2.3 Il ii libro del De vulgari eloquentia
2.3.1 Dalla Vita nova al De vulgari eloquentia
Il trattato latino sistematizza quelle che nel prosimetro erano poco più che considerazioni di buon senso – non dire per rima quanto non si riesca ad «aprire per prosa», per evitare la ver- gogna che dovrebbero invece scontare «quelli che così rimano stoltamente» – condivise con il primo amico Cavalcanti; anche il contesto artistico entro cui l’opera si muove e a cui si ri- ferisce appare perciò ampliato: dallo stretto sodalizio toscano alla penisola intera. Il problema grammaticale-filosofico inerente la verità del linguaggio figurato si trasforma nel De vulga- ri in serrato e universale discorso tecnico circa i criteri con cui chi scrive deve misurare gli ornamenti formali con cui rivestire ciascun contenuto. E anche sui contenuti si verifica un’al- tra grande evoluzione rispetto alla Vita nova: se lì l’autore prendeva apertamente posizione «contra coloro che rimano sopra altra matera che amorosa» (Vn xxv, 6), nel trattato viene teo- rizzata, come si diceva, una tripartizione di argomenti fondata sulla psicologia umana, e Dante non si presenta più come poeta d’amore, ma come cantor rectitudinis. C’è poi da aggiungere, con Tavoni, che, «l’amore sublime e unico, che aveva aperto alla poesia, al di là del vincolo cieco dell’amore cortese, una proiezione paradisiaca, qui è ridotto alla pulsione erotica (venus) comune agli uomini in quanto animali; e la parola beatriciana salute è riconvertita a significare l’istinto biologico alla sopravvivenza comune agli uomini in quanto esseri viventi».42
Talmente evidente è la maggiore ampiezza e maturità dimostrata dal De vulgari rispetto alla Vita nova che, nell’opinione di uno dei principali studiosi del trattato latino, i concetti migrati da un’opera all’altra sarebbero «espressi là con certa docilità di discepolo, qui coll’autorità del
41Una tradizione secolare aveva distinto i tre stili (sublime, mediano, umile) che qui Dante, con profonda inno-
vazione, associa alle tre potenze dell’anima. La più antica formulazione della teoria dei tre stili risale alla Rhetorica ad Herennium, dove la distinzione è fondata sulla dignità delle persone che parlano; Cicerone, invece, mette i tre generi in corrispondenza con gli argomenti; Agostino, con il De doctrina christiana, trasmise al Medioevo l’idea che gli stili sono determinati dall’intento che si propone l’oratore. Il precedente probabilmente più significativo per la tripartizione dantesca è però Giovanni di Garlandia, che fa corrispondere ciascuno stile a una categoria di individuo e a un’opera di Virgilio (Di Capua, Insegnamenti retorici, pp. 318-9).
maestro che li ha ben meditati e rivissuti».43 Questa sostanziale continuità di argomenti risiede,
come si diceva, nell’affermazione dell’equivalenza di poesia regolata latina e poesia volgare, equivalenza che nel libello era semplicemente enunciata e che nel trattato latino viene più solidamente fondata e, soprattutto, messa concretamente in atto con lo sviluppo di una norma poetica e retorica costruita sull’imitazione degli autori classici. Se l’oggetto privilegiato nel primo caso era la dignità del poeta, che proprio con questa prima opera ambiva a costruirsi una statura intellettuale e autoriale e a nobilitare la produzione propria e del proprio circolo, nel caso del De vulgari l’operazione di canonizzazione appare a uno stadio più avanzato, e l’attenzione è concentrata non tanto sui poeti, quanto sulla lingua poetica, a cui i primi si devono adeguare dimostrandosene degni:
Exigit ergo istud sibi consimiles viros, quemadmodum alii nostri mores et ha- bitus; exigit enim magnificentia magna potentes, purpura viros nobiles: sic et hoc excellentes ingenio et scientia querit, et alios aspernatur, ut per inferiora patebit (Dve ii, i, 5).
Il problema essenzialmente grammaticale dell’appartenenza a un canone di autori – che pure è preoccupazione pressante nel trattato latino – viene affiancato dal tentativo di presentarsi co- me teorico dell’eloquenza, emulando le poetrie dei classici e, soprattutto, quella del «magister noster Oratius» (Dve ii, iv, 4). Dante, insomma, rivendica per sé non solo le competenze di can- tor rectitudinis, ma anche quelle di sublime dictator, come dimostrano gli esempi di supprema constructio di cui egli è autore.
In altre parole, nel momento in cui il De vulgari produce una gerarchia poetica, è evidente che è stato fatto un passo in avanti rispetto alla Vita nova: non solo i poeti volgari sono le- gittimamente equiparati ai latini, ma si può cominciare a produrre teoria sulla loro poesia, a partire da una classificazione gerarchica delle loro opere.44 Per questo la prospettiva del libello
mi sembra più vicina all’orizzonte grammaticale e quella del trattato latino a quello retorico: perché la prima è essenzialmente normativa, votata all’obiettivo di insegnare la correttezza ri- spetto a un sistema codificato dai gramatice positores;45la retorica, invece, è esercizio del gusto
e della scelta, e per questo assegna tanta importanza alla classificazione e alle gerarchie. Perciò è in questa opposizione che individuerei la principale differenza tra Vita nova e De vulgari: il xxv capitolo del libello giovanile, su cui mi sono soffermata a lungo nel capitolo preceden- te, testimonia di un’idea di linguaggio figurato come semplice improprietà, come qualcosa di
43Marigo, Introduzione, p. ciii.
44«Come mostra il travaglio concettuale del i del Convivio, questo del confronto col latino e i latini era vera-
mente il punto di passaggio obbligato. E Dante non si limita solo a mettere sullo stesso piano le due lingue e letterature (con la riserva che l’italiana deve ancora, ma può, darsi le sue regole stabili), ma fa anche un passo ulteriore, nel senso dell’autogestione del volgare» (Mengaldo, Introduzione, pp. 10-1).
45«Hinc moti sunt inventores gramatice facultatis: que quidem gramatica nichil aliud est quam quedam inalte-
rabilis locutionis ydemptitas diversibus temporibus atque locis. Hec cum de comuni consensu multarum gentium fuerit regulata, nulli singolari arbitrio videtur obnoxia, et per consequens nec variabilis esse potest» (Dve i, ix, 11).
falso che si dice rispetto all’uso corretto e proprio della lingua e che si concede per semplice deroga; è assente, o al massimo debole, qualunque tentativo di classificazione nel quadro di una teoria stilistica o pragmatica. Nel De vulgari eloquentia, invece, sebbene non si discuta una catalogazione delle figure, il centro del discorso è lo stile, e si riconosce che ci sono diversi gradi di abbellimento, misurati su diversi autori, diversi contenuti e diversi effetti da produrre su chi legge. Il principio della licentia ha lasciato il posto a quello della convenientia.
La distinzione non è, ovviamente, così netta: tutt’altro. Se i trattati di ars poetriae mi erano sembrati la tradizione più adatta a comprendere un primo livello di educazione poetica e di riflessione sul linguaggio figurato, quale poteva dimostrarsi il xxv capitolo della Vita nova, è innegabile che ad essi si ispira in larga misura il De vulgari, come Dante esplicitamente dichiara quando afferma che obiettivo del trattato è «doctrinatas eorum poetrias emulari» (Dve ii, iv, 3). Al tempo stesso, però, l’impulso innovatore di Dante è tale che, nello stesso momento in cui abbraccia una tradizione e un genere, lo rivoluziona, lo contamina e lo supera: vorrei dimostrare che il De vulgari contiene già i germi di elaborazioni retoriche più avanzate, che integrano l’impostazione delle poetrie con quella delle artes dictaminis.