluto di fortezza grazie alla sua capacità

di non arrendersi mai.

53. Generosa stirpe: i Colonna, grande esempio di nobiltà. Gentilezza: “eccellenza”. 54. Caro zelo: “insigne ardore”.

55-56. Non può mancare… fallir volga: “non può fallare neppure un nonnulla, tanto da portare qualcun altro a fallire”. I vv. si riferiscono al fatto che la fortezza, così come le altre qualità morali, la nobiltà e l’ardore sono doti che accomunano tutto il casato dei Colonna, dai capostipiti fino all’ultimo esponente Gian Colonna. 57-64. “Mi addolora la condizione (in cui mi trovo) e ancora di più mi cruccio del fatto che, come tu sai, per i tanti servizi resi e per i tanti problemi (risolti) io abbia meritato come ricompensa questo trattamento. Non mi hanno rovinato né le azioni, né gli inganni subiti da parte di qualcun altro, ma anzi, il mio troppo fidarmi; ma sarà cosa degna di poca lode da parte di chi lo dovrebbe fare (quella) di non aiutarmi!”.

57. Duolmi: “mi addolora”. Legge Tobler-Mussafia. Lo stato: la condizione miserevole in cui si trova Gian Colonna. Mi disdegna: “mi cruccio del fatto che”.

58. Di tanto servire e tanti guai: dittologia. L’espressione mette in risalto l’ingratitudine del presente, nominata già al v. 16, ricordando i servizi svolti e i problemi risolti dal condottiero Gian Colonna per conto del proprio signore (Ladislao). Da un lato c’è Colonna, simbolo del buon comandante per eccellenza, perfetta incarnazione delle antiche virtù romane, mentre dall’altro c’è l’ambiente cortigiano che, preda di qualsivoglia tipo di vizio, dimentica di ricompensare i propri servitori.

59. Tu: allocuzione al senhal «colonna», v. 33. Il pronome continua la costruzione retorica impostata sin dall’inizio della strofa precedente basata sul dialogo svolto dall’io lirico con il proprio senhal.

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60. Il v. continua il discorso riguardante l’ingratitudine dimostrata da Ladislao verso il proprio fedele servitore per il quale cfr. v. 58.

61. Forza d’altrui né frodo: tmesi. I termini riprendono le due motivazioni, entrambe inesistenti nel caso di Gian Colonna, per cui un condottiero può cadere in disgrazia, ossia le azioni (politiche o militari) oppure gli inganni orditi da un terzo. Frodo: ant.

62. M’ha disfatto: “mi ha rovinato” (TLIO). Il troppo fidarmi: l’espressione rimarca qui come i guai di Gian Colonna siano dovuti al suo essere l’unico personaggio portatore di virtù positive nell’ambito di un contesto totalmente negativo come quello della corte di Ladislao, per cui una qualità come la fiducia nel prossimo, che dovrebbe essere essenziale in qualsiasi tipo di rapporto umano e sociale, viene rovesciata fino a diventare causa della rovina di una persona. Il concetto riprende quanto espresso ai vv. 58-60.

63. Lodo: ant.

64. Devria: “dovrebbe”. Cfr. Rohlfs, par. 594. Aitarmi: cfr. «atarte», v. 42.

65-72. “O beata schiera, o spiriti santi, che gioite nel beato regno, e ciascuno (di voi) che, secondo il suo merito, nei Campi Elisi vive contento, voi nella vostra dipartita lasciaste una traccia di gloriosa fama (di essere) fra i perfetti principi benedetti, al buon tempo in cui ve ne andaste nelle vostre sedi oltremondane”.

65. Il v. è un’allocuzione agli spiriti magni degli antichi Romani, i quali vengono definiti beati non soltanto per il fatto di vivere nei Campi Elisi, ma perché hanno avuto la fortuna di vivere in un momento in cui imperava la perfezione e di morire prima di assistere allo scempio del presente. Felice: “beata”. L’aggettivo definisce chi è ammesso alla gloria eterna del Paradiso (TLIO). Felice coorte: “beata schiera”, ovvero gli antenati ammessi alla beatitudine eterna. Spirti: “anime”. Ant. Cfr. Rohlfs, par. 138. Spirti eletti: le anime beate dei progenitori Romani. Il sintagma è dantesco. Cfr. Dante, Pg., 3, 73 («O ben finiti, o già spiriti eletti») e nella variante al sing., Pg., 13, 142-143 («e però mi richiedi, / spirito eletto, se tu vuo’ ch’i’ mova»). È utilizzato anche altrove in Saviozzo, 25, 153 («O spirti eletti, o anime beate»).

66. Vi godete: “gioite, vi beate”. Il verbo è un tecnicismo religioso per definire la condizione dei beati in Paradiso (TLIO). Beato regno: il Paradiso. Perifrasi. Il sintagma è, anche in questo caso, dantesco, Pd., 23-24 («tanto che l’ombra del beato regno / segnata nel mio capo io manifesti»).

67. Come è degno: “secondo il suo merito” (Pasquini). L’espressione rimanda a una concezione dantesca del Paradiso, per cui ogni beato risiede in uno dei cieli di esso a seconda delle qualità per le quali si è distinto in vita.

68. Eliseo ciel: i Campi Elisi, luogo oltremondano in cui risiedono i beati nella mitologia classica. Estens., il Paradiso. Vive: “vivono”. Concordanza ad sensum.

69. Segno: “traccia, vestigio” (Pasquini). 70. Gloria e gran fama: dittologia.

71. Principi benedetti: le anime dei principi elette alla gloria del Paradiso, fra le quali quelle degli antenati Romani risultano essere le più perfette.

72. Buon tempo: il tempo della Pax Romana, o Pax Augustea, ossia il lungo periodo di pace e concordia vissuto dall’Impero Romano dopo l’ascesa al trono di Augusto. Cfr. didascalia. Giste: “andaste”. Ant. Ai vostri

liti: le sedi dell’Oltretomba destinate ad ognuno degli spiriti magni dell’antica Roma. L’espressione mostra

una concezione dantesca della collocazione delle anime dei personaggi dell’antica Roma, per cui ogni eroe, principe, personaggio politico e imperatore citato viene allogato da Dante in un posto diverso dei tre regni oltremondani.

73-80. “Gli archi trionfali di anni così gloriosi non sono ancora distrutti; e vi vedo scolpiti, dopo essere stati assunti in cielo, i vittoriosi Cesare e Marcello, Fabrizio e colui che liberò Roma dall’occupazione dei Galli, e il buon Scipione novello, che vinse la battaglia e vendicò l’offesa (subita da Roma)”.

73. Il v. rimarca il concetto dell’eternità della gloria Romana, che persiste nonostante la decadenza del presente. Gli archi trïunfali: gli archi di trionfo costruiti dai Romani per celebrare il conseguimento di una vittoria in guerra. In questo caso, si tratta di una metonimia utilizzata per indicare la potenza e la gloria