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Il modello di Jensen e Meckling

Le teorie sulla struttura finanziaria

2.4. La teoria dell’agenzia

2.4.1. Il modello di Jensen e Meckling

Il modello base, elaborato da Jensen e Meckling49, e le successive varianti

proposte50, si fondano sull’esistenza di costi d’agenzia (agency costs) che azio-

nisti e creditori dovrebbero sostenere per limitare l’ambito di discrezionalità del management e ridurre il rischio di comportamenti sub-ottimali.

Secondo tale teoria l’organo di governo, proprietario di una quota dell’im- presa, ha una curva di utilità che esprime (in un contesto uniperiodale caratteriz- zato da assenza di imposte, debito commerciale e titoli particolari, come azioni privilegiate o obbligazioni convertibili) il tasso marginale di sostituzione tra van- taggi pecuniari (la quota di valore dell’impresa) e vantaggi non pecuniari (benefit,

tangibili e non, economici e di status). Nel caso di risorse finanziarie limitate (che impongono quindi un ricorso al mercato per l’investimento aggiuntivo, per

48 M

ILLER ROCK, Dividend Policy under Asymmetric Information, in Journal of Finance, n.

4, 1985.

49 M.C. J

ENSEN-W.H. MECKLING, Theory of the firm: managerial behaviour, agency costs

and ownership structure, in Journal of Financial Economics, n. 3, 1976. Secondo il pensiero

degli autori, la scelta della struttura finanziaria ottimale deriva dal trade-off tra costi di agenzia del debito e costi di agenzia dell’equity. Il modello ipotizza che il proprietario-imprenditore ab- bia fondi propri limitati per finanziare tutte le opportunità di investimento profittevoli e che per- tanto la loro realizzazione richieda il ricorso al finanziamento esterno (debito o azioni). La pre- senza di debito rischioso comporta incentivi al management a porre in atto decisioni che deter- minano redistribuzione di ricchezza a danno dei creditori: realizzazione di investimenti ad alto rischio con VAN negativo, rinuncia a investimenti profittevoli che richiedono un aumento di capitale proprio, distribuzione di dividendi, rinvio del fallimento. In presenza di questo rischio, la contrattazione del debito diventa più costosa, per effetto di comportamenti cautelativi da parte di potenziali creditori.

50 Si vedano M. H

ARRIS-A. RAVIV, Capital structure and the informational role of debt, in

Journal of Finance, n. 2, 1990; T. CAMPBELL-Y.S. CHAN, Optimal Financial contracting with ex

post and ex ante observability problems, in Quartely Journal of Economics, n. 2, 1992; J.A.

BRANDER-M. POITEVIN, Managerial Compensation and the Agency Costs of Debt Finance, in

Managerial and Decision Economics, vol. 13, 1992; R.G. RAJAN, Insider and Outsiders: the

esempio attraverso l’emissione di azioni), al fine di massimizzare la propria utili-

tà, il management può avere interesse a consumare in forma di benefit una quota

superiore dei flussi di cassa prodotti di quanto non farebbe se fosse l’unico pro- prietario, generando quindi sub-ottimi decisionali.

Jensen e Meckling fanno riferimento a qualsiasi decisione di sub-ottimo che possa ridurre il valore dell’impresa ed evitare costi personali o sforzi del mana- gement. In situazioni di elevati flussi di cassa disponibili e ridotte alternative di investimento profittevoli, gli autori sostengono che l’obbligo di far fronte al servizio di debito riduce la discrezionalità del management e quindi il rischio di suoi comportamenti sub-ottimali nei confronti degli azionisti.

Il modello individua il punto di equilibrio, nel caso in cui non vi sia alcun controllo sui manager (e questi si comportano come se fossero gli unici proprie- tari d’impresa); in un secondo momento si propone di ridefinire tale punto di equilibrio nel caso in cui esistano vincoli sui comportamenti manageriali, posti in essere da soggetti esterni.

In assenza di imposte e di debiti commerciali, si rappresenta la curva di utili- tà del proprietario-manager (Figura 2.2) che esprime il tasso marginale di sosti-

tuzione tra vantaggi pecuniari e vantaggi non pecuniari (i benefit).

Figura 2.2.

Valore dell’impresa e ricchezza

V3 V V4 V1 V* V2 V′ VD F* F′ F0 F Inclinazione = – α Inclinazione = – α Inclinazione = – 1 P1 B U1 U3 U2 P2 A D

Valore di mercato dei benefit non pecuniari del manager

Quando il manager è l’unico proprietario, il punto D rappresenta la combina-

zione ottimale di valore (V*) e benefit (F*), quale punto di tangenza tra la curva di

utilità e la retta VF che esprime il vincolo di mercato, cioè il valore dell’impresa51.

Se il manager riduce la quota di partecipazione nell’impresa, sarà indotto ad

aumentare il consumo di benefit (il cui costo graverà solo pro-quota); il vincolo

di mercato diventa V1P1, il manager consumerà F0; in tal caso il valore dell’im-

presa scenderà ed il punto di equilibrio è rappresentato da B, punto di tangenza

tra la curva di utilità U3 e il vincolo V2P2 che si trova sulla VF52.

In corrispondenza di tale punto il valore dell’impresa è V′, minore di V*, si-

tuazione che identifica perdita di ricchezza per l’azionista (i costi di agenzia

dell’equity coincidono con questa perdita di valore).

In caso si pongano in atto meccanismi incentivanti al vincolo e al controllo del comportamento dei manager da parte di soggetti esterni, l’equilibrio si mo- dificherebbe come descritto nella Figura 2.3.

Figura 2.3.

Valore di mercato dei

benefit non pecuniari del

manager Valore dell’impresa e ricchezza

V V* V″ VF* F″ F′ F C U2 U1 B U3 E D – α –1

Fonte: D. VENANZI, La scelta della struttura finanziaria: teoria ed evidenza empirica, cit., p. 80. 51 Si veda, per un approfondimento, D. V

ENANZI, La scelta della struttura finanziaria: teoria

ed evidenza empirica, cit., p. 78 ss.

52 Questo accade in ipotesi di mercato razionale; se gli azionisti fossero disposti a pagare

Se M = D – C, rappresenta l’ammontare di costi di controllo, il proprietario-

manager è vincolato a non superare il valore in corrispondenza del punto F″ e

quindi l’equilibrio si raggiungerà nel punto C.

La curva BCE rappresenta, il vincolo in presenza dei costi di monitoraggio

M che si suppone aumentino più che proporzionalmente per vincolare a livelli

via via minori i benefit consumati. Il proprietario-manager accetta questi vincoli

perché il valore finale V″ di ricchezza è superiore; il proprietario-manager ri-

correrà all’emissione di equity se i costi di agenzia che sostiene sono inferiori al

beneficio che trae dall’impiego dei maggiori fondi ottenuti.

In tal senso si può affermare che il ricorso al debito ha il vantaggio di elimi-

nare i costi di agenzia dell’equity e di ridurre la discrezionalità del management

insieme al rischio di comportamenti sub-ottimali per gli azionisti.

Anche il debito, tuttavia, presenta costi di agenzia, connessi al rapporto tra azionisti e fornitori esterni di capitale di credito. Questi costi sono connessi a decisioni di investimento del management che determinano trasferimento di ricchezza dai creditori agli azionisti e che sono sub-ottimali per l’impresa per- ché comportano perdita di valore.

I costi di agenzia del debito sono classificabili in:

– costi di controllo e di imposizione/esercizio di vincoli all’operare del ma- nagement;

– costi di fallimento che includono anche i costi connessi ai contratti di a- genzia impresa-clienti, impresa-fornitori, impresa-addetti;

– perdita di valore per decisioni di investimento sub-ottimale indotte dalla presenza di debito.

Se il manager ha limitate risorse finanziarie, la convenienza di ricorrere al debito si ha fino a che l’incremento marginale di valore degli investimenti è maggiore del costo marginale di agenzia del debito, a sua volta inferiore al co- sto di agenzia dell’equity.