1.3 Le artes poetriae
1.3.3 Il linguaggio figurato nelle artes poetriae
1.3.3.5 Eberardo Tedesco
Di Eberado Tedesco, a lungo confuso con Eberardo di Béthune, conosciamo il solo Laborintus, opera in versi dedicata alla fatica del comporre e dell’insegnare (dedicata più probabilmente all’insegnante che ai discepoli),155che secondo l’ingeneroso giudizio di Murphy rappresenta lo
stadio terminale in cui l’ars poetriae «sputacchia quasi cinicamente».156 Pur avendo ambizioni
decisamente inferiori rispetto agli altri testi esaminati, il Laborintus non è affatto privo di interesse: la sola parte iniziale, in cui l’autore racconta del proprio misero destino di maestro di grammatica, è così iperbolicamente lamentosa da risultare comica, e contribuisce a creare un quadro molto vivido dell’universo pedagogico medievale. L’opera è costruita sull’allegoria di Filosofia che chiama a sé le arti liberali, sue figlie, affinché istruiscano il magister: prima protagonista è Grammatica, che insegna vocali e consonanti, dittonghi, morfologia, sintassi, schemi e tropi, scintille da cui si genera una grande fiamma, poiché la dottrina grammaticale è la soglia iniziale dell’apprendimento, senza la quale gli studenti non possono giungere alle altre arti liberali. Al maestro Grammatica raccomanda il libro di Donato («Donatus recitat quid discipulis prohibebis / et quid permittes: hic decor, error ibi», vv. 207-8) e quello di Prisciano. L’allegoria prosegue con il discorso di Poesia, che spiega il metro, il piede, il ritmo, le differenze fra sillabe lunghe e brevi, la natura e il numero dei piedi negli schemi metrici e le variazioni ammesse, e riconduce i diversi generi al metro giusto.
Cominciano qui le prescrizioni più dettagliate, che seguono abbastanza da vicino l’ordine e la classificazione delle opere di Matteo di Vendôme e di Goffredo di Vinsauf. Con il primo, Eberardo è solidale non solo nell’uso del verso come unità minima, ma anche in molti altri precetti, come nel riconoscere uno scarto tra la collatio in uso presso gli antichi e quella dei moderni: «solemnis fuerat quondam collatio multis; / sed nunc, quando venit, rara, modesta venit» (vv. 313-4); la differenza, in questo caso, è però oggetto di semplice descrizione e non di gerarchie né precetti. Nell’affrontare gli ornamenti dello stile, il Laborintus seguirebbe invece la teoria della transsumptio sviluppata da Goffredo e da Gervasio, secondo l’interpretazione di Purcell:157 i primi cinque ornamenti riguardano l’uso figurato di nomi e aggettivi, di nomi pro-
pri, di verbi, di termini simultaneamente propri e figurati, e infine l’accumulazione di diversi significati traslati, e in effetti, come nella Poetria nova, Eberardo usa indifferentemente i termi- ni transsumo e transfero.158Se la somiglianza con il testo di Goffredo mi pare stringente, avrei
più dubbi sull’estendere la derivazione all’opera di Gervasio, che, come abbiamo visto, offre
155Kelly, The scope, p. 278, n.
156Muphy, La retorica, p. 184. L’edizione del Laborintus si trova in Faral, Les arts poétiques, pp. 336-77; una
traduzione difficilmente reperibile è Carlson, Laborintus of Eberhard; la bibliografia, piuttosto scarna, comprende Purcell, Eberhard the German; Méot-Bourqin, Le part.
157Purcell, Ars poetriae, pp. 126-7.
158«Pono commune fixum, vel mobile nomen, / ut sedem proprii vitet utrumque loci» (vv. 365-6); «transumo
proprium: probo vel reprobo» (v. 369); «in propria sede si torpet, transfero verbum, / extremaque magis in regione placet (vv. 373-4). «est positum semel improprie, proprieque tenetur / verbum» (vv. 377-8); «vocem non unam, sed plures, transfero verbis» (v. 381).
una tassonomia significativamente diversa della transumptio; gli esempi sono però comuni a entrambi.
Dopo gli ultimi cinque tropi dell’ornatus difficilis, Eberardo prosegue con l’ornatus facilis, che include figure di parola e di pensiero, poiché «est via plana duplex: non floret prima; secunda / rhetoricis opibus deliciosa viget» (vv. 431-2); come già nel caso degli ultimi tro- pi, i trentasei colori retorici dell’ornatus levis (perfettamente sovrapponibili con quelli della Rhetorica ad Herennium) non sono definiti né descritti, ma solo esemplificati in un lungo com- ponimento sulla grazia e il peccato. Un altro lungo brano poetico in forma di sermone serve infine a dare saggio degli scemata, che fanno “profumare il volto interno” del discorso; Purcell nota acutamente che la scelta del modello del sermone e l’exemplum scritturale sottolineano la pedagogia duplice del precetto e dell’esempio.159
L’ultima sezione che qui ci interessa è quella in cui Poesia raccomanda agli studenti autori e opere da conoscere: Eberardo si dilunga in una lista di nomi e brevi descrizioni dei pregi che li rendono meritevoli di lettura, includendo, tra gli altri, Goffredo di Vinsauf, Matteo di Vendôme e Giovanni di Garlandia.160 Il trattato si conclude con un’esposizione sul metro e
con un altro lungo racconto, più puntuale e prosaico, delle disgrazie cui deve far fronte il maestro di grammatica.
Spero siano emersi da questo percorso tra gli autori delle artes poetriae il grande interes- se e il profondo rinnovamento a cui andò incontro la teoria della versificazione nel periodo a cavallo tra XII e XIII secolo: il parlare figurato, tema cardine della riflessione dantesca sul linguaggio, pur rimanendo radicato nei testi della tradizione classica fu ripensato in varie di- rezioni, dalla più meccanica descrizione della sintassi metaforica ai possibili effetti conoscitivi apportati dalla traslazione di significato, dalla riflessione sulla differenza tra usi antichi e usi moderni a quella sul rapporto tra forma e contenuto, dalla strutturale distinzione tra tessuto principale e collateralia al ruolo del contesto nello scioglimento della polisemia. Al di là del ricco repertorio di esempi, che in molti casi hanno trovato accoglienza nelle sue opere, Dante poteva trarre grandi benefici da questa tradizione, non solo in termini di singoli spunti, ma anche e soprattutto in relazione alla libertà e alla fluidità con cui poter guardare ai rapporti tra le più tecniche artes sermocinales e le altre grandi direttrici di pensiero sul linguaggio.
159Purcell, Ars poetriae, p. 131
160Può essere di qualche interesse riportare il canone nella sua interezza: i Disticha Catonis, l’Ecloga Theodulii,
Aviano, Esopo, Massimiano, il Pamphilus, il Geta di Vitale di Blois, il Ratto di Proserpina di Claudiano, Stazio, Ovidio, Giovenale, Persio, l’Architrenius di Giovanni di Hanville, Virgilio, l’Alexandreis di Gualtiero di Châtillon, Darete Frigio, Omero, Sidonio Apollinare, il Solimarius di Gunther di Parigi, il Macer Floridus di Oddone di Meung, Marbodo di Rennes, Pietro Riga, Sedulio, Aratore, Prudenzio, Alano di Lille, il Tobias di Matteo di Vendôme, la Poetria Nova di Goffredo di Vinsauf, il Doctrinale di Alessandro di Villedieu, il Graecismus di Eberardo di Béthune, Prospero d’Aquitania, Giovanni di Garlandia, Marziano Capella, Boezio e Bernardo Silvestre (vv. 599-686).
Capitolo 2
Retorica: l’ornatus tra De vulgari
eloquentia e ars dictaminis
2.1
Il linguaggio figurato nel
De vulgari eloquentia
Rispetto alla Vita nova, il trattato linguistico latino esibisce non solo una più articolata riflessio- ne teorica, ma anche una scrittura metaforica più raffinata e diffusa. Lo stile del De vulgari elo- quentia si mantiene generalmente nel solco della precettistica e della didattica, comprendendo dunque un vocabolario specialistico e un procedere argomentativo di ascendenza filosofico- scolastica. La natura essenzialmente tecnica di molti passaggi non richiede un impiego di quelle analogie che sono spesso necessarie nell’illustrazione di ragionamenti dottrinali più complessi; al contempo, la storia linguistica sviluppata negli episodi edenici e babelici, fonda- ta sulle Scritture e sull’ermeneutica dei Padri, può valersi della vivacità narrativa garantita dal testo biblico, diffuso, commentato e raffigurato forse quanto altri mai. Tuttavia, in un’opera in cui l’immaginario cristiano poteva forse bilanciare a sufficienza l’aridità della tecnica, Dante crea alcuni dei suoi primi, significativi filoni metaforici, e assegna loro, sebbene in maniera ancora imperfetta rispetto a quanto avverrà nella Commedia, il compito di sorreggere la strut- tura del trattato, connettendone le parti, assicurando a queste una maggiore carica icastica – e dunque di persuasione e memorabilità – e, soprattutto, sfruttando la polisemia di alcune associazioni metaforiche per trasmettere un più ampio spettro di significati. Attraverso uno stile che si fa così più sostenuto, Dante poteva configurare la sua opera non solo come trattato, ma anche come manifesto letterario.1
Ho commentato, nel capitolo precedente, l’apertura della Vita nova con la topica metafora del libro della memoria (§1.1). Anche nel De vulgari l’esordio è particolarmente interessante dal punto di vista dell’impiego dei tropi: innanzi tutto, Dante paragona i destinatari del trattato
a coloro che «tanquam ceci ambulant per plateas, plerunque anteriora posteriora putantes»2
(Dve i, i, 1), e descrive il compito educativo intrapreso attraverso la metafora del lucidare la di- screzione, riprendendo da vicino l’incipit del Candelabrum di Bene da Firenze («Presens opus Candelabrum nominatur quia populo dudum in tenebris ignorantie ambulanti lucidissimam dictandi peritiam cognoscitur exhibere»). Nell’ultimo periodo del primo paragrafo, in aggiun- ta, Dante costruisce una sorta di complemento rispetto alla metafora alimentare che sostiene il Convivio (dove pure al campo semantico dominante del cibo e della fame3si affianca quello del
dissetare): l’ambiziosa opera che si accinge a comporre è tantum poculum da riempire attin- gendo non solo all’aqua nostri ingenii, ma anche potiora miscentes, per poter offrire al lettore un dulcissimum ydromellum. Il rapporto con i primissimi paragrafi del Convivio è molto stret- to: il trattato volgare elabora lo stesso intreccio tra topica della cecità intellettuale e metafora alimentare a i, xi, 4, dove si legge che «questo [pane] darà lume a coloro che sono in tenebre ed in oscurità, per lo usato sole che a loro non luce». In modo del tutto parallelo, il De vulgari si offre come un dolcissimo idromele che soddisfi la sete di sapere di coloro che ignorano la dottrina dell’eloquenza volgare, mentre il Convivio mira a offrire a coloro che non siedono «a quella mensa dove lo pane de li angeli si manuca» almeno delle briciole che possano saziare la loro fame di conoscenza, perché «sempre liberalmente coloro che sanno porgono de la loro buona ricchezza a li veri poveri, e sono quasi fonte vivo, de la cui acqua si refrigera la naturale sete che di sopra è nominata» (Conv. i, i, 6-15).4
Nonostante la posizione incipitaria e i legami con il Convivio accordino alla metafora del vaso e dell’idromele un ruolo significativo, la metafora strutturale certamente più importante del De vulgari eloquentia risulta quella della caccia.5 Un articolo molto interessante di Phipps
approfondisce i microtesti metaforici disseminati nel trattato: questa serie di metafore inter- connesse poggia sul terreno comune di alcune immagini condivise, e tali immagini tratteggiano e amplificano le implicazioni ideologiche e filosofiche del testo dantesco.6 Nell’analisi che si
costruisce a partire da questa ipotesi, lo studioso ipotizza che la metafora primaria secondo cui la ricerca si configura come un cammino (la si incontra per la prima volta in Dve i, ix, 1: «per notiora itinera salubrius breviusque transitur») costituisca la radice estetica ed ideologica della struttura di questi microtesti metaforici. Al di là del valore poetico ed evocativo, questa metafora genera delle inferenze allegorico-morali fondate sull’opposizione tra un caos negati-
2In relazione a questo passo i commentatori – da ultimo Fenzi, Dve – segnalano la ripresa di una clausola
delle Lamentazioni di Geremia: «erraverunt caeci in plateis» (Lam. Ierem. 4, 14), o quanto meno la prossimità con una topica molto diffusa in vari testi scritturali e patristici quale quella della cecità dell’intelletto.
3Molto è stato scritto sulla metafora alimentare del Convivio: si vedano almeno Proto, Il proemio, Nardi, La
«vivanda», Bianchi, “Noli comedere” e il recente Maldina, Raccogliendo briciole.
4Interessanti osservazioni sul parallelo tra gli incipit delle due opere e, in particolare, sul loro obiettivo di
identificare un lettore ideale, rimando a Ferrara, La parola, pp. 59-100.
5Sulla semantica della caccia in relazione alla Commedia rimando ovviamente a Mercuri, Semantica di Gerione
e a Mercuri, Comedìa, pp. 295-9.
vo e un ordine positivo; da questa, inoltre, si diramano i due gruppi metaforici che rimandano alla semantica della caccia e della selva.7Senza scendere troppo nel dettaglio, il serrato esame
di Phipps rischia forse di voler tenere insieme ogni istanza metaforica del De vulgari, a costo di eccessive sottigliezze, ma ha il grande merito di esplorare le connessioni semantiche istituite dai tropi e di dimostrarne la valenza simbolica.
Vale la pena però di soffermarsi sulla metafora della caccia, che funge da vera e propria spina dorsale del i libro del De vulgari. Daniele D’Urso ha esplorato alcune delle fonti, degli sviluppi e delle implicazioni di questa associazione tra l’attività venatoria e la ricerca intel- lettuale: recuperando un motivo comune nella tradizione scolastica, Dante dipinge la propria ricerca del volgare illustre come una venatio per la silva dei volgari italiani, alla ricerca di qual- cosa che si rivela infine una panthera «quod in qualibet redolet civitate nec cubat in ulla» (Dve i, xvi, 4). Buona parte dell’investigazione del primo libro viene così riassunta:
Postquam venati saltus et pascua sumus Ytalie, nec pantheram quam sequimur adinvenimus, ut ipsam reperire possimus rationabilius investigemus de illa ut, so- lerti studio, redolentem ubique et necubi apparentem nostris penitus irretiamus tenticulis (i, xvi, 1).
Nota giustamente D’Urso che fino a questo passo l’associazione tra caccia e ricerca intellettuale si è limitata a pochi termini solo debolmente metaforici – come i lessemi querere, sectare, in- vestigare, percontari e i loro derivati – ma che è in definitiva la pantera profumata, così esotica e altamente simbolica, «a costituirne il fulcro tematico e a darle un certo spessore di concre- tezza».8 In altre parole, l’immagine della pantera cacciata per valli e monti italiani non serve
solo a rendere più icasticamente accattivante quella che è di fatto un’operazione intellettuale fredda e analitica (per quanto vivacizzata dalla concreta presenza delle diverse parlate locali), ma soprattutto a caratterizzare indirettamente – e dunque con una maggior forza evocativa – il termine figurato, cioè il volgare illustre.
Un lettore medievale avrebbe infatti immediatamente riconosciuto nella pantera la carat- teristica, descritta da tutti i bestiari, di attirare le prede con il proprio profumo dolcissimo;9
questo attributo dell’animale è ciò che interessa a Dante, come diventa chiaro poche righe più avanti, dove si stabilisce un paragone tra questo diffondersi del profumo e l’emanazione di Dio nel creato:
Potest tamen magis in una quam in alia redolere, sicut simplicissima substan- tiarum, que Deus est, in homine magis redolet quam in bruto, in animali quam in
7Ivi, pp. 7-9.
8D’Urso, Il profumo, p. 147.
9Una rassegna dei precedenti più significativi e potenzialmente noti a Dante si trova nelle note di Fenzi e Men-
galdo ad locum e, più distesamente, nella voce Pantera dell’Enciclopedia dantesca curata dallo stesso Mengaldo e in D’Urso, Il profumo.
planta, in hac quam in minera, in hac quam in elemento, in igne quam in terra; et simplicissima quantitas, quod est unum, in impari numero redolet magis quam in pari; et simplicissimus color, qui albus est, magis in citrino quam in viride redolet (i, xvi, 5).
Per semplice proprietà transitiva, se la pantera è, metaforicamente, il volgare illustre, e se il suo profumare ovunque è esplicitamente paragonato alla presenza di Dio nelle creature, allora anche il volgare illustre risulterà ulteriormente nobilitato. L’associazione, per di più, non è nuova: Tavoni, nel suo commento, propone il riscontro di alcune fonti in cui la pantera è figura di Dio o di Cristo, e Mengaldo aggiunge che alcuni di questi termini – quali il verbo redolere e i tenticulis del passo citato in precedenza – sono spesso impiegati in riferimento a fatti linguistici e stilistici (nel primo caso) o a sofismi e ragionamenti (nel secondo). Grazie a questa catena di associazioni veicolate dal linguaggio figurato, Dante esalta non solo l’oggetto della sua ricerca, ma l’inchiesta stessa: il principio logico della reductio ad unum, messo in luce da Imbach e Rosier-Catach,10trova un fondamento ontologico nella cosmologia neoplatonica.
Il ruolo del volgare illustre è quello di unità di riferimento a cui gli altri volgari devono tendere, come risulta dalla spiegazione data da Dante rispetto agli aggettivi “curiale” e, soprattutto, “cardinale”, e questo in un sostanziale rispecchiamento della tensione spirituale che porta le creature a volersi riavvicinare all’Uno che le ha create. Con un’importante differenza, però: mentre le creature dall’Uno derivano e all’Uno aspirano a tornare, il volgare illustre non è fonte dei volgari locali, ma una sorta di restaurazione dell’idioma unico scomparso con la confusio linguarum babelica.
In aggiunta, dal momento che Nembroth, dalla Vulgata in poi, è la figura del cacciatore per antonomasia,11 mi pare condivisibile l’ipotesi, avanzata da D’Urso, che qui Dante si stia
indirettamente proponendo come suo rovescio positivo: la sua caccia alla pantera/volgare illu- stre ha infatti come obiettivo quello di ritrovare l’unità linguistica perduta dopo la punizione della Torre di Babele.12 Per inciso, Roberto Mercuri ha proposto di scorgere nel primo canto
dell’Inferno un’opposizione tra Nembroth – per come viene descritto dalle fonti patristiche e sopratutto dalla più autorevole di queste, vale a dire Girolamo13– e Dante, che come il superbo
cacciatore si trova per una selva e circondato da bestie, ma che, al contrario di quest’ultimo, si muove verso il monte e vince la tentazione di discendere nel lago del peccato.14 Se questa
connessione con la Commedia esiste, non credo che sia da interpretare tanto nel senso di una
10Imbach, Rosier Catach, De l’un au multiple; Rosier-Catach, Présentation, pp. 50-5. 11Mercuri, Semantica di Gerione, pp. 126-9.
12«La caccia condotta da Dante ha, a mio avviso, quasi la funzione di esorcizzare, per quanto possibile, la
confusione babelica e si propone in qualche modo di seguire un percorso opposto a quello tenuto da Nembròt, esplorando il quale si possa ritrovare nel disordine e nella barbarie dei volgari italiani qualche traccia di una lingua illustre e unica che, nella nuova Babilonia d’Italia, possa finalmente dirsi italiana» (D’Urso, Il profumo, p. 154).
13Comm. in Mich. v, 6 (PL 25, col. 1201). 14Mercuri, Semantica di Gerione, pp. 129-30.
prefigurazione che l’itinerario venatorio del De vulgari offrirebbe del percorso oltremondano del poema,15ma semmai, al contrario, in quello di una ripresa, nel poema, del ruolo di autore
del volgare illustre che Dante si era già attribuito nel trattato latino. In entrambe le opere, ad ogni modo, Dante assume più o meno indirettamente le vesti del venator e mette in scena una caccia di natura eminentemente letteraria: una volta trovata, con il De vulgari eloquen- tia, la lingua giusta, la Commedia sarà dedicata all’impresa di esprimere in questa lingua un argomento tanto alto e vasto quanto quello di un pellegrinaggio tra i tre regni oltremondani.16
Già nel De vulgari, dunque, la selva assume un significato metaforico fondamentale, per quanto meno polisemo rispetto al poema sacro: è in essa che si svolge la caccia, e nel pano- rama incolto e confuso delle parlate locali il volgare illustre, come il cardine attorno a cui si muove la porta, come il pater familias che governa il gregge, estirpa i frutti e pianta gli arbu- sti, come un benevolo contadino.17 La semantica della caccia e quella della selva sono dunque
strettamente connesse, ma non del tutto sovrapposte, se il volgare illustre è tanto la pante- ra quanto l’agricola; confrontandosi su questa apparente aporia, Phipps conclude che sia una strategia messa in opera da Dante per mantenere una certa ambiguità di valutazione rispetto alla tradizione cittadina (data la fondamentale opposizione tra silva e civitas), e per dare così ancora più rilevanza al tema dell’esilio.18 Per quanto il motivo dell’esilio sia fondamentale in
un trattato linguistico che si muove su una linea politica molto forte, come vedremo, credo che questa lettura dimostri le forzature inevitabili per chi si metta alla ricerca di microtesti coerenti e organici in un testo argomentativo prima che narrativo.
Il De vulgari invita il lettore a seguire queste associazioni semantiche, a riconnettere diver- si passi con altri luoghi del testo e, forse, perfino del macrotesto dantesco, a riconoscere in queste immagini una rappresentazione che allude ad altro e che veicola valori e ideologie; e questo tipo di lavoro critico, che già può essere esteso nello studio del poema sacro, dev’essere pressoché cominciato nel caso delle altre opere di Dante. Allo stesso tempo, però, credo sia im- portante tenere a mente che le metafore rispondono anche a esigenze più locali: se il contesto rende chiaro al lettore il valore da attribuire all’ispessimento del significato prodotto dai tropi,