• Non ci sono risultati.

Bankruptcy costs ed evidenza empirica

Le teorie sulla struttura finanziaria

2.2. La teoria del trade-off

2.2.3. Bankruptcy costs ed evidenza empirica

Il problema fondamentale dell’indebitamento è rappresentato dall’aumento del costo atteso del fallimento che ne consegue.

La presenza di tale costo rappresenta, nella teoria del trade-off, uno svantag-

gio del debito in termini di decremento di valore, la cui entità è pari al valore attuale dell’ammontare dei costi di fallimento per la probabilità che il fallimen- to si verifichi.

Tale probabilità varia da impresa a impresa ed è funzione sia del rischio ope- rativo che del rischio finanziario; oltre che delle caratteristiche specifiche del- l’impresa e dei business di appartenenza.

La probabilità di fallimento identifica una situazione in cui i flussi di cassa generati dall’impresa non sono sufficienti a soddisfare tutti gli obblighi connes- si al debito; anche se il mancato pagamento di una quota di capitale o di inte- ressi ad una determinata scadenza non implica necessariamente la decozione dell’impresa, il segnale di inadempienza che ne deriva, tuttavia, porta con sé una serie di costi che la dottrina suddivide in diretti e indiretti.

La definizione di costi diretti è univoca, poiché sono identificabili nei costi amministrativi e legali della procedura fallimentare, e la loro manifestazione è dunque legata al verificarsi vero e proprio del fallimento; più incerta la defini- zione dei costi indiretti.

Generalmente sono legati alla percezione dell’ambiente esterno di un cre- scente rischio di dissesto; tutti gli stakeholders possono contribuire alla crea- zione di costi indiretti; i clienti dell’impresa possono cessare di acquistare per

timore di non avere servizi post vendita15; i fornitori richiedere termini di pa-

gamento più onerosi; gli investitori non accettare il maggior rischio determi- nando il capital rationing e la perdita di validi investimenti.

Una definizione più ampia di questi costi, legata alle decisioni sub-ottimali

di investimento in presenza di debito rischioso, include i così detti costi di un-

derinvestment e costi di overinvestment; i primi sono i costi che deriverebbero

dalla mancata realizzazione di progetti con VAN positivo, i secondi sono i costi

che deriverebbero dalla realizzazione di progetti con VAN negativo16.

15 Negli anni ’80 si diffuse la percezione di un elevato rischio di fallimento della Chrysler e

molti, temendo l’impossibilità di far fede alle garanzie prestate e la reperibilità di parti di ricam- bio, si rivolsero a Ford, GM ed altre imprese. Anche la Continental Airlines, in grave dissesto finanziario al termine degli anni ’80, ebbe un calo di clienti frequent flyers che temevano di non poter più utilizzare le miglia accumulate con i piani di incentivazione.

16 Si veda in particolare la dimostrazione fornita da S.C. M

YERS, Determinants of Corporate

Borrowing, in Journal of Financial Economics, n. 5, 1977.

In termini formali, la realizzazione di un progetto di investimento al tempo t

(di valore iniziale It), finanziato con capitale proprio ∆Ε ed in condizioni di

sub-ottimalità decisionale, potrà essere conveniente per l’impresa ovvero per gli azionisti o per i creditori a seconda che:

1 > t t dI dV , con V

t = VE, t + VD, t, (valori, al tempo t, dell’impresa, del capitale

proprio e del debito), ovvero , >1

t t E dI dV

,

ovvero = dI dVE ,t t t D t t dI dV dI dV , . 0 se = − , > t t E t t t dI dV dI dV Z

Nel caso in cui l’investimento presenti caratteristiche di rischio elevate ci si può trovare in situazioni in cui il trasferimento di ricchezza avverrebbe verso gli azionisti ed a danno dei creditori; ciò spiegherebbe i costi di overinvestment ed il minore impatto del debito rischioso sul valore del capitale proprio per im- prese che presentano opportunità di investimento future più rischiose delle atti- vità in essere. In sintesi i costi di fallimento indiretti, comprendono quindi le perdite di valore conseguenti a decisioni di investimento sub-ottimali indotte dalla presenza di debito rischioso e saranno tanto maggiori quanto maggiore sa- rà l’incidenza del valore delle opportunità di crescita rispetto al valore delle at- tività esistenti.

A questa categoria di costi di fallimento, si collegano i costi di agenzia del debito17 che verranno analizzati nel prosieguo della trattazione.

Una definizione ancora più ampia di costi di fallimento, ricomprende nella fattispecie i costi di liquidazione. La teoria18 ne individua due categorie:

a) I costi diretti e indiretti di liquidazione, misurabili come divario tra valore

di liquidazione dell’attivo e valore dell’attivo in caso di funzionamento, con- nessi alla procedura di liquidazione ed alle eventuali perdite di valore che si ge- nererebbero nel caso in cui il valore di liquidazione fosse inferiore al valore di funzionamento (l’entità di tale divario dipenderebbe dal grado di specificità del- le attività e dal loro grado di illiquidità).

17 Si veda M.C. J

ENSEN-W.H. MECKLING, Theory of the firm: managerial behaviour, agency

costs and ownership structure, cit., p. 305 ss.; in tal senso le perdite di valore per decisioni di

investimento sub-ottimali possono essere eliminate o ridotte attraverso comportamenti cautelati- vi da parte dei creditori.

18 Si fa riferimento in particolare ad M.J. A

LDERSON-B.L. BEKTER, Liquidation costs and Ca-

Alcuni studiosi19 legano l’entità dei costi di liquidazione anche al grado di

trasferibilità delle attività all’interno dello stesso settore; tale trasferibilità di-

penderebbe dal grado dei vincoli legali al trasferimento e dal carattere firm-

specific del business (più sensibili al ciclo economico, con maggior peso delle

opportunità di crescita future, meno diversificati).

b) I costi di agenzia dei rapporti impresa-stakeholders.

Il rischio di liquidazione dell’impresa mette a rischio la credibilità di questi rapporti e quindi induce comportamenti delle controparti preventivamente cau- telativi che generano costi20.

Una posizione critica verso la considerazione che fallimento e liquidazione

possano essere uniti da un nesso è quella assunta da una parte di dottrina21 che,

più in generale, arriva anche a dimostrare l’irrilevanza, sotto il profilo dell’en- tità, dei costi del fallimento.

L’evidenza empirica ha mostrato come tale tipologia di costi, pur risultando ingente in valore assoluto, abbia un’incidenza minima sul valore dell’azienda.

Le analisi più rilevanti sono quelle effettuate da Warner22 (negli anni ’70) e

19 A. S

HLEIFER-R.W. VISHNY, Liquidation Value and Debt Capacity: A Market Equilibrium

Approach, in Journal of Finance, n. 4, 1992.

20 In tal senso si veda S. T

ITMAN, The effect of capital structure on the firm’s liquidation deci-

sion, in Journal of Financial Economics, n. 13, 1984; l’individuazione di tale componente presenta

analogie con i rilievi effettuati da A. SHAPIRO, Corporate Strategy and The Capital Budgeting De-

cisions, in Midland Corporate Financial Journal, vol. 4, 1986, pp. 22-36 in cui l’autore evidenzia

una crescita tendenziale di tali costi per le imprese che vendono beni durevoli che richiedono ri- cambi e servizi, per le imprese per le quali la qualità risulta di difficile determinazione anticipata, per le imprese che vendono prodotti il cui valore dipende da altri prodotti complementari ed infine per le imprese che insieme al prodotto vendono anche un supporto continuativo.

21 R.A. H

AUGEN-L.W. SENBET, The insignificance of bankrupty cost to the theory of optimal

capital structure, in Journal of Finance, n. 2, 1978; secondo gli autori la differenza fra fallimen-

to e liquidazione consiste nel fatto che il fallimento si verifica quando l’impresa non riesce a far fronte al servizio di debito e comporta il trasferimento della proprietà dell’impresa dagli azioni- sti ai creditori con conseguente riorganizzazione formale della struttura del capitale; La liquida- zione, invece, può essere assimilabile ad una decisione di investimento che si effettua quando il valore di liquidazione (VL) eccede il valore di mercato dell’impresa in funzionamento (VM). Se-

condo tale impostazione l’ammontare complessivo dei costi di fallimento non può eccedere il valore di quei costi transazionali che l’impresa sosterebbe per evitare la procedura concorsuale e se questi costi sono minori, in entità, dei costi di fallimento, qualunque stakeholder dell’impresa ha interesse a catturare la perdita di valore connessa alla prospettiva di fallimento riacquistando il debito (gli azionisti) o il capitale proprio (i creditori) ed evitando in tal modo il fallimento.

22 L’analisi effettuata dall’autore sui fallimenti delle società ferroviarie fra il 1930 ed il 1955

ha determinato nel 5,3% l’incidenza dei costi diretti rispetto al valore delle azioni prima del fal- limento, rilevando una relazione inversa fra costi del fallimento e dimensione aziendale (che, per

da Altman23 (negli anni ’80); entrambe confermano la scarsa rilevanza dei costi

di dissesto (pari a circa un 2-3% del valore dell’impresa ante fallimento), e la difficoltà a quantificare l’entità dei costi indiretti, verosimilmente di maggior peso di quelli diretti.

La teoria del trade-off ipotizza dunque l’esistenza di un legame di segno ne-

gativo tra i costi di fallimento ed il rapporto di indebitamento dell’impresa. Tut- tavia giova ricordare che solo in alcune indagini empiriche la misura dei costi di fallimento è diretta. In altri casi si ricorre ad alcune variabili tra cui la dimen- sione aziendale, il grado di intangibilità dell’attivo, il peso delle opportunità di crescita future, il grado di unicità del prodotto ed il grado di concentrazione proprietaria.

I numerosi studi in oggetto concordano sul legame inverso tra probabilità di

fallimento e debito e sul riferimento al rischio operativo dell’impresa24. Occor-

re precisare infatti che la perdita di valore connessa ai costi di fallimento dipen- de dalla probabilità che il fallimento ha di verificarsi; ma la probabilità di falli- mento è spesso riferita al rischio operativo dell’impresa.