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2.3 Il ii libro del De vulgari eloquentia

2.3.3 Fictio rethorica musicaque poita

Vale la pena soffermarsi sulla definizione di poesia contenuta nel paragrafo appena citato (ii, iv, 2-3), perché è cruciale nella comprensione del pensiero dantesco e perché ha sollevato mol- te discussioni da parte dei critici. Commentando l’estensione del nome di poeta ai rimatori volgari, Dante difende la razionalità della propria enunciazione («rationabiliter eructare pre- sumpsimus») definendo la poesia come nient’altro che una «fictio rethorica musicaque poita». I due ablativi sono chiari, e alludono a due caratteristiche del linguaggio poetico sentite come fondamentali e complementari: da un lato il vincolo metrico, dall’altro l’ornamento retorico; il participio è raffinato calco sul greco e riprende l’etimologia di “poesia”, alludendo così anche all’artificio realizzato dalla scrittura. La discussione si è concentrata sul sostantivo “fictio”: con qualche soluzione intermedia, le interpretazioni dei critici assegnano al termine un va- lore totalmente formale, equivalente a quello di ’composizione’, oppure, viceversa, una forte connotazione finzionale o allegorica.

62«Sollicitantes iterum celeritatem ingenii nostri et ad calamum frugi operis redeuntes, ante omnia confitemur

latium vulgare illustre tam prosayce quam metrice decere proferri. Sed quia ipsum prosaycantes ab avientibus ma- gis accipiunt et quia quod avietum est prosaycantibus permanere videtur exemplar, et non e converso (que quen- dam videntur prebere primatum), primo secundum quod metricum est ipsum carminemus, ordine pertractantes illo quem in fine primi libri polluximus» (Dve ii, i, 1).

63Fenzi propone, ad esempio, un riscontro con un passo del Candelabrum di Bene da Firenze in cui si dice che

il dictamen metricum, cioè la poesia, «fuit causa peritorum inventum, quod totam gramaticam valde rectificat et prosaico dictamini multum venustatis contulit et honoris» (Bene da Firenze, Candelabum, p. 91).

Il primo a intervenire in modo approfondito sulla questione è stato Schiaffini, che, rias- sumendo, traduce la definizione in questo modo: «la poesia è una finzione (allegorica), ossia fictio, elaborata in versi, ossia poita, secondo l’arte retorica e musicale».65 Contestando radi-

calmente le argomentazioni di Schiaffini, l’imponente studio di Paparelli propone moltissime tessere che mirano a ricostruire la gamma di significati del termine per suggerire che sia qui impiegato in modo sostanzialmente tecnico, a significare «opera in versi, composizione», e dunque come sinonimo di “poita”.66 Mengaldo ha mosso diverse obiezioni alla proposta di

Paparelli, tra cui le più interessanti mi sembrano da un lato la denuncia della sostanziale tau- tologia che si verrebbe a creare tra “fictio” e “poita”67 – obiezione accolta da Fenzi68, che pure

è sostanzialmente d’accordo con Paparelli, e respinta invece da Tavoni69 –, dall’altro che non

solo il termine ha valore prevalentemente contenutistico nella tradizione, ma soprattutto che nel Convivio il termine “fittizio” vuol dire inequivocabilmente ’menzognero, falso’.70

Innanzi tutto, mi pare che un primo nodo da sciogliere sia relativo all’opposizione tra forma e contenuto: se ha ragione Mengaldo quando dice che la definizione è tutta concentrata sul polo formale – il che ha senso, se consideriamo che qui Dante sta cercando di dare una defini- zione universale di poesia, dunque di necessità indipendente dal contenuto –, è pur vero che, come segnala Fenzi, il discorso appena concluso sui magnalia ha enfatizzato il valore di verità della poesia. Per risolvere l’apparente contraddizione, credo che ci sia da correggere un sostan- ziale difetto prospettico nella messa a fuoco del concetto di “finzione” e nella sovrapposizione dell’allegoria alle altre tecniche del parlare figurato.

Sostenendo la preponderanza dell’accezione plastica della poesia, che metterebbe in rilievo la sua azione di dare forma a qualcosa che non ne aveva, Paparelli coglie uno degli aspetti della percezione medievale della scrittura, che come tutti sanno tendeva a limitare molto la compo- nente creativa e fantastica: per rendersi conto dello scarto, basta considerare lo iato che corre tra l’inventio della retorica classica e medievale e la nostra concezione di “invenzione”, legata

65Schiaffini, «Poesis» e «poeta», p. 380.

66«In realtà fictio è parola tecnica, di ordine essenzialmente retorico, tendente a definire il processo creativo

della poesia in genere – di là da ogni possibile indicazione di contenuti, di atteggiamenti, di tendenze – anzi a risolversi semanticamente in termini di coincidenza con la pura e semplice denominazione di essa» (Paparelli, Fictio, p. 20). I contenuti principali dell’articolo sono poi confluiti nella voce “Fictio” dell’ED, curata dallo stesso Paparelli.

67Così Paparelli: «“poita”, ripetendo l’etimo di poesis, rende ragione del nome; mentre fictio ne riprende il valore

semantico e, per la sua duplice corrispondenza a versificari e poire, attesta l’equivalenza tra i due termini della questione. Il senso è che la poesia non è altro che fictio (cioè – come preciseremo – opera in versi, composizione) con il concorso della retorica e della musica; epperò anche coloro che compongono («versificantur») in volgare possono ben essere detti poeti» (Paparelli, Fictio, p. 76).

68«Neppure essa [scil. la nozione puramente formale di “fictio” ragionevolmente sostenuta da Paparelli],

tuttavia, va troppo irrigidita, sino a fare di fictio e di poita una perfetta traduzione» (Fenzi, Dve, n. a p. 164).

69«Che Dante definisca la poesis come nient’altro che fictio pare a me tautologico solo nel senso più positiva-

mente definitorio della parola: cioè Dante dichiara qual è l’essenza della poesia, essendone divenuto consapevole perché ne ha conosciuto l’etimologia greca, col tradurla (o meglio calcarla) in lessico latino» (Tavoni, Il nome di poeta, p. 556).

alla fantasia e alla scaturigine di qualcosa di non esistente. Come pure mi sembra pregnante, seppur sottile, distinguere tra il significato che il termine “fingere” assume in riferimento al contenuto e quello che assume in riferimento alla forma: e però non è vero, come sostiene Pa- parelli, che nel primo caso si tratta di inventio e di opposizione tra res ficta e res gesta, perché l’inventio è piuttosto legata alla topica, al ritrovamento di un argomento pertinente, e non è in questo senso opposta all’elocutio in quanto operazione plastica e dunque formale.71 In aggiun-

ta, Paparelli ha gioco facile a contestare Schiaffini quando questi chiama in causa la nozione di allegoria, che è certamente estranea non solo a una definizione generale della poesia, ma anche e soprattutto all’universo concettuale del De vulgari eloquentia; nel far questo, tuttavia, incorre nell’errore inverso di esasperare la componente formale e di unire in un unico discor- so finzione, allegoria, figure e colori retorici, che invece appartengono a piani distinti.72 Può

sembrare banale, ma credo che la confusione dell’originaria distinzione tra un discorso erme- neutico o teologico sulla poesia – che riflette su concetti come quelli di allegoria e di finzione – e un discorso retorico o comunque tecnico – che si concentra invece su colori e figure – sia la ragione delle oscillazioni che il termine “fictio” mostra di avere.73

Di conseguenza, esasperando le distinzioni tra piano formale e piano contenutistico ed equi- vocando la fisionomia dell’inventio e dell’allegoria si cade nell’errore di equiparare quest’ulti- ma a ogni discorso finzionale, e ogni discorso finzionale all’invenzione che si esercita tramite un’elocutio fondata sulle figure. C’è un’importante conquista nello studio di Paparelli, ed è quella di riconoscere l’urgenza della preoccupazione formale e retorica nella poetica medie- vale. Questa preoccupazione formale si traduce in una nozione di poesia come qualcosa di estremamente regolato, com’è evidente lungo tutto il ii libro del De vulgari – a partire, ad esempio, dalla scelta di termini con cui Dante descrive il modus in cui coartare gli argomenti degni del volgare (Dve ii, iii, 1). Al tempo stesso, però, lo specifico della poesia risiede anche in

71Paparelli, Fictio, pp. 28-30.

72Estraggo un passaggio che mi pare manifesti bene questa confusione di piani: Paparelli, riassumendo una

discussione di Tommaso, definisce la poesia come discorso che procede “per similitudines varias et repraesen- tationes” [...] il che coincide – all’atto pratico – con un problema di rettorica, e cioè con l’uso di quelle figure e di quei colores che sono appunto i mezzi con cui praticamente si realizza (si finge, diciamo per cominciare ad intenderci) l’allegoria. E, se volete sapere in qual modo da determinate figure e colori rettorici concretamente procedessero le parole “fittizie”, e cioè come il parlare «sotto figura d’altre cose» (Conv. ii, xii, 8) fosse proprio un parlar per figure rettoriche, andate diritti a quel passo della Vita Nuova (xxv, 4 ss) in cui Dante [...] giustifica la personificazione» (Paparelli, Fictio, p. 17). Mi pare evidente che Tommaso, nella sua complessa riflessione sul linguaggio figurato in relazione alle Scritture e alla poesia, ha in mente qualcosa di più complesso di un semplice problema di retorica, ed è altrettanto evidente che anche nell’ambito del pensiero dantesco questi concetti non sono sovrapponibili: la prosopopea della Vita nova non ha niente a che fare con l’allegoria, e il parlare «sot- to figura» non corrisponde necessariamente all’uso di figure retoriche, dato lo statuto ambiguo ed esorbitante dell’allegoria nella classificazione retorica delle figure.

73Oscillazioni pienamente comprese dalla definizione di Uguccione: «Fingo -gis -xi, idest ornare, componere,

facere, formare, plasmare et excogitare, et componere quod verum non est, idest simulare». Sono d’accordo con Fenzi quando dice che «Uguccione non è risolutivo perché lascia aperta l’alternativa tra una traduzione neutra e formale di fingo, che corrisponde all’atto creativo in sé considerato e sostanzialmente equivalente a poio, e una traduzione caratterizzante che vede nel fingere (come nella seconda accezione delle Derivationes) soprattutto il dare forma a qualcosa quod verum non est, a un figmentum, a una finzione appunto» (Fenzi, Dve, n. a p. 164).

una trasfigurazione della realtà, che rende la scrittura potenzialmente polisema e portatrice di verità non immediatamente comprensibili, ma visibili per figure. Rivelatrice, in questo senso, la definizione di Isidoro: «officium autem poetae in eo est, ut ea quae vere gesta sunt in alias species obliquis figurationibus cum decore aliquo conversa transducant» (Etym. viii, vii, 10).74

Tradotto in due bellissime terzine purgatoriali: S’io potessi ritrar come assonnaro li occhi spietati udendo di Siringa, li occhi a cui pur vegghiar costò sì caro; come pintor che con essempro pinga, disegnerei com’io m’addormentai;

ma qual vuol sia che l’assonnar ben finga. (Purg. xxxii, 64-9)

Il bilanciamento di questi due elementi è continuo, come dimostra il fatto che esistono scritture retoricamente elaborate ma non poetiche che fanno uso di figure – la prosa dettatoria, che assegna grandissima importanza all’ornata difficultas e alla transumptio – e opere allegoriche che pure prescindono dalla poesia – è il caso della Bibbia, che impiega l’allegoria in factis ma è scritta in sermo humilis e impiega tendenzialmente poche figure retoriche. In questo senso sono condivisibili le premesse da cui parte Paparelli, poi tradite nel corso del suo lungo articolo per ricercare una totale valorizzazione dell’aspetto formale a discapito di quello contenutistico: il vero significato etimologico del termine “fictio” è quello del “rappresentare per immagini”, «verbo plastico, figurativo» che «si riferisce non alla fantasia, cioè all’atto dell’immaginare [...], ma all’arte dell’esprimersi, del tradurre in immagini visibili il pensiero, o meglio le cose immaginate».75

Il tema dunque non è tanto quello della creazione o dell’invenzione, ma quello della rap- presentazione, e lo specifico della rappresentazione poetica è l’uso di figure per esprimere il pensiero o per trasfigurare la realtà – non necessariamente producendo qualcosa di falso, anzi, spesso con un valore di verità anche maggiore della semplice scrittura storica o cronachisti- ca; la fictio si caratterizza essenzialmente come prodotto specifico di un autore, la cui visione del mondo e dell’argomento plasma la materia e la cui padronanza degli strumenti retorici e metrici garantisce l’appartenenza formale all’ambito della poesia.76 In questo senso, dunque,

“poita” non è sinonimo di “fictio”, perché all’operazione fabbrile aggiunge una componente figurativa; e però il legame strettissimo e quasi tautologico tra i due concetti, che pure sono

74Riportata da Paparelli, Fictio, p. 11. 75Ivi, p. 3.

76Più a fuoco, dunque, la glossa di Scott, che però parte dal concetto non pertinente di “creative imagination” e

che esagera lo scopo didattico e la natura veritativa della poesia: «poetry is a product of the creative imagination, which uses the powers of both rhetoric and music in order to lead men and women toward a higher reality or truth that can be perceived through poetry’s essentially metaphorical techniques (the modus transumptivus of Ep. xiii, ix, 27)» (Scott, Understanding Dante, p. 47).

etimologicamente distinti, è testimoniato dal recupero del primo per connotare il secondo, sì che ogni poesia si caratterizza come una nuova elaborazione rappresentativa: la poesia è dare forma alla materia, ma il dare forma in poesia è sempre per figura – e questo problema di verità e rappresentazione sarà al centro della giustificazione di linguaggio figurato che Dante metterà in bocca a Beatrice nel iv canto del Paradiso.

La necessità di stabilire questa equivalenza tra poesia e fictio, e di far rientrare la prima in un discorso prevalentemente formale ma anche rappresentativo, mi sembra limpidamente visibile nella definizione con cui si apre un fortunatissimo commento all’Ars poetica di Ora- zio: «incipit liber poetriae id est qui agit de instructione poetarum ad bene componenda sua poemata, siue liber poesys id est fictionis: docet enim conuenienter fingere – poio pois dice- bant antiqui, unde et poesys et poeta id est fictor dicitur».77 In questo senso, allora, emulare i

classici significa aderire alle stesse norme formali e magari riprenderne anche la materia, ma ordinarla e raffigurarla in maniera nuova – ampliandola, ad esempio, il che, secondo i precetti delle artes poetriae, si fa normalmente tramite le figure. E in questo senso la rappresentazione è lo specifico della poesia, di contro allo scopo eminentemente pragmatico della prosa episto- lare o a quello dimostrativo del discorso scientifico. Mi sembra istruttivo, a tal proposito, un confronto con la definizione di dictamen data dal Candelabrum di Bene da Firenze:

Dictamen est ad unamquamque rem congrua et decora locutio. ’Ad unam quamque rem’ ideo dictum est, quia omnis res proposita ad dicendum, ut ait Boe- tius, potest esse materia dictatoris. Unde Horatius: «Quidlibet audendi semper fuit equa potestas». ’Congrua’ vero dicitur latinitate sermonis, ’decora’ verbo- rum compositione pariter et hornatu, quia rectitudo latinitatis et bonitas rei cum pulcritudine utriusque debent dictatoris eloquium insignire (Candelabrum i, ii, 1-7).

L’aspetto formale è fondamentale in questa definizione, come dimostra il fatto che Bene riba- disca che si può comporre prosa epistolare su qualunque argomento, ed è dunque ragionevole che lo sia anche in quella di Dante, che, come dicevo, ambisce anch’essa all’universalità. Le due formule sono abbastanza simili, eccezion fatta per l’ovvia mancanza dell’aspetto metrico- musicale: nel passo di Bene è evidente come l’aspetto decorativo si vada ad aggiungere a un sermo semplicemente congruus, e a sua volta il decorum è riconnesso ai due aspetti della ver- borum compositio e all’ornatus, di cui mi occuperò a breve in relazione al De vulgari. La scelta del sostantivo “fictio” nella definizione del De vulgari – di contro alle alternative neutre che sono presenti nell’incipit del Candelabrum, come “locutio”, “sermo” o “eloquium” – garanti- sce, a mio parere, che Dante volesse mettere l’accento sullo specifico della poesia in termini di rappresentazione.

Ricapitolando, il problema al centro della riflessione di Dante è sempre lo stesso: la Vita nova usa una prosopopea, una figura di personificazione, per rappresentare Amore, e questa espressione di qualcosa di filosoficamente falso è retoricamente ammissibile perché lo specifico del linguaggio poetico è proprio quello di poter usufruire di una licentia; i poeti del De vulga- ri, ormai pacificamente legittimati come tali, devono non solo approfittare di questa licentia, ma usare la propria discretio per ornare il discorso secondo le norme della convenientia.78 Il

poeta dunque può imprimere la propria idea sulla materia, anche parlando per figure e dun- que dicendo qualcosa che, preso alla lettera, è falso: il De vulgari parte da questa premessa, conquistata dopo gli imbarazzi della Vita nova con lo stabile riconoscimento della legittimità della poesia volgare, e si concentra sugli strumenti retorici e metrici attraverso i quali questa attività plasmatrice si esercita.