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La città come costruzione del sé, la città come costruzione della

4. La città confine di cittadinanza: il contributo dell’Antropologia

4.5 La città come costruzione del sé, la città come costruzione della

Se ammettiamo che l’Antropologia abbia uno spiccato interesse per le relazioni e l’individuo, allora è chiaro il perché di questo paragrafo e del suo oggetto: il sé e la sua costruzione.

Abbiamo in parte già toccato questo tema nel paragrafo dedicato al rapporto tra spazio del cittadino e formazione della sua identità. Eravamo partiti dalle riflessioni di Simmel relativamente alla ricaduta della metropoli e delle sue dinamiche sulla costruzione della personalità dell’individuo moderno, giungendo alla conclusione che, effettivamente, gli spazi metropolitani hanno una notevole influenza, spesso più in negativo che in positivo. Spazi unidirezionali per identità

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Fabietti U., Malighetti R., Matera V. (2002), Dal tribale al globale. Introduzione

unidirezionali, avevamo sostenuto, spazi in cui questa identità, la sua singolarità rischia di perdersi e di essere inghiottita in una prigione - la città - che limita l’individuo e le sue capacità di scelta, proponendo un modello opposto, antitetico alla nostra progettazione pedagogica.

In questo quadro di così difficile sviluppo della personalità dove avviene quello che Simmel chiama lo “spiritualmente tipico”109, ossia un’intersezione costante tra aspetto sociale e aspetto psicologico, dove la metropoli si mostra regno della massima libertà ed espressione dell’individualità e, allo stesso tempo, regno dove vi è assoluta incapacità di percepire le differenze, tra le cose e le persone, tra i significati e i valori, tutto appare senza distinzione e irrilevante. Simmel parla proprio di una sorta di riservatezza che si fa avversione, divenendo un vero “voltare le spalle” all’altro, agli altri.

In questo quadro come parlare di relazioni e di costruzione del sé? Come affrontare le relazioni su cui si sofferma, abbiamo più volte ribadito, il principale interesse dell’Antropologia? Possiamo iniziare, forse, supportati dalle idee di Goffman, affine, in alcuni tratti delle sue ricerche, proprio allo stesso Simmel. Nel 1959 Goffman pubblicò la sua opera più famosa:“La vita quotidiana come rappresentazione”. I suoi studi si dedicarono prevalentemente all’interazionismo simbolico, alla concezione del sé e alla costruzione del significato nella vita sociale. Ispiratosi, anche lui, alla Scuola di Chicago, grazie ad osservazioni minute e ad una rigorosa attenzione per le persone, si dedicò pienamente allo studio delle relazioni umane e alla costruzione del sé attraverso queste e le svariate dinamiche che si mettono in gioco nei differenti contesti, tra cui le città. Teorico di grande importanza, mise in relazione proprio le nuove società urbane e il sé. Era interessato a comprendere quale fosse l’effettivo sviluppo del sé nelle relazioni attuate nelle complesse

109Simmel G. (1903), La vita dello spirito,

La metropoli e la vita dello spirito (a cura di

realtà cittadine.

Dipingendo la città come un vero teatro in cui gli individui mettono in scena svariate rappresentazioni – simulazioni e dissimulazioni – influenzandosi gli uni con gli altri, dove il vero senso del sé? Nella nostra consapevolezza, potremmo azzardare. Ma è una consapevolezza che aumenta o diminuisce a seconda delle circostanze, a seconda del contesto, a seconda, proprio delle stesse relazioni.

Nei fenomeni urbani, le circostanze in cui si fa viva la consapevolezza del sé sono molto differenziate e variano in modo imprevedibile nel tempo. Sconosciuti che ogni giorno attraversano il nostro campo visivo e coi quali non abbiamo relazioni. Persone che, invece, improvvisamente entrano a far parte della nostra vita, mentre altre ne escono altrettanto repentinamente. Una costante evoluzione di rapporti, spesso fittizi che plasmano, nel bene e nel male, il nostro senso del sé, la sua costruzione. Sì, perché la consapevolezza del mio sé è data proprio dalle sue interazioni e con esse si sviluppa. Una sana costruzione del sé nasce e si rafforza proprio attraverso l’esperienza del rapporto con l’altro. Se nella città, però, i coinvolgimenti sociali dell’individuo sono così rapidi e mutevoli, la stessa costruzione del sé sarà complessa e spesso oggetto di riassestamenti.

Oltre a proporre coinvolgimenti sociali rapidi e mutevoli, in parte deboli, la città è anche il luogo in cui facilmente emerge la diversità dei tanti “sé” compresenti.

Di più. Pare che la città la differenza la crei proprio. Gli antropologi, suggerisce Signorelli110, rilevano immediatamente durante le loro osservazioni che i cittadini si percepiscono diversi, vogliono percepirsi diversi, sono spinti a percepirsi diversi. Giudizi e pregiudizi che si incrociano tra loro e producono diversità. Diversità che maturano nel rapporto con gli

altri.

Diversità magari tangibili, ma spesso prodotte dalle città stesse attraverso dinamiche malate, sostenute dalla considerazione di connotati di varia natura: competenze, pertinenze, risorse disponibili. E così il sé si evolve tra tensioni e antagonismi, in una sorta di patologia sociale urbana.

In una patologia dove la città si mostra per alcuni “sé” una vera opportunità e per altri un rischio.

Spazi, ruoli, cultura, percezione di sé stessi e degli altri. Tortuoso percorso dell’io in una società dove, ricordiamolo, regna il pericolo, tra i tanti, dell’omologazione. Tortuosi percorsi del sé tra le diversità prodotte dalle relazioni a loro volta determinate dalle città.

La disciplina antropologica, a differenza delle altre, ci offre, anche per via della sua metodologia, la possibilità di approfondire un ulteriore aspetto della diversità a cui abbiamo fatto cenno in queste pagine. Una diversità sempre più evidente nelle moderne città: quella tra culture, che non sanno, almeno per ora, interagire e coniugarsi in una prospettiva interculturale. Anche questa è una dimensione che presuppone una costruzione del sé. Complessa, ancor di più. Una costruzione che si fa, si dovrebbe fare, convivendo con gli stranieri che affollano le città. Ma una costruzione che spesso, al contrario, produce nuovi confini. Paradossale: gli stranieri superano i confini geografici in cerca di migliori condizioni di vita e trovano insormontabili confini interpersonali. Mixofobia e segregazione, queste le parole del nuovo secolo. E tutto quando la città potrebbe, invece, essere messa nelle condizioni di divenire un laboratorio in cui scoprire, sperimentare e imparare requisiti fondamentali per risolvere – insieme – localmente, i problemi globali. Potrebbe, ma non è.

alle generazioni future un “istinto ad evitare”111, mettendo i figli in scuole segregate, separando nettamente i mondi delle diverse culture.

Mentre il vero sé andrebbe costruito nella prospettiva di un “noi e loro” che l’Antropologia abbraccia come il “qui ed ora”. E il “qui ed ora”, oggetto della nuova Antropologia, presuppone proprio l’indagine di uno “spazio migratorio” in cui il sé si forma in rapporto costante con le diversità che caratterizzano le culture. Nella nuova forma urbana il sé cammina tra un particolare “metissage”, tra continue contaminazioni, ibridazioni, connessioni con le altre culture.

Un sé che vive in prima persona quello che Durand chiama un “tragitto antropologico”112

: fusioni, incontri, “prestiti” culturali quotidiani.

Purtroppo questa prospettiva non porta il cittadino in maniera consequenziale all’assimilazione e all’integrazione, anzi, determina spesso, al contrario, emarginazione ed oppressione dei nuovi arrivati.

Il nuovo schema interpretativo in cui si forma il sé, in cui si plasma l’identità, è quello del “meticciato”, ma questo schema è troppo spesso quello del conflitto e dello scontro.

Tanti “sé” che decidono, dunque, non solo di non mettersi in comunicazione, ma addirittura di porsi l’uno contro l’altro, rimanendo immobili e “immodificabili”, nei confronti degli altri. Senza “rischiare” di arricchirsi, di negoziare tra loro.

Perché questo discorso sul sé che si forma anche nella diversità? Perché questo tema della diversità, delle culture che si incontrano, caro all’Antropologia, oggetto dei suoi studi, analizzato attraverso le pratiche etnografiche che hanno come campo la città, è di particolare rilievo se ci poniamo veramente

111

Bauman Z. (2005), Fiducia e paura della città, Mondadori, Milano cit., p. 76.

112

Durand G. in M. Callari Galli (2007), Mappe urbane. Per un’etnografia della città, Guaraldi universitaria, Rimini, p. 17.

l’obiettivo di una città educativa. Una città educativa che punti alla formazione permanente dei suoi cittadini e delle identità di essi, ha bisogno di puntare all’idea pedagogica di laboratorio anche adottando una politica urbana sensibile ai “loro” che vivono con “noi”, che popolano i nostri territori. Una politica urbana che si faccia guida e agente di cambiamenti significativi, superando problemi concreti, favorendo atteggiamenti criticamente costruttivi, avvicinando i “sé” e “gli altri da sé”, per mettere nelle condizioni di poter interagire e dialogare tutte le diversità che fanno parte della nostra città, creando punti di unione, luoghi di incontro, antropologicamente studiati, pedagogicamente progettati.

5. La città e le sue residenzialità: il contributo