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2.3 Il ii libro del De vulgari eloquentia

2.3.2 Un’ars poetica volgare?

Definendo l’impostazione complessiva del De vulgari, diversi studiosi, come Folena, hanno messo in luce le diverse dottrine che concorrono a nutrire l’impresa dantesca:

il De vulgari eloquentia è in primo luogo un’arte del dire in volgare, e par- ticolarmente del dire in rima nel bello stile, lo stile tragico, che Dante delimita e restringe nel supremo modello della canzone: quindi una rhectorica et poetria Dantis. Ma questa retorica e questa arte poetica, che noi diremmo oggi stilistica letteraria, hanno profonde radici nell’altra più umile arte del Trivio, la prima, la grammatica. Dante si muove fino a un certo punto da grammatica a retorica, in un circolo che si concentra sempre più intorno a quest’ultima; e questo avere per così dire i piedi nella grammatica e la testa nella retorica, se può confondere talora le idee, costituisce anche l’aspetto più nuovo, suggestivo e problematico dell’opera.46 46Folena, Dante e la teoria, p. 200. Cfr anche Ricci, Mengaldo, De vulgari eloquentia, in ED: «ma è neces-

sario insistere sul fatto che, nel concreto della tematica e della terminologia (spesso costruita su elementi biblici e comunque della tradizione religiosa medievale), il De vulgari eloquentia si muove totalmente nell’ambito della cultura retorica recente, mettendone come s’è visto a frutto entrambe le correnti dominanti, quella dell’ars dicta- minis e quella delle poetriae. Alla prima l’opera di Dante è legata dalla sua stessa struttura formale, in una prosa latina elaborata secondo i canoni dettatori (vedi ad esempio il cursus), nonché dal progetto di una trattazione pure del volgare prosastico (mentre, come si è accennato sopra, anche allo stato attuale il De vulgari eloquentia mostra chiari segni di una problematica retorica che abbraccia insieme poesia e prosa); alla seconda chiede soprattutto una legittimazione del suo programma fondamentale di regolamentazione retorica della poesia, e addirittura poe- sia volgare, di cui va esattamente valutata l’audacia culturale all’interno di una tradizione retorica come quella italiana che, in quanto strettamente legata al diritto e d’altra parte alla pratica politica comunale, era dominata dall’interesse per la prosa e l’eloquenza civili. Del resto proprio la questione dei rapporti prosa-poesia, e della

In questa compresenza di ispirazioni grammaticali e retoriche, il De vulgari è stato spesso acco- stato alle prime grammatiche volgari composte in ambito provenzale, ossia le Razos de trobar di Raimon Vidal e il Donatz proensals di Uc Faidit, composte rispettivamente nei primissimi anni e intorno alla metà del XIII secolo – e in effetti le somiglianze sono significative.47 Il pro-

logo del trattato dantesco non può non ricordare da vicino quello di Raimon, che si impegna a insegnare ai suoi lettori la «dreicha parladura» e che consiglia all’«homs prims» di confor- marsi alla parlata più nobile dell’area gallo-romanza, il Limosino.48 Ma imparare la lingua, per

questi autori, significa non tanto imparare una dottrina d’eloquenza, quanto la grammatica – e di passaggio possiamo notare che anche in queste opere il concetto di “grammatica” coin- cide con quello di lingua latina, in opposizione al volgare – soprattutto a livello di fonologia, morfologia e sintassi.49

I trattati provenzali non sono composti per tutti, ma principalmente a uso dei poeti, e dun- que il modello linguistico a cui tendono è quello della lirica trobadorica e non quello del- la lingua di tutti i giorni: l’operazione di Raimon Vidal si regge sull’idea che la competenza grammaticale permetta di perseguire l’equilibrio e la bellezza in poesia, e che dunque le licen- ze linguistiche che servono a facilitare la composizione poetica da parte di chi ha una scarsa padronanza della lingua vadano a detrimento della qualità letteraria.50 Tale competenza gram-

maticale non è meramente tecnica, ma si estende a considerazioni più generiche di proprietà linguistica e buon senso talvolta vicine a quelle che animano il xxv capitolo della Vita nova: in un passaggio, ad esempio, Raimon critica Bernart di Ventadorn per essersi contraddetto all’in- terno della stessa poesia.51 Ma anche quando commenta i poeti, il catalano si mostra piuttosto

estemporaneo che sistematico, e comunque ben lontano dal rigore e dalla razionalità del libello giovanile di Dante, per non parlare del progetto del De vulgari: il semplice adattamento delle

relativa gerarchia di merito, già posta nella recente tradizione retorica (da Boncompagno a Bene e a Brunetto), con riflessi anche nella cultura letteraria volgare [...] ha un posto cospicuo nella riflessione di Dante in questi anni».

47Le opere sono edite entrambe da Marshall (The “Donatz proensals”; The “Razos de trobar”); uno studio

complessivo sulle arti poetiche medievali in volgare è in Gómez Redondo, Artes poéticas. Santangelo ha difeso l’ipotesi di una diretta conoscenza delle Razos de trobar da parte di Dante, individuando anche un manoscritto che sarebbe stato accessibile all’autore del De vulgari durante il suo soggiorno bolognese (Dante e i trovatori, pp. 87-115); su somiglianze e differenze tra le opere di Raimon e di Uc e il De vulgari si concentra anche Shapiro, De vulgari, pp. 100-12.

48«Tot hom prims qe ben vuelha trobar ni entendre deu ben aver esgardada et reconoguda la parladura de

Lemosin et de las terras entorn, en aisi con vos ai dig en aqest libre; et qe la sapia abreuiar et alongar et variar et dreg dir per totz los luecs qe eu vos ai dig, et deu ben gardar qe neguna rima que li aia mestier non la metta fora de sa proprietat ni de son cas ni de son genre ni de son nombre ni de sa part ni de son mot ni de son temps ni de sa persona ni de son alongamen ni de son abreuiamen» (Marshall, The “Razos”, p. 22, rr. 443-50).

49L’importanza della morfologia in queste due opere, e il rapporto di questa con la tradizione grammaticale

latina, sono oggetto di analisi in Swiggers, Les premières e in Laugesen, Las Razos, pp. 87-9 (quest’ultimo articolo propone anche alcuni paralleli tra Raimon Vidal e Dante). L’autonomia dal modello latino si avrà solo alla fine del XIII secolo, con le Regles de trobar di Jofre de Foixà, vera e propria grammatica precettiva in volgare dedicata agli aspiranti trovatori.

50Martos, La gramatización, p. 137. 51Swiggers, Norme et usage, p. 870.

categorie grammaticali latine al volgare romanzo è operazione nuova in relazione all’oggetto, ma dal punto di vista del metodo e dell’impianto solo passivamente ricalcata sull’insegnamento grammaticale più elementare.

Un secolo dopo le Razos di Raimon Vidal – ossia dopo un periodo in cui si percepisce una crisi della poesia che anima tanto la precettistica volgare di quest’ultimo quanto quella latina di Eberardo il Tedesco52 – la grande fioritura della lirica italiana fa sì che Dante non avverta

questa stessa urgenza di una codifica della norma grammaticale a uso dei poeti, e anzi ricono- sca come già stabilita una tradizione lirica che ha raggiunto le vette del volgare illustre.53 Per

questo, forse, non si preoccupa di mettere mano a una vera e propria grammatica, che pure mancava per l’italiano, ma sceglie di occuparsi principalmente di questioni di poetica (almeno per la parte che ci è rimasta: possiamo supporre che nel piano originale dell’opera, avendo annunciato che si sarebbe dedicato anche ai volgari municipali, sarebbero state incluse anche questioni più semplicemente linguistiche e morfologiche). Le grammatiche provenzali aveva- no un orizzonte limitato in partenza, incentrate com’erano su un’unica lingua: a Dante doveva essere più congeniale la ricerca di un modello stilistico e letterario universale, che potesse, al contrario, riunire le giovani letterature delle tre lingue romanze.

Se è questo il cuore del progetto del De vulgari, si capisce come i due libri del trattato, ap- parentemente così diversi, siano in realtà profondamente saldati tra loro. Rosier-Catach sotto- linea giustamente che se nel primo libro l’attenzione di Dante si concentra, attraverso consi- derazioni filosofiche e notazioni empiriche, sull’opposizione tra un parlare naturale, variabile e di tutti da un lato, e un modo di espressione regolato, riservato ai letterati e immutabile, il volgare illustre si va configurando come una terza via, appartenente al genere delle parlate volgari ma capace di essere norma universale, sebbene non sfugga alla variazione.54 La nuova

unità linguistica realizzata dal volgare illustre, restaurazione di quella pre-babelica, non si co- struisce dal nulla, ma si fonda sulla prassi poetica dei migliori versificatori della penisola:55 la

giustificazione filosofica del volgare illustre è inscindibile dalla sua codificazione poetica, per- ché solo una lingua così nobile merita di essere inquadrata normativamente e, al contempo,

52Così argomenta Martos, La gramatización, pp. 141-5.

53«Si guardi alle grammatiche e retoriche provenzali, mosse da esigenze affini a quelle dantesche: ciò che le

mantiene decisamente al di qua del De vulgari non è tanto la frammentazione delle auctoritates in altrettanti esempi di correttezza grammaticale e formale – di contro alla globalità etico-stilistica della nozione dantesca di modello letterario –, quanto il carattere storicamente inerte e astratto del canone degli autori. Il fatto è che Dante non si limita a inventariare post festum l’eredità di una cultura, ma se ne costituisce parte in causa, elemento dinamico di un suo divenire ancora pienamente in atto, anzi incipiente. Per cui nel De vulgari costituzione di un canone, ricostruzione storiografica e atteggiamento critico “militante” si implicano a vicenda. Anche da questo punto di vista il trattato dantesco è veramente la coscienza critica dello Stilnovo» (Mengaldo, Introduzione, p. 15).

54Rosier-Catach, Présentation, pp. 12-5.

55«Le traité forme bien un tout : le vulgaire illustre se construit à partir des productions poétiques excellentes,

qui elles-mêmes s’étaient élevées au-dessus des constructions grossières et des accents paysans (i, xvii, 3)» (Ivi, p. 59)

solo un canone di testi eccellenti può garantire l’esistenza di tale universale linguistico.56 Con-

siderazioni simili spingono Pinto a dichiarare che il ii libro del De vulgari «non è un trattato di “retorica”, ma un trattato di “filosofia della retorica”, che estende alla metrica della poesia lirica le nozioni teoriche circa la ‘nobiltà’ assiomatizzate nel iv Trattato del Convivio».57

Ci troviamo dunque alla confluenza di moltissime, diverse tradizioni: innanzi tutto quella linguistico-grammaticale, che avvicina il De vulgari non solo alle grammatiche provenzali, ma anche alla grammatica classica, se è vero che l’incipit è ricalcato su quello delle Institutiones di Prisciano, come nota Mengaldo nel suo commento. Ma anche geolinguistica, sociolinguistica e filosofia del linguaggio, insieme alla storia sacra, formano il nocciolo dei riferimenti culturali del i trattato, che potrebbero apparire perciò sproporzionati se confrontati con le questioni di retorica, stile, lessico e tecnica compositiva che animano quel che resta del ii libro.58 Qui

Dante dichiara subito di ispirarsi alla tradizione delle artes poetriae e al magistero oraziano: prima enunciando il principio alla base dell’inventio, ossia quello di scegliere una materia pro- porzionata alle proprie capacità, e poi connettendolo con l’elocutio, nella forma particolare dell’adeguamento dello stile alla materia scelta. Ma tutte queste questioni pratiche e di tec- nica poetica vengono affrontate tralasciando ogni tentativo di una trattazione sistematica e definitoria:59 nonostante il principio regolatore sia quello, eminentemente normativo, della

convenientia, nel momento in cui le regole dell’arte vengono stabilite a partire dall’osservazio- ne dei poeti e per mezzo di esempi viene contemporaneamente concessa un’eventuale licentia che gli stessi poeti canonici autorizzino: «vide igitur, lector, quanta licentia data sit cantiones poetantibus, et considera cuius rei causa tam largum arbitrium usus sibi asciverit; et si recto calle ratio te duxerit, videbis auctoritatis dignitate sola quod dicimus esse concessum» (Dve ii, x, 5).60

56E ha notato Mengaldo che «questa costante integrazione del discorso filosofico al discorso retorico, e quindi

della necessità razionale della logica e metafisica all’empiria dei precetti stilistici, non è meno importante per il fatto che ubbidisce a un costume intellettuale abbastanza diffuso nel Medioevo, quale era stato in particolare applicato alla cosiddetta “grammatica speculativa”» (Introduzione, p. 13). Ma sull’influenza della grammatica speculativa sul De vulgari i critici tendono ormai a essere scettici: i principali argomenti sono riassunti da Tavoni nella sua Introduzione.

57Pinto, Il ii libro, p. 56.

58Ma «contrairement à ce que soutiennent certaines interprétations, il est clair que cette “doctrine” de l’élo-

quence en vulgaire ne se réduit pas à une rhétorique : dans le premier livre, le propos est bien plus général et universel, et dans le second les règles relèvent également d’une grammaire (mais de façon très minimale, lorsque Dante aborde le “degréde construction le plus excellent” en ii, vi, 5-6 [...]), d’une rhétorique, d’une stylistique et d’une poétique» (Rosier-Catach, Glossaire, p. 285).

59Scott suggerisce che Dante probabilmente dava per scontato che i suoi lettori conoscessero le norme della

trattatistica, e che, al tempo stesso, per i suoi più ampi interessi non c’erano modelli a cui guardare: «in the absence of models, Dante sets out to establish an authoritative tradition of his own by illustrating and analyzing the great examples identified by him in the field of the Romance lyric, while at the same time urging his readers to study the Latin tradition – all this, not encased in a system of abstract rules, but inspired by the practice of the greatest writers» (Understanding Dante, p. 45).

60«Tutta la trattazione mostra la consapevolezza che è necessario lasciare la più ampia libertà al poeta per una

schietta attuazione della sua arte volgare: libertà però ispirata dalla ratio, che si concreta nelle regulae generali ritrovate, come per la grammatica, così anche per la retorica e per la poetica, dalla sapienza antica, che per Dante comincia con Aristotele (Conv. iii, viii, 10), e in quelle particolari risultanti dalla più perfetta tradizione d’arte

Dunque come avveniva nelle poetrie, questa sezione del De vulgari si rivolge essenzialmente al poeta e mira a istruirlo in vista della composizione; nel trattato di Dante l’ars non viene intesa però come sistema di regole, ma piuttosto come la capacità di realizzare, attraverso una tecnica, quel fine particolare che è la poesia. Per questo le parlate naturali devono essere sottoposte all’arte, in ossequio al modello de poeti regolari latini e dunque abbandonando l’idea di poetare «casualiter» (ii, iv, 1), e per questo anche l’opera dottrinale di Dante deve fondarsi sull’imitazione delle poetrie degli auctores:

Revisentes igitur ea que dicta sunt, recolimus nos eos qui vulgariter versifican- tur plerunque vocasse poetas: quod procul dubio rationabiliter eructare presump- simus, quia prorsus poete sunt, si poesim recte consideremus; que nichil aliud est quam fictio rethorica musicaque poita. Differunt tamen a magnis poetis, hoc est regularibus, quia magni sermone et arte regulari poetati sunt, hii vero casu, ut dictum est. Idcirco accidit ut, quantum illos proximius imitemur, tantum rec- tius poetemur. Unde nos doctrine operi intendentes, doctrinatas eorum poetrias emulari oportet (ii, iv, 2-3).

Il De vulgari, per quanto si ponga l’obiettivo di fornire delle regole universali per la compo- sizione poetica, non ha in realtà una natura veramente didattica, e anzi, è più vicino a una sistemazione storiografica di un’esperienza letteraria personale e di una tradizione di cui egli si sentiva parte e vertice. La maggior parte delle valutazioni sono costruite a posteriori: come giudizio storico del poeta, o perfino come assimilazione di una valutazione culturale preesi- stente – come ad esempio accade con uno degli argomenti in supporto della superiorità della canzone, che è quello della testimonianza dei manoscritti, che mostrano una maggior cura nel conservare le canzoni rispetto alle altre forme metriche.61 A questa fondamentale differenza

di impostazione si aggiungono varie integrazioni e innovazioni a livello di singoli aspetti del- la dottrina, complice soprattutto l’apporto dell’ars dictaminis; il risultato è un’opera che, nel momento in cui si propone di emulare le «doctrinatas poetrias», le sta già superando a tutta velocità.

In definitiva, mi sembra probabile che la fisionomia del De vulgari ci appaia così simile a quella di questi trattati per un inevitabile vizio di prospettiva, perché ci è rimasta solo una piccola parte dell’opera che Dante aveva concepito: da quel che possiamo intuire, l’intenzione era di occuparsi poi anche della prosa, dei linguaggi più bassi e dunque, forse, anche di pro- blemi grammaticali e linguistici, e perfino dei dialetti. La poesia allora ha un ruolo centrale nell’opera solo perché è l’argomento più alto, da cui, in questo procedere argomentativo rigo- rosamente gerarchico, Dante aveva scelto di cominciare. Perciò nonostante sia innegabile la

volgare. I fondamenti teorici sono pertanto gli stessi della retorica e poetica latina, ma interpretati e adattati allo spirito nuovo delle lingue moderne, con geniale liberalità di poeta» (Marigo, Introduzione, p. cxxi).

61«Preterea: que nobilissima sunt carissime conservantur: sed inter ea que cantata sunt, cantiones carissime

priorità della poesia sulla prosa, come si dice esplicitamente all’inizio del libro,62 non si deve

dimenticare che il De vulgari dedica un’attenzione particolare anche alla prosa, come si vede dalla scelta di includere degli esempi dettatori a fianco a quelli poetici per descrivere i diver- si gradi di costruzione. E a ben vedere perfino in merito a questa affermazione di primazia della poesia sulla prosa si possono trovare echi non solo, come sembrerebbe naturale, nelle poetrie, ma anche nei trattati di ars dictaminis, che pure si concentravano invece sul dictamen prosaicum.63

Pagati i debiti con il maestro Orazio e con le poetrie che da lui discendevano, Dante ambi- sce a qualcosa di più di una pedissequa imitazione di una tradizione scolastica: equiparando la poesia alla prosa, il De vulgari aspira a rendere la propria dottrina universale, e dunque, nel rispetto della tripartizione del dictamen in prosaicum, metricum e rithmicum, a rivolger- si anche ai «cultori di artes dictandi: che nella Magna Curia avevano costituito il retroterra della scuola poetica siciliana, e in nessun centro italiano erano così fiorenti come a Bologna, radicati nell’ambiente universitario».64 Vedremo nei prossimi paragrafi quali aspetti del De

vulgari testimoniano in maniera più evidente questa integrazione della poetica con la retorica, e soprattutto con i precetti dell’ars dictaminis.