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e giudica ciascun quanto che vaglia Convien che 'l mondo oggi così si regga,

ma tristo chi s'annida in tal drappello,

ché fia suo fine ancor peggio che in paglia!

1. Fugga virtù: il congiuntivo esortativo di apertura riprende lo stile dell'invettiva; cfr., a tal proposito, Boccaccio (Rime, 1, 55.2: “Fugga l'angoscia e fuggasi el disio”). acervi: variante di “acerbi” che in Saviozzo ha un'unica attestazione. Si tratta di una forma popolare del toscano generata da una reazione ipercorretta per cui il nesso “rb” diventa “rv” (cfr. ROHLFS, pg. 262). Il termine va inteso nell'accezione di “superbo” data da Dante a proposito di Capaneo in Inf, 14, 63-64.

2. Fonte d'invidia e di malizia: dittologia. Entrambi i sostantivi sono utilizzati da Dante per descrivere l'origine del male di Firenze (Inf. 15, 68: “gent'è avara, invidiosa e superba” e Inf. 15, 78: “fu fatto il nido di malizia tanta”).

3. Il verso è rimodulazione di Dante (Purg. 6, 76: “Ahi serva Italia, di dolore ostello”). miseria e nequizia: dittologia.

4. Gente senza: per il sintagma, cfr. Cino da Pistoia (165.25: “O gente senza alcuna cortesia”). ragion: giustizia (Pasquini).

5-8. '[la virtù] Trattenga presso di sé i buoni signori, siano essi innalzati al cielo per la loro fama e la loro stirpe: perché se le corti sono piene di vizi, la colpa non è loro, ma dei vili servi'.

5. Si conservi: il verbo viene qui posto accanto al sostantivo 'virtù', come già altrove. A tal proposito, cfr. F. da Barberino (8, 1.51: “Io son vertù di Contenenza, e volglio che […] fino alla morte teco mi conservi”).

6. Per: esprime l'agente, come accade di frequente nell'italiano antico (cfr. ROHLFS, pg. 810). gran

primizia: la formula è adoperata da Saviozzo anche in 13. 61r. Il sostantivo 'primizia' con l'accezione di 'stirpe'

è di derivazione dantesca; ma in Dante significa 'capostipite' (Par. 16, 22: “ditemi dunque, cara mia primizia” e Par. 25, 14: “di quella spera ond'uscì la primizia”).

7. Vizia: la forma è prosecuzione del plurale latino dei neutri della seconda declinazione (cfr. ROHLFS, pg. 368).

9-11. 'Non credere tu che il buon signore non veda quello che accade intorno, ma tiene segreto ciò di cui si accorge per evitare il nuovo servo, e poi giudica ciascuno per il proprio valore'.

9. Tu: Gian Colonna, destinatario del sonetto, a cui Saviozzo passa in questa terzina a rivolgersi con allocuzione diretta.

10. Tace: per l'accezione del verbo 'tacere' come 'tenere segreto', cfr. Boccaccio (Dec. 1, 6: “Né io altressì tacerò un morso dato da un valente uomo secolare a uno avaro religioso”).

11. Vaglia: forma più antica di 'valga' (cfr. ROHLFS, pg. 534).

12. 'Accade che in epoca odierna il mondo sia governato in questo modo'. Convien: il verbo 'convenire' è usato nel toscano antico nell'accezione di 'accadere'. A tal proposito, cfr. Libro dei Sette Savi (68.29: “Ora convenne che 'l cavaliere andasse quella notte a guardare que' tre cavalieri”).

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13. 'Ma sia maledetto chi si annida in questa marmaglia'. Tristo: letteralmente 'malvagio', qui è usato come maledizione nella profezia mossa da Saviozzo in quest'ultima terzina. Drappello: la torma dei vil servi (Pasquini). Riecheggia Dante (Par. 29, 118: “Ma tale uccel nel becchetto s'annida”).

14. 'La sua fine sarà più rapida che se fosse nella paglia' (Pasquini). In questo caso il verso sarebbe metafora della precarietà della vita nelle corti. Un'altra interpretazione potrebbe essere la seguente: 'perché la sua condanna a morte sarà peggiore di quella al rogo' (che, com'è noto, veniva allestito utilizzando cataste di legna e paglia da ardere. Da qui deriverebbe l'espressione in paglia). Ma forse più pertinente, visto l'argomento del sonetto, il quale si configura come una condanna della corruzione delle corti, è un'interpretazione del verso come: 'perché la sua fine sarà peggiore che se fosse nella paglia'. In questo caso la lettera andrebbe interpretata come una seppur maldestra ripresa di Dante (Inf. 23, 64-66: “Di fuor dorate son, sì ch'elli abbaglia; / ma dentro tutte piombo, e gravi tanto, / che Federigo le mettea di paglia”): la marmaglia dei servi finirà all'inferno tra gli ipocriti, dove subirà un tormento ancora peggiore di quello che Federico II (che, in quanto buon signore, si appaia al destinatario del sonetto), infliggeva ai suoi avversari. Secondo una delle tante leggende diffuse negli ambienti ecclesiastici e guelfi contro Federico II, questi faceva indossare ai condannati a morte per offesa maestà una spessa veste di piombo e poi faceva appiccare un grande rogo in modo da far sciogliere il piombo addosso ad essi, i quali morivano a seguito di enormi sofferenze.

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SONETTO XXXV

Sonetto di encomio scritto per celebrare casa Colonna. Si notano echi intratestuali con la canzone XIII e col sonetto LXXXII. Per quanto riguarda la datazione, non vi è una data certa di composizione, ma è quasi certo che sia stato scritto nel 1404 o poco prima: in questo testo, infatti, Saviozzo promette al condottiero di glorificare il casato dei Colonnesi attraverso la poesia, cosa che poi fa nella canzone L'inclita fama e le

magnifiche opre (XIII), sicuramente appartenente al 1404. La celebrazione della famiglia si svolge qui

attraverso la creazione di un testo costruito sull'esempio dell'epos classico: molti, infatti, sono gli elementi che riprendono il genere epico. La prima quartina si configura come un vero e proprio proemio epico, tanto che la si potrebbe considerare la protasi: in essa, infatti, il poeta accenna brevemente all'argomento trattato (l'esaltazione dei Romani) e invoca le Muse affinché conferiscano potenza alle proprie parole. Ma il tutto è posto in un contesto diverso, sia dal punto di vista metrico (si tratta, per l'appunto, di un sonetto), che tematico (è un testo encomiastico). L'autoidentificazione dell'autore come cantore epico che celebra la magnificenza dell'Impero Romano, sola istituzione nella quale si assommano tutti i poteri e i beni materiali e spirituali e unico reggitore del mondo intero procede anche nella seconda quartina, come conferma il verbo adottato in apertura, cantarò. Nelle terzine l'aedo dei Romani diventa aedo dei Colonna, da lui collocati a pieno titolo all'interno della storia universale dell'Impero come i più nobili e virtuosi tra i suoi discendenti diretti. La costruzione di un testo che ricalca l'epos classico avviene anche tramite l'utilizzo di un lessico specifico (cantarò), l'adozione di formule tipiche del genere epico (l'invocazione alle Muse in apertura), il riferimento a personaggi del mondo greco-romano (le già citate Muse e Orfeo, anche se, in questo secondo caso, più che al genere epico il poeta fa riferimento in generale al mito classico) e il riversamento sui Romani e sui Colonna di tutte le caratteristiche positive appartenenti agli eroi epici (in particolare i Colonnesi sono definiti i più perfetti e virtuosi, coloro nei quali si rispecchiano gli Dei).

Sonetto, schema: ABBA ABBA CDE DCE.