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Bellezza urbana, bellezza sociale

5. La città e le sue residenzialità: il contributo dell’Urbanistica

5.3 Bellezza urbana, bellezza sociale

Non vi è alcun dubbio: gli urbanisti moderni fuggono le caratteristiche che potrebbero contribuire ad un “buon vivere

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Virilio P. (1984), Lo spazio critico, Dedalo, Bari, 1998.

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urbano”. Un vivere urbano di qualità. Troppe le motivazioni che surclassano la costruzione di quelle peculiarità che renderebbero quanto meno migliori le nostre giornate. Un tempo, dietro la progettazione di una città, vi era una precisa ragione morale, uno scopo: l’armonia guidava l’epoca classica, la trascendenza il Medioevo, l’eleganza delle proporzioni, infine, l’epoca rinascimentale.127 In qualche modo i costruttori di questi periodi storici avevano ben chiaro quello che avrebbero costruito, il perché e il come. Ed erano guidati, tutti, dalla ricerca del vivere bene, dall’amore per un pianificato vivere bene. Erano città progettate per soddisfare quel bisogno di socialità, più volte ribadito, che dovrebbe essere proprio di tutti gli uomini. Città ricche di luoghi in cui condividere idee, politica, divertimento, responsabilità. Nuclei urbani in cui spendere davvero la propria vita e farlo con gli altri, senza vivere reclusi, lontano da tutti e da tutto. In cui vivere consapevolmente in comunità, arricchendosi di questo, traendo giovamento, raggiungendo il sommum bonum aristotelico.

Palazzi, sale, caffè, musei nei quali incontrarsi. Nuclei vitali. Unici motivi da tenere pienamente in considerazione. Da questa presa di coscienza può partire oggi una nuova progettazione urbanistica – etica – per le nostre città. Questi i punti, probabilmente, su cui gli urbanisti moderni non si sono ancora adeguatamente soffermati.

Forse queste idee del passato, questo modo di pianificare andrebbe davvero ristudiato per proporre un nuovo orientamento. Quel nuovo orientamento, per molti aspetti educativo, che ci stiamo prefiggendo in queste pagine. La città può essere ripianificata, urbanisticamente, traendo spunto proprio dallo studio dell’antico, per comprendere e ricomprendere quello che ancora oggi si può riqualificare e rendere, nel vero senso della parola, centrale. La città, ad esempio, da un po’ di anni, viene

progettata e pianificata per essere solo un luogo di transito, quando, invece, dovrebbe essere un luogo in cui sostare. Riflessioni supportate anche da L. Kohr, premio Nobel ed economista del secolo appena trascorso. A suo parere, infatti, oltre che dovere sfuggire all’idea di una città progettata solo per consentire migliori spostamenti e uno snellimento dell’odierno traffico, bisognerebbe, anziché costruire strade e numerosi raccordi spesso a scapito di paesaggi e benessere collettivo, dare spazio alle piazze e ai raccordi tra esse.128 Reti di piazze, adatte ancor meglio delle singole strade, al commercio, alla sosta, alla conquista - se ben progettate – di un’altra caratteristica molto importante nel passato e molto penalizzata oggi: il raggiungimento del bello, del senso estetico. La conquista di un bello che, amplia e fortifica il vivere bene di cui parlavamo inizialmente. Valorizzare, rivalorizzare, le piazze della nostra città potrebbe determinare, da un lato, una migliore gestione dei luoghi, promuovendo manifestazioni, attività aggregative e, dall’altro, ridare spazio anche alla bellezza. Alla cura di una bellezza che dovrebbe circondarci e per la quale dovremmo consapevolmente adoperarci. Anche in questa prospettiva bisogna educare.

Piazze che possano farsi luoghi dell’incontro, che possano legare, allo stesso tempo, altri luoghi dell’incontro, in una ricercata e armonica bellezza urbana. Una bellezza urbana che può ricadere su una bellezza sociale, determinandola e fortificandosi, poi, grazie a questa. Una bellezza che c’era, nemmeno troppi anni fa, ma che poi si è andata inesorabilmente affievolendo. Una bellezza che aveva alle spalle una progettazione etica. La ricerca dell’armonia e delle proporzioni per distribuire le strutture urbane. Bellezza urbana e bellezza sociale che si autoalimentano. Bellezza, in questo frangente, riscontrabile, tangibile, oggettiva e non frutto di gusti

personali.129 Bellezza che consente un modo di vivere piacevole e, ugualmente, funzionale.

Regole estetiche per sanare, si potrebbe dire, le ferite delle nuove avanguardie e il disastro delle periferie. Regole già consolidate in passato e che hanno reso grandi le nostre città, nel senso di vere opere d’arte.130 Perché la bellezza della città, la manifestazione di essa, secondo Romano, dovrebbe essere sì un nostro obiettivo costante, ma anche un riconoscimento della nostra esistenza come collettività, come parte di una comunità. Dovrebbe avere, dunque, un significato sociale, un qualcosa voluto, prima, vissuto, poi, insieme.131Perché la città nasce come una società che deve condividere e che si dà dei temi collettivi.132 I palazzi, gli edifici, i monumenti che rendono grande e riconoscibile una città, lo sono. Vanno curati e presi d’esempio per pianificarne di nuovi. Per dare e ridare consapevolezza ai cittadini. Per ricostruire una sfera simbolica che ha la sua importanza, la sua ricaduta sul nostro modo di vivere il territorio. Lo specchio della politica, della partecipazione, dell’essere veri cittadini. Una piazza, ad esempio, una di quella a cui facevamo riferimento prima, può essere un tema collettivo di una città, oggi da rivalutare e da far rivivere. Pedagogicamente.

In una città che è “quasi museo”133. Così va vissuta e, a mio parere, proprio come un museo va arricchita di nuove opere. Arricchendo, a sua volta e in tutti i sensi, i suoi cittadini: noi. Perché riconoscersi nell’urbs, nella sua sfera simbolica, in ciò che rappresenta e si porta dietro, ci permette di riconoscerci pienamente come civitas. Questo il vero sentimento di cittadinanza.

Un sentimento tanto importante e tanto lontano da noi in questo momento storico. In un secolo in cui domina l’opportunismo,

129

Ibidem, p. 41.

130

Romano M. (2008), La città come opera d’arte, Einaudi, Torino.

131 Ibidem 132 Ibidem, p. 19. 133 Ibidem, p. 61.

l’individualismo, la competizione, dove risiede la civitas?

E allora riprogettare potrebbe avere il suo valore etico e morale per salvare quelle che Wright chiama le ormai “perse vite umane”. Il cittadino deve essere messo nella condizione, per poter mutare l’attuale situazione, di “vedere nell’architettura la vera naturale tutela della libertà, perché bene edificare è per sé stesso una forma

di vita organica”.134 E in questo ricorda Benjamin e il suo

considerare la città un corpo vivente.

Un’architettura, un’Urbanistica che, allora, deve proprio farsi “organica”, servendo il cittadino di oggi, salvaguardando la sua libertà. Quella vera, quella interiore. Non quella apparente che ogni giorno fingiamo di assaporare. I valori architettonici devono seguire i valori della natura, dell’uomo, altrimenti non hanno valore nel vero senso del termine. Non ne rappresentano alcuno.135

Così, supportati anche dalle idee di questo grande studioso che ha dedicato la vita all’indagine del rapporto tra oggetto architettonico e ambiente naturale circostante, al dialogo con la città, ad un’Urbanistica della pianificazione organica, alimentando il tutto, proprio come vogliamo noi, da una costante tensione utopica, affermiamo con piena consapevolezza che una città va edificata non solo guidati dalla testa, ma anche dal cuore. Per poter vivere e amare il proprio spazio. Per ritrovare il senso della civitas, sin da piccoli. Un’Urbanistica, insomma, che si adoperi per sviluppare centri comunitari, ricchi di svago e di cultura. Gallerie d’arte che si fanno luoghi di ritrovo.136

Centri comunitari che rendano le città, ancora una volta, un’opera d’arte e che rappresentino il pensiero dei suoi abitanti. Qualcosa che crei conoscenza e pensiero collettivo. Un’Urbanistica che metta in campo uno scenario in grado di far vivere esperienze che educhino il cittadino sin da piccolo,

134

Wright F. L. (1991), La città vivente, Einaudi, Torino, p. 78.

135

Ibidem, p. 104.

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attraverso l’azione; luoghi stimolanti ai fini della creatività e della curiosità. Un’architettura che sia forza dell’uomo e non suo dominio. Per un’idea di città che nasca dentro di noi e si ripercuota poi all’esterno. Possibile agire concretamente?

Possibile se da principio si supera il primo ostacolo. Il progettista va educato, ancor prima del cittadino. Il progettista, infatti, divide gli spazi della città, li organizza in base alle funzioni. Considera la pianta, la sezione, l’assonometria. Divide geometricamente. Per lui lo spazio è lo spazio euclideo.137 L’abitante, l’utente, il cittadino, invece, non coglie principalmente questa dimensione spaziale, ma si sofferma su quella che poi vivrà: la dimensione relazionale. Uno spazio per le relazioni, per la sua vita. Questa la prima considerazione sulla quale lavorare.

Ovviamente non è detto che uno spazio matematico, preciso e suddiviso regolarmente, non sia anche uno spazio che diventi ottimo scenario sociale. Ma ciò va considerato. Prima. E stando, appunto, attenti che standard edilizi non distruggano la polivalenza dell’agire umano.138