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La nascita di una nuova disciplina: l’Antropologia urbana

4. La città confine di cittadinanza: il contributo dell’Antropologia

4.2 La nascita di una nuova disciplina: l’Antropologia urbana

Vediamo nel dettaglio, allora, il percorso che ha condotto la disciplina prima alla disciplina seconda, l’Antropologia del

lontano all’Antropologia della prossimità, l’Antropologia

primitiva all’Antropologia urbana.

Un percorso frastagliato, non privo di critiche scagliate da più voci internazionali. Un percorso che, si è detto, ha inizio con un incontro: quello tra Antropologia e complessità. E da qui anche

94Sobrero A. M. (1992), Antropologia della città, Nuova Italia Scientifica, Firenze, p. 20. 95

Leroi-Gourhan A. (1995), Où en est l’ethnologie?, in La science peut-elle former

le critiche iniziali: la complessità, infatti, non era per tutti gli studiosi riconducibile e approfondibile dalla disciplina antropologica. Lévi-Strauss, ad esempio, era fermamente convinto che la complessità odierna fosse irriducibile agli strumenti e alle categorie classiche dell’Antropologia, adatta invece solo allo studio delle cosiddette società semplici, come era sempre stato. Per lui l’unica ammissione possibile poteva essere quella di studiare la società complessa/moderna per reperire e approfondire gli aspetti semplici/tradizionali, ancora sottostanti alle nuove società. Quegli aspetti meccanici che in maniera equilibrata e sequenziale si attengono al nesso causa- effetto, evolvendo sempre in un unico modo, mantenendo un rapporto diretto tra variazioni del sistema e variazioni del singolo elemento.96Società primitive e meccaniche, potremmo dire, dallo studioso considerate per questo “autentiche” e opposte alle attuali società “inautentiche”, definite così proprio per via delle relazioni che vi si presentano, ricche di maschere e falsità. Inautentiche sotto tutti gli aspetti, anche nello squilibrio generale tra causa-effetto e proprio per questo indefinibili e incontrollabili dall’Antropologia che, a suo parere, da vera scienza quale è, riconduce il comportamento umano a regole generali e a strutture elementari, come solo nelle società primitive se ne ha piena rispondenza. Per questo, allora, l’Antropologia può soffermarsi solo sullo studio del mondo primitivo o, al massimo, su quel latente mondo primitivo di cui ci può essere riscontro nell’ormai mondo moderno. Si era indubbiamente ancora molto lontani da quel concetto di “rete” che riprenderemo in seguito.

La prospettiva di Lévi-Strauss, ad ogni modo, influenzò a lungo i pensatori degli anni ’50. Anche ammettendo di poter suddividere l’Antropologia in prima e seconda, si diceva, solo alla prima, solo all’Antropologia del mondo primitivo si attribuiva infatti titolo di scienza esatta, mentre all’Antropologia seconda questo

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non era concesso, proprio perché priva di regole come il suo oggetto di studio, priva di principi, di posizioni coerenti, incapace di giungere a forme di comparazione universali e limitata nella sola possibilità di descrivere. Se dunque il nesso tra società primitive e moderne non aveva base, non lo poteva avere nemmeno, secondo molti, un passaggio dall’Antropologia prima all’Antropologia seconda. La stessa Mead sottolineò che l’Antropologia seconda era al massimo “complementare agli studi compiuti da quelle discipline che lavorano solo nell’ambito delle società moderne e mancano dell’illuminazione del confronto e della pratica che

deriva dall’osservare il comportamento degli esseri viventi”.97 Solo a

questo avrebbe potuto contribuire.

Per tutti questi motivi, l’affrancarsi di una disciplina antropologica seconda, o urbana, con una sua riconosciuta scientificità appariva, almeno inizialmente, molto complesso. E più la disciplina antropologica “prima” veniva ricondotta a scienza naturale, più questo riconoscimento appariva lontano. Un primo cambio di rotta arrivò grazie a Nadel. Lui, infatti, avvicinò la disciplina antropologica e il suo procedere, addirittura più all’arte che alla scienza. Questo significava almeno una cosa: non che l’Antropologia seconda fosse suggellata quale scienza esatta, ovviamente, ma che non essendolo, a suo parere, nemmeno quella primitiva, allora l’Antropologia moderna si poteva schierare sullo stesso piano, facendo così parte di diritto della disciplina antropologica ufficiale, come suo consequenziale evolversi in virtù, anche, della moderna complessità. Nadel riteneva inoltre che sia nello studio delle società primitive che in quello delle società moderne, l’antropologo deve essere contemporaneamente abile osservatore del particolare, vero etnografo, ma anche produttore di astrazioni. Il problema sembrava così apparentemente ribaltato.

In realtà c’è bisogno di riflettere ulteriormente, almeno da un punto di vista metodologico. L’Antropologia si basa, lo vedremo ancor meglio nei paragrafi successivi, sull’osservazione. E questo, riflettiamoci, è già un metodo tarato e adatto a piccole comunità. Come avvicinarsi all’emblema della complessità moderna, al nostro oggetto d’indagine, alla città, insomma? Come è possibile entrare in empatia magari con una città di qualche milione di abitanti?

I molti interrogativi affrontati, e ancora aperti, ci portano a sostenere che probabilmente la prospettiva da intraprendere è quella di una disciplina da intendersi né come una sorta di prolungamento, né come una disciplina totalmente nuova. Forse quella dell’indagine urbana produsse davvero un progressivo definirsi di una specializzazione autonoma nell’ambito dell’Antropologia generale. Come altre discipline, come la vicina Sociologia, anche l’Antropologia, dunque, si fece oggetto di specializzazioni.

Come ricorda Sobrero queste sono sempre fasi altalenanti: “il passaggio a una fase successiva lungo questo itinerario non comporta

l’esaurimento della fase precedente”.98 Vi sono perciò continui

riaggiustamenti tra la disciplina generale e una sua particolare specializzazione. Riaggiustamenti e ridefinizioni che, avrebbero contribuito ad un ritardo nello studio dell’Antropologia urbana. Come questo sia vero, anche in un’ottica nazionale, è forse dovuto a due pregiudizi accademicamente ben radicati che vedevano nella città il luogo dello sfruttamento capitalistico e della conseguente alienazione consumistica.

Tra varie traversie, per giungere davvero ad una definizione, possiamo affermare che l’Antropologia urbana è quella disciplina che si occupa“di concezioni del mondo e della vita, di sistemi cognitivi-valutativi elaborati in e per contesti urbani: contesti industriali e postindustriali, capitalistici o postcoloniali o post-realsocialisti o ormai

globalizzati e in procinto di essere virtualizzati”.99

Forti di questa definizione, la città può comunque essere intesa in due modi differenti: o come una variabile indipendente che incorpora chi la abita integrandolo in un sistema di autocondizione oppure, dall’altra parte, la si può considerare essa stessa condizionata dai fenomeni politico-sociali che l’attraversano. Nel primo caso, influenzati dalla visione della Scuola di Chicago, l’Antropologia urbana si concentra sulla città come realtà complessa, concepita “ecologicamente” ed autocondizionante. Nel secondo caso, l’Antropologia urbana si sofferma sui fenomeni, di scala nazionale, ma anche internazionale, che influenzano le piccole – medie – grandi città moderne.

Scuola di Chicago che, oltre in Sociologia, ritroviamo, dunque, per il suo prezioso contributo anche in questo ambito antropologico. Per passare in rassegna molto velocemente le tappe di questa nuova specializzazione antropologica, non si può che partire da lì e dagli anni ’20.

La Scuola di Chicago ebbe, infatti, il merito di tematizzare la città in quanto tale, promuovendola come fattore determinante delle dinamiche sociali. Siamo nel periodo caratterizzato da quella transizione che abbiamo definito dalla Sociologia

all’Antropologia.

Siamo sulla linea di demarcazione Sociologia/Antropologia e alcuni nomi di studiosi risultano fondamentali per una disciplina e anche per l’altra.

I primi passi in questo senso sono, infatti, quelli di Park, e dello stesso Wirth, di un gusto per un’osservazione diretta e partecipante. Tutto forse più legato alla ricerca che alla teoria, ma si è, ribadiamolo, solo all’inizio di un nuovo percorso.

È degli anni ‘50/’60, invece, il nuovo orientamento di ricerca che

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si definì per la prima volta proprio Antropologia urbana. Nuovo orientamento di ricerca che, in realtà, si concentrò sui tradizionali oggetti d’indagine: famiglia, parenti, tradizioni, riti. Oggetti che permettevano di studiare non tanto la città in generale, quanto i contenuti di essa e grazie agli strumenti metodologici classici dell’Antropologia. Quindi non una vera e propria Antropologia della città, ma un’Antropologia nella città, dal merito, indiscutibile, di rintracciare come voleva Lévi- Strauss, le forme tradizionali e il patrimonio culturale, ma col limite di non approdare, proprio per questo, a nuove ricerche. Per arrivare ad un’Antropologia della città, si dovette fare un passo in avanti e concepire la città non più come sfondo, ma come centro della scena, come un insieme di realtà spaziali che generano e creano continui cambiamenti e comportamenti che poi si reidentificano in essi, in quegli stessi atteggiamenti, attraverso una sorta di circolarità.

In Europa, come avevamo precedentemente accennato, lo studio della città ebbe il suo via, paradossalmente, grazie alle situazioni che si verificarono nelle colonie. Gli studiosi che diedero inizio al nuovo filone di ricerca furono quelli che vengono annoverati sotto il nome di Scuola di Manchester. I loro studi compiuti in Africa e in India si concentrarono sul fenomeno dell’immigrazione, sull’esperienza che condusse al trasferimento dal villaggio alla città, causato peraltro proprio dalla situazione coloniale. Una situazione che, però, dagli antropologici britannici non venne problematizzata adeguatamente, ne tanto meno considerata come causa scatenante. E per questo, nonostante la Scuola di Manchester avesse attuato un lavoro innovativo e, secondo molti, più raffinato della scuola americana, anche grazie ad un sofisticato apparato strumentario, quel che fece difetto fu proprio considerare la metodologia e questi strumenti di analisi “neutrali”. Considerare, cioè, non determinante l’appartenenza ad una cultura storicamente data. Il movimento degli immigrati non venne letto alla luce della

situazione coloniale britannica, situazione che rimase solo come sfondo, senza portare ad una reale analisi del contesto, come se la scelta compiuta dagli immigrati fosse assolutamente libera. Il loro oggetto di studi fu sempre il luogo d’origine degli immigrati e mai la referenzialità “cultura bianca/cultura nera”, che era, invece, è chiaro, determinante e influente.

Dopo questi primi e principali filoni - Scuola di Chiacago e Scuola di Manchester - negli anni ’70 la vera svolta, il vero interesse per la città e la decisiva Antropologia urbana. La disciplina si afferma pienamente, tra popolazioni che sempre più lasciano i villaggi per i centri urbani, antropologi investiti dal cambiamento della società, che considerano povertà ed eticità problemi urbani di tutto rispetto. Nasce dunque a pieno titolo l’Antropologia urbana che decide di indagare la complessità nell’ambiente che le è più familiare: la sua città. Nasce un nuovo modo di pensare e di scrutare ciò che è intorno a noi. Un ripensare sé stessi dato grazie alla conoscenza degli altri. E nasce, anche per questo, la network analysis, per studiare proprio come le relazioni sociali sono legate le une alle altre soprattutto in una grande città. Alla base di questo approccio vi è l’idea di

rete. Spieghiamo. Il campo oggetto dei nostri studi è una rete che

rappresenta l’intera vita sociale, una rete che nella società moderna si mostra a maglie larghe: le persone hanno meno amici, meno conoscenze. Questo perché, rispetto al passato, vi è l’impossibilità di conoscere un altro punto della rete se non dopo numerosi passaggi intermedi. È una rete complessa, una rete dove le persone si “combinano e ricombinano” in modi molteplici e in vista di scopi differenti nella città: la rete delle reti. La città è davvero una rete totale e assoluta, dove ognuno sceglie le persone della “sua” rete, creando dei veri e propri “grappoli” nei quali ciascuno è in contatto diretto con tutti gli altri. Per questo, forse, più che una rete totale, come suggerisce

Barnes100, è meglio considerarla una rete di reti101, dove una o alcune possono costituire un modo di vita urbano, mentre nel loro insieme costituiscono l’ordine sociale della città.

L’idea di network analysis mi sembra, al di là della sua specificità, importante per riflettere su due questioni. La prima ci riporta all’idea iniziale di una disciplina, quella antropologica, interessata, a differenza della Sociologia, maggiormente all’individuo, al suo sistema di relazioni e ad un raggiungimento della conoscenza, in senso generale, proprio attraverso lo studio di queste dinamiche interpersonali. La seconda ci conduce già ad un’anticipazione della nostra prospettiva pedagogica: l’idea di creare un’ipotesi di città educativa forte e tale proprio grazie ad una salda rete di relazioni tra servizi, istituzioni, individui. Un territorio che si faccia scenario di molti “grappoli” tra loro interconnessi e uniti da una comune progettualità formativa. Tornando a noi, e per concludere, poniamoci una domanda: come deve essere un’Antropologia urbana in grado, allo stesso tempo, di rimanere sia fedele all’Antropologia generale, suo scenario e suo primo sfondo, sia ai nuovi fenomeni urbani? La risposta risiede, forse, nello spostare l’attenzione su un “qui ed ora” contemporaneamente globale e locale. Nel rinnovato quadro della complessità.

4.3 Studiare il “qui” ed “ora”: l’Antropologia di fronte