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2.4 Le artes dictaminis

2.4.1 Il linguaggio figurato nell’ars dictaminis

2.4.1.4 Brunetto Latini

Rispetto a queste opere tecniche, i cui autori cercavano di conferire al dictamen e a loro stessi che lo insegnavano un ruolo fondamentale e quasi sapienziale, le opere retoriche di Brunetto Latini segnano una differenza sostanziale, tese come sono a rimuovere ogni aspetto religioso da quella che viene caratterizzata come una disciplina laica e civile.268 Artifoni ha proposto

alcune acute considerazioni sulle somiglianze e sulle differenze che corrono tra i tre maestri bolognesi dei primi del Duecento la generazione di metà secolo, i cui principali esponenti sono Brunetto, Bono Giamboni e – con una forzatura cronologica ma in virtù di una comunanza di intenti – Albertano da Brescia. Riassumendo i punti principali avanzati dallo studioso, bisogna dire innanzi tutto che i dictatores bolognesi del primo Duecento erano legati all’ambiente uni- versitario, mentre gli intellettuali laici della generazione successiva erano inquadrati piuttosto in scuole urbane, cancellerie e curie podestarili; in secondo luogo, mentre i primi miravano ad affermare l’autorità e il prestigio di una conoscenza sapienziale, i secondi erano animati da una spinta didattica e divulgativa che mirava a incoraggiare una politica partecipata. In- somma, la grande novità che caratterizza l’operazione degli intellettuali di metà secolo risiede nelle responsabilità educative assunte da questi, che spontaneamente contestualizzavano la vita e le riflessioni del singolo nell’ambito della vita collettiva e cittadina e che promuovevano una comunanza di valori, mentre i predecessori agivano piuttosto come sapienti isolati o come professori.269

La Rettorica, volgarizzamento distesamente commentato dei primi 17 capitoli del De inven- tione, e poi l’epitome che lo stesso Brunetto ne fece con il terzo libro del Tresor, intraprendono

267Faulhaber, The Summa, pp. 107-8.

268L’autore e le sue opere hanno ricevuto grandissima attenzione da parte degli studiosi: buona parte della

bibliografia è riassunta e commentata in Bolton Holloway, Brunetto Latini e Ceva, Brunetto Latini e da ultimo dalla voce per il DBI curata da Giorgio Inglese. La Rettorica è stata pubblicata da Maggini, il Tresor da Carmody ma più recentemente da Beltrami. Gli studi che si sono rivelati più utili per le pagine seguenti sono Davis, Bru- netto Latini; Witt, Brunetto Latini; Crespo, Brunetto Latini; Alessio, Brunetto Latini; Bartuschat, La Rettorica; Bartuschat, Appunti sulla concezione; Artifoni, Una politica; Mabboux-Sutton, Etre auteur.

l’ambiziosissima operazione di diffondere l’opera di Cicerone, modernizzandola, fondendola con la recente retorica del dictamen e, tramite il volgare, rendendola accessibile a un più vasto pubblico.270 Se fino ad allora l’istruzione in latino era impartita per lo più da insegnanti pri-

vati chiamati doctores puerorum e il livello secondario era completamente in mano alle scuole clericali dipendenti da cattedrali e conventi, la carriera di Brunetto attesta un primo stabilirsi di un percorso di insegnamento notarile.271

Prima di scriverne, Brunetto aveva praticato le arti politiche e retoriche: già nel 1254 era scriba del Consiglio degli Anziani e Cancelliere del comune fiorentino, e nel 1260 era l’am- basciatore scelto dal governo guelfo per un accordo con Alfonso x di Castiglia; fu di ritorno dall’ambasciata fu colto dalla notizia di Montaperti e del bando imposto ai guelfi, e rimase perciò in esilio in Francia per sei anni, durante i quali compose la Rettorica e il Tresor. Al suo ritorno a Firenze nel 1266 ricominciò l’attività politica, diventando notaio ufficiale del gover- no di Carlo d’Angiò e scriba dei consigli e della cancelleria del comune; nel 1289 il podestà lo scelse come arringatore per spingere i fiorentini alla guerra contro Arezzo. Davis sintetizza che «the documents containing evidence of his political activity indicate that he possessed considerable influence but not outstanding authority».272 Forse più che come uomo politico,

Brunetto ebbe fama di essere «gran filosafo, e sommo maestro in rettorica» e «dittatore del nostro Comune», nonché di «cominciatore e maestro in digrossare i Fiorentini, e farli scorti in bene parlare, e in sapere guidare e reggere la nostra repubblica secondo la Politica».273

La Rettorica, infatti, è non solo la prima traduzione in volgare di Cicerone, ma è anche il primo commento in volgare di un testo classico: per la prima volta grazie a Brunetto la pratica del commento uscì dalle scuole e dalle università per farsi strumento di istruzione laica e volgarizzata.274 Nell’opera, come noto, l’autore distingue due figure:275

270Sull’operazione di sincretismo tra precetti ciceroniani e ars dictaminis, scrive Maggini: «quello che la sa-

pienza antica aveva insegnato sull’eloquenza è da lui ripreso, adattato alla società de’ suoi tempi, esteso all’Ars dictandi affinché la dottrina medievale si ricongiunga col vivificato classicismo. Non si contenta più delle Summe, dei Dictamina consueti, ma vuol ricorrere direttamente al principe della Rettorica» (La «Rettorica», p. 71), il che per Nencioni è «chiara istanza di classicismo» (Dante e la retorica, p. 101).

271Davis, Brunetto Latini; ma lo stato dell’istruzione a Firenze prima e durante l’attività di Brunetto è stato rico-

struito in maniera più aggiornata e dettagliata da Faini, Prima di Brunetto: «gli studiosi convergono su un punto: durante l’infanzia di Brunetto, cioè negli anni Venti e Trenta del Duecento, la formazione grammaticale e retorica disponibile per i laici si riduceva all’alfabetizzazione di base e, al massimo, a un corso superiore, probabilmente da mettere in relazione con la preparazione dei notai» (p. 5).

272Davis, Brunetto Latini, p. 432, che riprende argomentazioni di Ceva, Brunetto Latini, pp. 56-7. 273Giovanni Villani, Nuova cronica, ix, 10.

274Bartuschat, La Rettorica, p. 33. Scrive Beltrami a proposito del Tresor che «destinatario è prima di tutto

quella categoria di persone che nell’Italia comunale del Duecento gestivano professionalmente incarichi pubblici, in particolare i podestà che i comuni assumevano, chiamandoli da fuori, per reggere al di sopra delle parti il governo della città per un anno, o anche solo per sei mesi. Ma lo sguardo si allarga al tempo stesso ad un pubblico sovranazionale di laici: è rivolta a questi ultimi la scelta di scrivere in francese, cioè non in latino, lingua tradizionalmente elettiva della cultura e dei chierici, ma nella lingua volgare che all’epoca aveva già la più ampia circolazione in Europa e una tradizione già consolidata nella prosa» (Beltrami, Introduzione, p. viii).

275Sul tema dell’auctoritas ciceroniana e sull’atteggiamento di Brunetto a tal proposito si sofferma in particolare

L’autore di questa opera è doppio: uno che di tutti i detti de’ filosofi che fuoro davanti lui e dalla viva fonte del suo ingegno fece suo libro di rettorica, ciò fu Marco Tulio Cicero, il più sapientissimo de’ Romani. Il secondo è Brunetto Latino, cittadino di Firenze, il quale mise tutto suo studio e suo intendimento ad isponere e chiarire ciò che Tulio avea detto; et esso è quella persona cui questo libro appella sponitore, cioè ched ispone e fae intendere, per lo suo propio detto e de’ filosofi e maestri che sono passati, il libro di Tulio, e tanto più quanto all’arte bisogna di quel che fue intralasciato nel libro di Tulio, sì come il buono intenditore potràe intendere avanti. [...] E che lo titulo sia buono e perfetto assai chiaramente si dimostra per effetto d’opera, ché sanza fallo recato è in volgare il libro di Tulio e messo avanti in grossa lettera, sì come di maggiore dignitade, e poi sono recati in lettera sottile e’ ditti di molti filosofi e llo ’ntendimento dello sponitore.276

Nonostante la grande ammirazione nei confronti del Cicerone oratore, politico e pensatore, Brunetto si propone dunque di ampliare la sua dottrina, e allega fin da subito le auctoritates da cui trarrà spunto nel suo commento: oltre ad altre opere ciceroniane e a un’acuta osserva- zione personale, i riferimenti principali saranno Boezio e Vittorino, spesso citati ma forse non consultati di prima mano. Alessio ha dimostrato infatti che la Rettorica manifesta notevole prossimità con un commento anonimo al De inventione, prodotto probabilmente in Italia nella prima metà del XII secolo.277 Non è facile capire se a Bologna nella prima metà del Duecento

la lettura commentata delle due Retoriche ciceroniane fosse parte del programma di insegna- mento della retorica – e le sprezzanti affermazioni di Boncompagno circa il disinteresse nei confronti di Cicerone sembrerebbe negare l’ipotesi;278 ma secondo Alessio Bene da Firenze

conosceva questo commento, e lo utilizzava nel suo insegnamento. Se Brunetto fosse stato suo studente negli anni ’30 del Duecento, attraverso Bene avrebbe potuto entrare a contatto con questo testo, che avrebbe tenuto presente quando, durante l’esilio francese, compose la Rettorica.279

276Brunetto Latini, La Rettorica, pp. 6-8.

277È tradito dal ms. Oxford, Bod. MS Canon. Class. 201 (S.C. 18, 782), per cui cfr Dickey, Some commentaries;

il testo del commento è pubblicato in tavola sinottica con la Rettorica da Alessio, Brunetto Latini, pp. 20-64.

278«[...] quie rhetorica compilatam per Tullium Ciceronem iudicio studentium est cassata, quia numquam or-

dinarie legitur, immo tamquam fabula vel ars mechanica latentius trancurritur et docetur» (Boncompagno da Signa, Rhetorica novissima, prologo). Un contesto più ampio e dettagliato, però, si trova in Witt, Boncompagno, pp. 17-9, ma si veda anche Bruni, Boncompagno da Signa, pp. 47-50: «il provocatorio anticiceronianismo di Boncompagno, che stupisce veder giudicato non di rado come il frutto di un supposto spirito critico, e perciò pre- corritore dell’Umanesimo (ben altro sarà l’atteggiamento di Petrarca verso Cicerone), è un fenomeno isolato nella scuola duecentesca di retorica, e dipende dalla spregiudicatezza con cui Boncompagno conduce la sua campagna autopropagandistica, secondo il costume dei maestri del tempo. Ma, in modi più velati, riserve non secondarie sull’attualità delle due retoriche ciceroniane, in rapporto ai fini della scuola del dictamen, provengono anche da autori come Bene da Firenze o Brunetto Latini, sicché, ribellandosi, Boncompagno esprime in modo clamoroso un atteggiamento indipendente di cui non mancano altri esempi nella trattatistica retorica» (p. 50).

279Ivi, pp. 13-9; alle pp. 67-76 Alessio procura anche una tavola sinottica dei passi di Rettorica e Candelabrum

Le artes dictaminis e poetriae si ispiravano in larghissima misura alle opere di Cicerone, ma tendevano a trascurare la funzione politica della retorica deliberativa, a cui Brunetto assegna invece la massima importanza. Per il maestro fiorentino la retorica appartiene alla scienza politica – giusta anche la sovrapposizione tra “retore” e “rettore” –, ed è anzi la più importante delle discipline:280 come riassume Davis, «for Brunetto, education in general and rhetorical

education in particular was a preparation for politics».281 Viceversa, dalle artes la Rettorica

derivava l’equiparazione tra oratoria e scrittura epistolare, che allargava la concezione della seconda disciplina del trivio rispetto all’insegnamento di Cicerone;282Brunetto afferma infatti

che «Rettorica èe scienzia di due maniere: una la quale insegna dire, e di questa tratta Tulio nel suo libro; l’altra insegna dittare, e di questa, perciò che esso non ne trattò così del tutto apertamente, si nne tratterà lo sponitore nel processo del libro, in suo luogo e tempo come si converrà».283

L’applicazione forzata dei precetti ciceroniani al discorso scritto e dunque all’epistolografia creava però non poche difficoltà e contraddizioni, analizzate mirabilmente da Witt; l’incapacità di risolvere questa tensione potrebbe essere una delle ragioni principali per le quali la Rettorica fu interrotta.284Il Tresor, recuperando lo stesso materiale messo a frutto nell’allestimento della

Rettorica ed evitando gli snodi più problematici, distingue tra una definizione inclusiva della

280«La terza scienza, cioè politica, si ’nsegna fare e mantenere e reggere le cittadi e le comunanze, e questa, sì

come davanti è provato, è in due guise: cioè in fatti et in detti [...] Quella maniera ch’è in fatti sì sono l’arti e’ magisterii che in cittadi si fanno, come fabbri e drappieri e li altri artieri, sanza i quali la cittade non potrebbe durare. Quella ch’è in detti è quella scienzia che ss’adopera colla lingua solamente; et in questa si contiene tre scienze, ciò sono Gramatica, Dialettica, Rettorica» (Brunetto Latini, La Rettorica, pp. 47-8). Ancora più esplicito il Tresor: «Rethorique est une science qui nos enseingne bien pleinement et parfaitement dire es choses comunes et es privees; et toute sa entencion est a dire paroles en tel maniere que l’en face croire ses diz a çaus qui les oient. Et sachés que rethorique est desouz la science de cité governer, selonc ce que Aristotes dit et son livre qui est translaté ça en errieres en romains» (Brunetto Latini, Tresor iii, ii, 1-2).

281Davis, Brunetto Latini, p. 427.

282«In embarking on the commentary to his translation of the De inventione, Brunetto probably considered it

an easy task to interpret Cicero’s teachings specifically as they would effect letter writing. He had no quarrel with the basic tenets of ars dictaminis, the medieval technique of letter writing, but he was concerned with situating it within the larger field of rhetoric as defined by Cicero. For nearly two centuries the dictatores in their manuals had, almost without exception, accepted unquestioningly the relevance of the De inventione and the Ad Herennium for the composition of letters. But they were an eminently practical lot, given to providing instrucition with a minimum of theoretical considerations, and no one before Brunetto appears to have paid more than cursory attention to defining the nature and function of the letter. Convinced of the usefulness of Cicero’s treatise for communicatin in his own day, and forced to comment on the theoretical discussion found in the opening chapters of the ancient text, Brunetto was led to explore the implications for ars dictaminis and thus offer the first and last detailed analysis in the Middle Ages of the letter as a form of communication» (Witt, Brunetto Latini, pp. 7-8).

283Brunetto Latini, La Rettorica, pp. 3-4. Si veda anche il Tresor: «mes ce que l’en dit de bouche, ou que il

mande penseement par ses letres por faire croire ou por contencion de loer ou de blasmer, ou de consoil avoir sur aucune beseingne, ou de chose qui requiert jugement, tot ce est la matire de rethorique [...] Or dit li maistres que la science de rethorique est en .ii. manieres, une qui est en disant de boche, et une autre que l’en mande par letres; mes lin enseignement sont comun, car n’en puet chaloir que l’en die un conte, ou que il le mande par letres» (Brunetto Latini, Tresor iii, ii, 7; iv, 1).

284«Brunetto clearly considers a letter to be as formal or artistic as a speech. By the last section of the work

he seems to be suggesting inconsistently that there are really two rhetorics, one for speeches and the other for letters». È la tesi di Witt, Brunetto Latini, p. 15 abbracciata anche da Artifoni, Retorica e organizzazione, p. 159.

retorica come scienza pertinente a ogni argomento – la posizione di Gorgia e Boezio – e una definizione più ristretta, che limita l’ambito allo sviluppo delle controversie – sostenuta da Aristotele e Cicerone. Brunetto propende infine per quest’ultima, e afferma che se manca ogni conato persuasivo la composizione appartiene al discorso comune. Il problema, sollevato nella Rettorica, dell’adeguamento delle sei parti dell’orazione alle cinque parti dell’epistola teorizzate dai dictatores viene liquidato come contraddizione apparente; Witt ne conclude che «discretely veiling the difficulties involved in identifying closesly speech and letter, the Tresor establishes by a direct and consistent route the claim that letters can make full use of Cicero’s instruction. The Tresor, consequently, realizes the original theoretical goal of the Rettorica to underwrite modern usage with ancient authority».285

Mentre la Rettorica, rimasta incompleta, si concentrava quasi solo su questioni di natura ge- nerale e definitoria e sull’inventio, il Tresor dedica meno spazio ai problemi teorici che avevano causato l’interruzione della prima opera e segue in maniera più fedele e sistematica lo svilup- po della retorica ciceroniana. Dopo l’inventio e la dispositio, con i consueti problemi dell’ordo artificialis e naturalis e con il recupero delle dottrine dell’ampliatio e dell’abbreviatio elaborate dalle artes poetriae (e soprattutto da quella di Goffredo di Vinsauf), Brunetto si sofferma sulle parti del discorso, e in particolare sul prologo e sulle strategie da impiegare per ottenere diversi effetti sul lettore; il Tresor prosegue poi con un esame degli argomenti da scegliere e dei mo- di in cui svilupparli, e affronta le teorie dell’argomentazione e della confutazione. A dispetto della profonda riflessione sulla natura del discorso e sul ruolo civile ed educatore della parola, a tratti riemerge in Brunetto un’idea più esornativa della parola – che è però comunque al servizio della persuasione retorica; ad esempio, si legge che «quant la matire est vil et petite et que li oieres ne bee pas a ce se poi non, lors covient il que ton prologue soit aornez de tels paroles que li donent talent d’oïr, et qui enhaucent ta matire et l’ostent de sa viltance (iii, 21). Dato che il De inventione ciceroniano non si soffermava sui precetti stilistici che erano invece affrontati con dovizia di dettagli nella Rhetorica ad Herennium, Rettorica e Tresor offrono in definitiva pochissimi elementi in materia di linguaggio figurato.

Come si è detto, infatti, Brunetto abbandona nell’opera francese il tentativo di applicare al dictamen le categorie dell’orazione elaborate da Cicerone, limitandosi a riflettere su queste ultime e non lasciando molto spazio alle norme epistolografiche prese singolarmente. Il Tresor si presenta allora, ancor più della Rettorica, come tentativo di ridare vita agli insegnamenti classici attraverso una loro immersione nel contesto contemporaneo, che in questo caso prende la forma della giustapposizione tra i precetti retorici ciceroniani e le dottrine politiche elaborate dal Liber de regimine civitatum di Giovanni da Viterbo e dall’anonimo Oculus pastoralis.

La moda classica trovò diversi adepti nella seconda metà del Duecento, quando alcuni no- tai e maestri di grammatica e retorica si diedero a volgarizzare antichi manuali di retorica ed

estratti di orazioni ciceroniane – e lo stesso Brunetto vi contribuì, oltre che con le due opere appena discusse, con il volgarizzamento della Pro Ligario, della Pro Marcello e della Pro rege Deiotaro.286 Prima del già ricordato Jacques de Dinant, che promosse un ritorno al trattato

pseudo-ciceroniano come solida base per la dottrina epistolografica, Bono Giamboni dedicò le sue cure alla Rhetorica ad Herennium, parzialmente volgarizzata tra il 1258 e il 1266, dunque negli stessi anni in cui furono composte le due opere Brunetto. Il Fiore di rettorica, a lungo attribuito a fra Guidotto da Bologna, può vantare nelle sue quattro redazioni una notevole fortuna manoscritta.287 L’opera non ha certo i caratteri di ambizione e originalità che contrad-

distinguono il progetto di Brunetto, ma non è né una semplice traduzione né una pedissequa parafrasi, e anzi si prende non poche libertà nel sovvertire l’ordine dell’originale erenniano e nel tagliarne vaste porzioni; secondo l’editore Speroni, «sembra che Bono abbia voluto privi- legiare quanto, nell’Ad Her., pareva offrirsi come complemento del De Inv., senza per altro che ci si possa spingere a supporre che egli abbia concepito la sua impresa a integrazione della (coeva?) attività brunettiana sul trattato ciceroniano dell’arte vecchia».288

In tutte le redazioni, l’argomento con cui si apre il testo è l’elocutio, che ricava la sua centra- lità dalla preferenza accordata al criterio stilistico. L’aspetto formale non ha però la meglio su quello contenutistico, se fin dal prologo Bono ribadisce il principio della necessaria concordan- za tra favella e senno; ma poiché quest’ultimo non può essere insegnato, il Fiore si concentra su «come si possono ornare le parole, e quali sieno le gravi e belle sentenzie onde si rende la diceria piacevole e bella» (vii, 3-4), dispiegando un atteggiamento didattico che ambisce a esaurire la dottrina stilistica: «e se porrete ben mente al detto mio, neuna ornata parola udi- rete porre, neuna grave sentenzia udirete fare nella diceria d’alcuna persona che non sappiate dire il nome suo, e conoscere se sarà ben fatta a ragione; e voi medesimi le vi saprete fare, quando avrete usato di dire» (6-10). I colores della Rhetorica ad Herennium vengono tradot- ti in modo piuttosto disordinato e semplificati, spesso accorpando e per lo più ignorando le rigide classificazioni che la retorica medievale aveva invece cristallizato; le definizioni vengo- no corredate di esempi che dànno moltissimo spazio al mondo comunale e podestarile. Bono