2.4 Le artes dictaminis
2.4.1 Il linguaggio figurato nell’ars dictaminis
2.4.1.5 Il dictamen siciliano
La celebrazione operata da Brunetto Latini della repubblica ciceroniana non impediva a que- st’ultimo di celebrare come massimo esempio dell’eloquenza contemporanea un dettatore di chiara ideologia imperiale, vale a dire Pier della Vigna; gli intellettuali della corte fredericiana si erano infatti presi il merito non solo di fondare la lirica d’amore in volgare italiano, ma anche di ridare alla retorica un prestigio che questa non aveva più avuto dall’antichità romana. Agli occhi di Brunetto, Pier della Vigna incarnava tale prestigio come una sorta di nuovo Cicerone, privo però dello stesso slancio etico;296del resto il maestro siciliano era anche il modello che
aveva seguito nell’unica epistola certamente sua che abbiamo conservata,297datata al 1258 –
il che testimonia, per inciso una precoce diffusione delle epistole del dictator siciliano, che a quell’altezza non si erano ancora costituite in raccolta. L’interscambio tra i centri di riflessione retorica fin qui analizzati – Bologna, la corte siciliana e la Curia pontificia, Firenze – era conti- nuo e fruttuoso; per completare il discorso, aggiungerei qualche cenno sul dictamen siciliano e papale.
Da un punto di vista strettamente teorico le elaborazioni non sono molte né molto origi- nali. Basti l’esempio di Riccardo da Pofi, notaio attivo presso la Curia pontificia intorno alla metà del Duecento e autore di un’imponente Summa dictaminum. Nel breve prologo teori- co,298anche Riccardo, come già i maestri bolognesi di cui abbiamo parlato, insiste molto sulla
congruitas e sulla convenientia tra lo status delle persone coinvolte nello scambio epistolare e lo stile impiegato, e prescrive i diversi tipi di salutatio, concentrandosi soprattutto su quelli
294Sgrilli, Tensioni anticlassiche, pp. 392-3.
295De Robertis, Il libro, pp. 220-3; Id., La prima vocazione, pp. 17-20; dello stesso parere Bartuschat, Appunti
sulla concezione, pp. 35-6.
296Bartuschat, La Rettorica, p. 50.
297Pubblicata in Maggini, La «Rettorica» pp. 75-80. Cfr anche Cella, L’epistola. 298Pubblicato da Simonsfeld: Riccardo da Pofi, Summa dictaminum.
che coinvolgono religiosi. Sebbene delinei caratteristiche tipiche delle lettere papali, che non devono indulgere in argomenti risibili o lievi né eccedere in gravità o complessità («non enim decet papam verbis nimis gravibus aut supervacuis implicari», p. 506), i precetti di Riccar- do sono per lo più generici e comuni: quanto più l’argomento è alto, tanto più è necessario scrivere in modo che tutti comprendano;299 per questo il dictator deve cercare di conservare
la proprietà dei vocaboli e delle sentenze, per non sottoporre il latino a significati adulteri o peregrini:
Studeat igitur quod significatio verbis secundum sui naturam inhereat et sen- tentie sint apropriate materiis tam in auctoritatibus quam exemplis, ut rationabili- ter et proprie applicetur materie quod fuerit per auctoritates aut sententias intro- ductum. Et licet sepe transumptive loquamur, tamen expedit, quod transumptio sit similitudinaria rei de qua scribitur, ut si velimus dicere quod interdum navi- cula Petri procellarum fluctibus agitatur vel impetatur, talis transumptio satis est rationabilis; nam per fluctus procellarum proprie possumus intelligere vexationes secularium tempestatum. Sed si diceretur, quod impetitur fluctibus montium, hoc esset inproprium, cum fluctus non competant montibus, sicut nec aper undis nec pisces nemoribus. Ad hec in magnis et arduis negotiis exquisitis verbis uti nos con- venit, ut dictamen sub colore verborum ornatus elegantia et florida compositione decurrat» (p. 507).
Riccardo insiste dunque sulla scelta di traslazioni appropriate e fondate su una somiglianza forte e razionale, in modo del tutto analogo a quanto fatto dai dictatores bolognesi, a testimo- nianza di quanto il livello più tecnico della riflessione sulla transumptio si fosse cristallizzato in fretta. Come ha dimostrato Grévin, per quanto riguarda il dictamen siciliano e papale è interessante piuttosto estendere lo studio degli aspetti teorici elaborati dall’ars dictaminis alle concrete messe in pratica di questi principi e, in particolare, alle Summae di modelli epistolari raccolte sotto il nome dei maestri più autorevoli: queste fungono infatti da anello intermedio tra i manuali e i documenti composti secondo le regole di questi ultimi, manifestando il modo in cui la tecnica era stata recepita, interiorizzata e messa in pratica e proponendosi come mo- delli da imitare. Tra le due tradizioni non c’era alcun confine: «il n’existait pas au XIIIe siècle
de coupure conceptuelle entre un apprentissage rhétorique aménagé en fonction de l’imagi- naire des écoles, et une pratique discursive déjà mise au service de la communication publique ou personnelle».300 La transumptio si presta particolarmente bene a quest’analisi in quanto 299«Item ex claritate lucet et delectat epistola et tenebrescit ex nimia brevitate vel obscuritate verborum; unde
quanto negotium est altius, tanto ad intelligentiam omnium clarius est scribendum. Quid enim valet auctorum aut quorumcumque verborum profunditas, ex qua plenus non apprehenditur intellectus? Et ideo si exposcat ma- gnitudo negotii, quod aliqua ex dictis sanctorum seu prophetarum vel philosophorum assertionibus inducantur, illa sic convenit lucide ac aperte describi quod explanari liquido valeant, vitio cujuslibet obscuritatis excluso» (p. 507).
concetto elaborato con cura sul piano teorico, strumento adoperato in modo massiccio nella prassi epistolare dei dictatores e momento di riflessione auto-letteraria che mette in mostra le ambizioni egemoniche e sacralizzanti di questi ultimi.301
Oltre ai passi già commentati di Boncompagno da Signa e delle Constitutiones di Federico ii (§2.4.4.1), Grévin analizza l’impiego del termine transumptio nella celebre epistola di Nicola da Rocca per la morte di Manfredi e in una questio in forma epistolare sive imperator soli comparari debeat, anonima ma forse da attribuire a Enrico di Isernia.302 In entrambi i testi
emerge con forza come il problema del linguaggio figurato scateni un’urgente interrogazione sullo statuto di verità della parola e sui modi in cui costruirlo: la padronanza delle metafore nel loro momento creativo e in quello interpretativo sembra assicurare al parlante un dominio sulla comprensione della realtà, nonché la capacità di indirizzare e influenzare la decodifica altrui. Se già nella Vita nova avevamo visto come fosse cruciale per Dante risolvere la tensione tra verità, linguaggio e interpretazione, è nel Convivio che questo problema si porrà con ancor maggiore urgenza.
301«On constate ainsi la coexistence d’un usage fort du terme, utilisé comme une sorte d’agent ou de moteur
« imaginatif » de la rhétorique dans la pensée de Boncompagno – ses implications sémiotiques dépassent alors le langage et la rhétorique stricto sensu pour s’étendre à la symbolique visuelle et à la théologie – avec un usage faible et routinier, dans lequel transumptio n’est utilisé que comme le plus petit dénominateur commun de l’en- semble des figures de pensée, présentées sans guère d’effort réflexif [...] Il existe bien une « pensée moyenne » de la transumptio, omniprésente dans la pensée rhétorique italienne du XIIIesiècle, et elle-même plus ou moins di-
rectement liée à un usage courant dans la production théologique et logique du temps. Les applications originales de cette pensée que font certains théoriciens et praticiens du dictamen révèlent toutefois la faculté de la notion de cristalliser les interrogations les plus variées sur la valeur des usages métaphoriques du langage, son rôle de catalyseur d’une réflexion articulée sur le lien entre métaphore et vérité. En dépit de leurs contradictions, ces différents niveaux doivent être examinés conjointement : c’est leur réunion qui permet de dépasser l’aspect de discussion purement théorique que prend souvent l’exposition du terme, pour comprendre la diversité des appli- cations poétiques, idéologiques et politico-juridiques qui étaient faites de la notion dans la production textuelle du XIIIesiècle» (Ivi, p. 157).
Capitolo 3
Ermeneutica: pluralità dei sensi dal
Convivio all’Epistola a Cangrande
La riflessione di Dante sul linguaggio figurato che ho ricostruito nei due capitoli precedenti era contenuta per brevi accenni in luoghi che, come ho cercato di dimostrare, avevano delle implicazioni sostanziali rispetto al progetto di entrambe le opere. Quelli che mi appresto a commentare ora sono gli unici saggi di esplicita e sistematica elaborazione sul tema. Sia nel Convivio sia nell’Epistola a Cangrande – che, vale la pena dirlo subito, considero autentica1–
Dante istruisce il lettore sui modi in cui i suoi testi devono essere interpretati; per farlo chiama in causa un metodo di lettura diffusissimo nel pensiero medievale, vale a dire quello allegorico. In quanto auto-esegesi, i brani pertinenti di queste due opere si avvicinano al xxv capitolo della Vita nova, in cui il poeta sviluppava una giustificazione ex post della propria scrittura; su questo stesso aspetto, però, i tre testi si differenziano. Nel libello giovanile Dante dava conto di un particolare espediente artistico – consueto non solo nei propri componimenti, ma in tutta la poesia classica e medievale, fino ai contemporanei – facendo ricorso alla nozione di licenza poetica, del tutto immanente rispetto ai funzionamenti della lingua. In altre parole, che Amore potesse ridere o parlare, pur essendo solo un accidente in sostanza, era enunciato da ritenersi falso in qualunque contesto; la digressione mirava dunque ad accreditare il poeta come qualcuno che fosse consapevole delle norme grammaticali e retoriche, e che si inserisse nel solco di una tradizione di rimatori.
Con il Convivio e l’Epistola Dante sposta la questione fuori dall’orizzonte normativo o pre- scrittivo che abbiamo visto all’opera nella Vita nova e nel De vulgari eloquentia, e la inserisce all’interno del problema ben più complesso della volontà dell’autore e dell’interpretazione. L’oggetto della sua giustificazione non è più, dunque, un fatto di natura meramente testua-
1Sulla questione, come tutti sanno, si è discusso e si continua a discutere; citare la bibliografia a riguardo
sarebbe lungo e poco rilevante rispetto ai fini di questo lavoro, quindi mi limiterò a rimandare ai per me persuasivi argomenti circa l’autenticità avanzati da Bellomo, L’epistola a Cangrande e da Azzetta, Nota introduttiva, che riassume anche il dibattito e riferisce della bibliografia pertinente.
le, ma un fatto che coinvolge direttamente la biografia: a essere trasfigurata dall’allegoria è un’intera vicenda, e tale trasfigurazione si realizza tramite un’azione che trascende il testo stesso. Le poesie sulla donna gentile che Dante commenta nel Convivio non manifestavano incongruenze linguistiche: senza l’intervento dell’autore, i lettori non avrebbero riscontrato un’infrazione della norma linguistica o retorica. È il contesto, insomma, a determinare la na- tura propria o traslata di questi componimenti, come dichiara lo stesso Dante quando precisa che la vera sentenza non poteva essere aperta da altri che dal suo autore.
La questione dell’allegoria è ineludibile in uno studio sulla metafora, non solo per la pros- simità tra le due figure – che, pur discutibile a livello teorico, era propugnata da quasi tutta la trattatistica classica e medievale – ma anche perché, seppure su una scala diversa, il problema che Dante si pone è sempre lo stesso: quello di armonizzare forma e contenuto, di spiegare perché il linguaggio non aderisce o aderisce solo parzialmente alla realtà. Arrivato a un mag- gior livello di consapevolezza circa i propri mezzi e circa le potenzialità della scrittura, Dante sfrutta l’esorbitanza della poesia rispetto alla funzione meramente referenziale del linguaggio: la preoccupazione non è più sciogliere una potenziale incongruenza, ma, anzi, creare un’ambi- guità, per riabilitare dei testi che avrebbero potuto essere male interpretati. Nella Vita nova era sufficiente essere riconosciuto come un poeta ben educato sulle norme linguistiche – un poeta volgare qualunque, sebbene l’ambizione fosse anche quella di certificare una continuità ri- spetto alla poesia latina; nel Convivio e, ancor di più, nell’accessus alla Commedia dell’Epistola, Dante vuole essere riconosciuto come un poeta degno di lettura allegorica, privilegio, questo, che spettava solo ai grandi classici e alle Scritture.
3.1
Tra grammatica, retorica ed ermeneutica
Nei capitoli precedenti mi sono occupata delle prime due artes del trivio, e in particolare del loro ruolo nel diffondere una certa idea di linguaggio figurato (§1.3; 2.4); come si è già detto, le discipline medievali, pur organizzate in uno schema preciso, erano soggette a continui sci- volamenti e influenze reciproche, specialmente su un tema trasversale come quello che qui si studia.2È già emerso anche che la progressiva cristianizzazione dell’Occidente medievale ave-
va profondamente modificato l’eredità classica su cui continuavano a reggersi grammatica e retorica, spingendo sempre più le due discipline in direzione di un confronto diretto con quello che era considerato il testo e il linguaggio per eccellenza, vale a dire quello delle Scritture.3
2I paragrafi che seguono devono moltissimo alla lucida e completa sistematizzazione di Copeland, Sluiter,
Medieval grammar.
3«Grammar and rhetoric present different orientations to the role of figurative language: in grammar it is
deviation from a proper “norm” of “correctness” and “proper words”, and in rhetoric it is amplification of form and meaning. These orientations carry over, broadly speaking, to each discipline’s perspective on the nature and production of poetic fiction as a whole. [...] Grammatical thought provides the terms for theories of what fiction does as a special kind of representation and deviation from truth. Rhetorical theory, on the other hand,
Da un lato la grammatica, concentrandosi sull’enarratio poetarum, metteva gli studenti a contatto con i poeti regolati al fine di insegnare loro a leggere e scrivere in latino perché po- tessero poi accostarsi alla lettura della Bibbia; nel curriculum grammaticale emergeva dunque di continuo la questione del rapporto tra poesia classica e testo sacro, che veniva per lo più risolta facendo ricorso all’imponente macchina dell’allegorizzazione. Si è già detto che a livello del singolo enunciato i manuali della prima ars considerassero i tropi deviazioni dall’uso cor- retto e referenziale del discorso, e dunque, semplificando, come enunciati falsi e viziosi.4 A un
livello più ampio, i testi che contenevano un messaggio contrastante con il cristianesimo erano sottoposti a processi di reinterpretazione spesso assai forzati, che li riportavano nell’alveo dei valori cattolici facendo dei poeti pagani degli inconsapevoli profeti della verità di Cristo.
A partire dagli scritti di Lattanzio, che nel IV secolo aveva per la prima volta esteso la no- zione di linguaggio figurato a interi testi, i due piani si erano costituiti come paralleli: ai poeti era concessa la licenza di usare tropi per trasporre significati veri e reali, e nel farlo pote- vano spingersi fino a costruire un’opera interamente traslata, recante un significato obliquo. In questo modo la nozione stessa di rappresentazione letteraria veniva a coincidere con un rimodellamento della realtà, e dunque con un’operazione epistemologica oltre che artistica, del tutto analoga a quella che agisce nella scrittura figurata; non più semplici deviazioni dalla norma, i tropi potevano essere elevati a modalità di significazione alternativa. Questa nuova architettura della fictio va a toccare profondamente anche la discussione sulla Bibbia: i teo- logi applicano, tra le altre, categorie grammaticali e retoriche per ragionare sulla verità delle Scritture e sul modo in cui essa viene espressa, ma sono costretti al contempo a ribadire la ra- dicale alterità del linguaggio biblico rispetto a quello profano. Per far questo venne elaborata la fondamentale distinzione tra allegoria in verbis e allegoria in factis.5
La teoria grammaticale era dunque coinvolta in complessi ragionamenti su temi come so- stanze e accidenti, forma e materia, espressione e significato, significazione e referenza, ambi- guità ed equivocità. Su questo terreno, però, la prima ars del trivio si trovava spesso a incro- ciare il cammino della logica: solo i più avvertiti intellettuali, come Pietro Elia, precisavano che le due scienze rispondevano a domande diverse, perché l’ortoprassi costruita dalla gram-
is concerned with the form that representation actually takes: the generic and stylistic properties of texts, the artifice and effect of structure. In other words, the grammatical orientation can be said to define what poets do in terms of the standards of what is truth and what is fiction; the rhetorical model presents a complementary vision of how poets accomplish their aims, in a generative sense. We should not see these as merely parallel perspectives: they are mutually reinforcing, along the same lines that grammatical and rhetorical thought continually inform each other. They interact in producing an understanding of fiction as a total enterprise» (ivi, p. 35).
4«The understanding of language in terms of its referential function opens out into questions about the me-
chanics of representation. Logicians were not directly or primarily concerned with poetic (“aristic” of “fictive”) representation; but the questione of how words relate to things led commentators on logical texts to considera- tion of the status of fictive (or “imaginative”) constructs that mediate between the things that we perceive and the langauge that we use to express thought. Thus the questions that were addressed in grammatical thought also took hold in discussion of logic, especially where there appeared to be a natural “bridge” between the concerns of the one discipline and the other» (ivi, p. 23).
matica non coincideva con la decisione circa la verità o falsità di un enunciato. Al contempo, il problema della verità occupava anche la riflessione dei maestri di retorica, come dimostra il fatto che una delle più antiche e stabili classificazioni dei generi narrativi è quella che distingue tra fabula, argumentum e historia, ossia tra invenzione poetica, finzione verosimile e raccon- to di eventi realmente accaduti: tale triade compare in Marziano Capella, Isidoro di Siviglia, Guglielmo di Conches, Bernardo Silvestre, Gundissalino, Giovanni di Salisbury, Goffredo di Vinsauf, Giovanni di Garlandia, Tommaso di Chobham.6
Queste intersezioni non erano sempre pacifiche: oltre al tentativo di Pietro Elia di ridurre il peso della grammatica nella speculazione linguistica, si diffuse un certo scetticismo anche nei confronti delle potenzialità epistemologiche della retorica.7 Le negoziazioni e gli scambi,
insomma, erano continui e sempre in divenire. Per di più il pensiero grammaticale-logico a sua volta si intrecciava con la semiotica in merito allo studio della referenza linguistica, vale a dire dei modi in cui i segni rimandano alle cose; questo filone di riflessione era stato profondamente influenzato da Agostino. Le considerazioni dell’Ipponate sulla veridicità delle proposizioni e sulla retorica biblica offrirono dei contributi fondamentali non solo alla teologia e all’esegesi, ma alla stessa filosofia del linguaggio medievale. Grazie ad Agostino, infatti, il cristianesimo aveva potuto superare l’impostazione fieramente anti-retorica di Paolo, che in tutta la prima epistola ai Corinzi contrappone rigidamente la persuasione umana alla sapienza divina, il linguaggio carnale a quello spirituale.8 La fondazione di un’ermeneutica non ancorata
solo al prestigio dell’auctoritas, ma tutelata da un principio semiotico il più possibile rigoroso inaugurava così una fase di fervente interrogazione teorica sui modi in cui si poteva realizzare l’esegesi.
L’ermeneutica non fu mai, comunque, una vera e propria disciplina inserita all’interno della classificazione medievale, ma in un certo senso era lo scopo a cui tendevano tutte le altre: le tre arti del trivio, in particolare, avevano il compito di mettere il discente nella condizione di poter leggere il testo sacro. Anche nella particolare rielaborazione dantesca della ripartizione delle arti, in cui alle sette canoniche si aggiungono fisica, metafisica, morale e teologia, l’ermeneutica non ha una sua collocazione specifica, ma sembra rientrare piuttosto nella commistione di scienza divina e sapienza profana che caratterizza la sua visione della Filosofia nel Convivio. Dal momento che ogni riflessione medievale sul linguaggio coinvolgeva in primo luogo il testo
6Sul tema fondamentali Mehtonen, Old concepts e Morse, Truth and convention.
7«The 13th-c. expansion of Aristotelian study was a principal cause of a thriving conflict between a logical as
against a philological base for learning in the hierarchies of the arts. Ancient grammar, and most early medieval grammar as well, had been identified most closely with literary composition. This tradition of grammatical investigation through literary works came into contrast with the theoretical basis of linguistic speculation that is