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3. La città e le sue socio-culture: il contributo della Sociologia

3.3 La città e la complessità della società contemporanea

3.3.1 Tra globale e locale

E allora, si potrebbe proprio partire dalle relazioni. Dalle relazioni che nascono in uno spazio da molti definito globale/locale, dato dalla compresenza di queste due dimensioni, in cui si articolano fenomeni di omogeneizzazione, ma anche di riarticolazione e differenziazione. Dove il contesto, probabilmente, non è la risultante di una sommatoria lineare di realtà storiche, ma la compresenza forzata di diverse identità, anche opposte tra loro, che determinano pratiche sociali di enorme varietà65

, relazioni di enorme varietà.

Iniziamo provando a definire cosa si intende con “locale” e quali sono le sue caratteristiche.

Ferdinand Tönnies66

definì il concetto di comunità riferendosi al tipico senso di appartenenza degli elementi che ne fanno parte e la compongono. Un senso di appartenenza in grado, a sua volta, di produrre quello stesso senso di protezione e di autoconservazione tipico dell’ “unitarietà”. Un processo che avviene in contrapposizione alla singolarità, ma che permette a ciascun individuo di riconoscersi in uno status. In qualche modo, secondo la teoria di Tönnies, tutti i rapporti sociali sono volontari e questa volontà essenziale, come la chiama, determina il pieno sviluppo delle relazioni umane.67

65

Madonia M. (2007), “Le città continue e le città sottili”, in Goodbye Metropolis, Anno II, n. 5, pag. 23.

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La teoria sociologica della città della metà dell’800 trova la sua sintesi più compiuta proprio nel lavoro di questo studioso. Gran parte della sociologia successiva gli sarà debitrice. Per lui la città è lo spazio dove hanno assunto importanza i rapporti di tipo strumentale: è la società capitalistica, fondata ormai solo su interessi, scambi, contratti. L’unica misura è quella del denaro e tutto si definisce attraverso il commercio. La città è lo spazio della Gesellschaft (società), nata in opposizione alla Gemeinschaft (comunità) rurale.

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Rapporti umani che a loro volta determinano tipologie di relazioni differenti, relazioni sociali date da ragioni di vario genere (motivi psicologici, organizzativi, ecc…), ma supportate da sentimenti di unione, solidarietà, unificazione. Questi i legami della comunità locale.

Nella trasformazione verso la società moderna, con l’aumento/estensione delle variabili dimensione-densità- eterogeneità, mantenere questo modello sarebbe stato impossibile, addirittura inverosimile. Con questo non si vuole sostenere in assoluto un tramonto delle comunità locali, ma sicuramente, nella maggior parte dei casi, una loro evoluzione che potremmo iscrivere in un mutamento dalla loro classica forma attraverso un’immersione in una nuova: quella globale. Si potrebbe così ribadire che nelle nostre aree urbane convivono, allora, le due componenti globale e locale. Un incrocio tra molteplici appartenenze individuali ed eterogenei insediamenti territoriali. Ma si potrebbe andare addirittura oltre e seguire, a questo proposito, l’interrogativo posto da Mariaelena Sciarra:

“Fino a che punto nella società moderna l’appartenenza a gruppi sociali circoscritti e la partecipazione ad essi è pura, ovvero non è semplicemente in relazione ad un singolo segmento della personalità individuale? E se così fosse non è forse più facile nella confusione identitaria diffusa, indirizzare, gestire o inficiare la volontà essenziale alle relazioni sociali tramite un’attenta pianificazione dello spazio, dell’ambiente, della città quale luogo di esercizio delle svariate attività sociali dell’uomo?”.68

Non possiamo che concordare e affermare quanto temuto in questo interrogativo. È così. È così non solo perché vi è un locale che “si perde” in un globale, ma perché vi è una complessità che probabilmente esula da globale e locale, li supera entrambi perchè connotata da logiche organizzative, economiche, capitalistiche che producono nella città effetti devastanti. La passività dei cittadini non è che uno dei danni minori. Sono

68

Sciarra M. (2007), “Nomadi in prigione nella città infinita”, in Goodbye Metropolis, Anno II, n. 5, p. 54.

logiche che hanno irrotto nella coscienza umana, riplasmando, rompendo, annullando i modelli delle relazioni sociali. Gestendo queste in base allo spazio. O forse gestendo lo spazio in base a queste.

Anche quello che può apparire locale, non è un locale dato dai sentimenti, caratterizzato da relazioni, da un essere comunità, ma un locale progettato che non offre reali e sentite possibilità di condivisione. Gadamer sostenne, come ricorda Bauman in uno dei suoi ultimi lavori69, che è impossibile condividere un’esperienza senza condividere uno spazio.

È impossibile, dunque, creare relazioni senza condividere un luogo fisico. Ma gli spazi delle nostre moderne città sono determinati da caratteristiche che sembrano rendere irrealizzabile tutto questo. A partire dalla paura, così diffusa e irrazionale. Proprio per questo motivo, nella seconda parte della tesi, vorremmo concentrarci sulla possibilità di creare luoghi e circostanze di condivisione, di relazione.

Vivere in città appare, oggi, un’esperienza ambivalente: un po’ ci attrae, ma allo stesso tempo, un po’ ci respinge. Una grande città è ricca di attrattive a prima vista. È ricca di spazi da esplorare, vivere e condividere. Vi sono svariate occasioni e opportunità per ciascun individuo, per ogni desiderio. Ma in tutto questo ecco farsi largo anche la paura e con essa un’idea di città che respinge, che in qualche modo disorienta con le sue stesse varietà. E la gente, prevalentemente, decide allora di evitare di partecipare, nel senso più ampio del termine. Evitare di “fare esperienza”. Evitare di approcciarsi anche a quel “noi” che, come dice Sennet, “esprimerebbe un desiderio di somiglianza, (ma) non è che un modo per sfuggire alla necessità di guardare profondamente l’uno

dentro l’altro”.70 Così, in uno spazio che a prima vista sembra abbia

tanto da offrire, nello spazio globale della città, è

69

Bauman Z. (2005), Fiducia e paura della città, Mondadori, Milano, cit., p. 35.

70

Sennet R. (1996), The Uses of Disorder: personal identity and city life, Faber & Faber, London, p. 39.

l’individualismo moderno a far da padrone. Non esiste relazione, non esiste alcun “noi”. L’individualismo moderno, suggerisce Castel, ha fondamentalmente determinato insicurezza, paura, timore che pericoli di diversa natura aumentino intorno a noi.71 Paura degli altri e paura, anche, di essere noi stessi inadeguati alle situazioni, alla realtà cittadina. Una paura che ha determinato la fine delle relazioni, tramutando la solidarietà di un tempo in competizione e diffidenza. Eppure, sempre secondo Castel, viviamo in una società oggettivamente sicura, in una delle più avanzate. Com’è possibile vivere sulla propria pelle il sentimento contrario?

Eccoci, ancora una volta, dispersi nella complessità odierna: sicurezza e insicurezza, oggettività e soggettività. In un unico spazio, dove si sospetta degli altri e delle loro intenzioni, dove si ricercano criminali e nel quale ci si muove in senso contrario rispetto ad un progetto di integrazione: verso l’esclusione.

Riprenderemo più avanti le linee attuali dell’architettura e dell’Urbanistica, ma basti qui accennare che sono proprio esse a determinare gran parte di questa esclusione. Loro gran parte della responsabilità.

Morgan, più di un secolo fa, sostenne che “l’architettura fornisce un’esauriente testimonianza del progresso dalla barbarie alla civiltà”.72 E inizialmente fu così, senza dubbio, ma oggi anche l’architettura “torna indietro” e punta all’esclusione, alla separazione.

In molte aree urbane troviamo case costruite ad hoc “per proteggere” i propri abitanti e non per integrarli nella comunità73, sempre che esista ancora la possibilità di realizzarla questa comunità sulla quale ci siamo precedentemente interrogati. E anche questo è contraddittorio se pensiamo, come rilevano Graham e Marvin, che “proprio mentre estendono i loro spazi di

71

Castel R. (2003), L’insecurité sociale: qu’est-ce qu’être protégé?, Edition du Seuil, Paris, p. 5.

72

Morgan L. H., (1878), Ancient Society, H. Holt, p. 1.

73

Gumpert G., Drucker S. J., (1998), The mediated home in a global village, in “Communication research”, vol. 25, n. 4, pp. 422-438.

comunicazione alla sfera internazionale, questi residenti mettono alla porta la vita sociale, potenziando i loro sofisticati sistemi di sicurezza”.74

Una rete cittadina che scollega e abbandona spazi, creando zone-

fantasma75 da un lato e, determinando, dall’altro, spazi in cui le persone sono “vicine” fisicamente, ma socialmente ed economicamente distanti. Altra contraddizione, altra antinomia. Flusty, architetto americano e critico dell’Urbanistica, ha recentemente condotto una ricerca sui nuovi spazi architettonici delle città americane. Ne deriva una descrizione di spazi

preclusi76 che hanno l’intento di segregare, escludere e dividere gli abitanti tra loro.

Spazi dalle molte denominazioni, ma tutti spazi in cui si fa strada sempre più un sentimento di mixofobia che suggella definitivamente la disintegrazione della vita comunitaria.

Mixofobia come paura di mescolarsi tra cittadini di diversa etnia, questo in modo più evidente, ma non solo, anche tra cittadini di

prima fila e di seconda fila.77 E pensare che, come vedremo più avanti e come cercheremo di dimostrare in una prospettiva pedagogica, gli architetti avrebbero in mano le chiavi per generare, attraverso la creazione e la progettazione di funzionali spazi aperti, invitanti, ospitali, il sentimento opposto: la mixofilia.

E in questo desolante scenario, ecco che il senso d’identità sfuma sempre più, si confonde nella complessità odierna. La dimensione sociale e l’indifferenza che oggi ci contraddistingue, si intrecciano con la dimensione psicologica degli individui che le città le abitano.

74

Graham S., Marvin S. (2001), Splintering urbanism: networked infrastructures,

technological mobilietes and the urban condition, Routledge, New York, p.285.

75

Schwarzer M. (1998), The ghost wards: the flight of capital from history, in “Thresholds”, n. 16, pp. 10-19.

76

Flusty S. (1997), Building Paranoia, in Ellin N., Blakely E. J. (a cura di), Architecture of

Fear, Princeton Architectural Press, New York.

77