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Convivio, De vulgari eloquentia e Vita nova

3.2 Il Convivio

3.2.1 Convivio, De vulgari eloquentia e Vita nova

Il rapporto con le due opere precedentemente analizzate è perciò assai stretto. Il De vulgari, innanzi tutto, si situa in una dimensione molto vicina al Convivio a livello di composizione, oltre che per diversi elementi interni; a tal proposito, occorre tornare sulla ragione per cui ho scelto di occuparmi del trattato latino prima di quello volgare, sebbene la datazione più accreditata sembrerebbe indicare che quest’ultimo sia stato cominciato prima, almeno quanto ai primi tre libri.16 Sul tema del linguaggio figurato, come dicevo in §2.3, mi pare indubbio

che il Convivio contenga una riflessione ben più completa ed elaborata rispetto a quella del De vulgari, probabilmente anche in virtù del maggior avanzamento dell’opera; come si dimostrerà nelle prossime pagine, questo era anzi uno dei motori fondamentali per la genesi dell’opera.

Riassumendo, su questo argomento Mengaldo ha scritto pagine importanti, in cui sugge- risce che il Convivio dia vita a una prosa ormai indipendente rispetto a un dictamen volgare calcato su quello poetico – concezione che, aggiungerei, mi pare ancora dominante nel De vul- gari, dove la norma retorica passa per una serie di esempi in prosa (§2.3.5). Secondo il critico, però, il Convivio si fonderebbe sull’idea di una separazione fra la bellezza del discorso e il suo significato, e dunque su una concezione additizia dell’ornatus poetico, rispetto alla quale il poeta manifesterebbe un’insofferenza tale da svincolare spesso la prosa esplicativa rispetto ai temi affrontati nella canzone e alle sue figure. Ma come ammette lo stesso Mengaldo, Dante nel Convivio si mostra spesso interessato ed esperto rispetto alle figure della retorica, e con- ferisce alla ricerca della bellezza formale una dignità quasi autonoma;17 capovolgendo la sua

interpretazione, dunque, direi che tale separazione tra forma e contenuto ha generato sì dei problemi a cui la prosa deve porre rimedio, ma al tempo stesso ha garantito alla poesia una moltiplicazione dei significati che la prosa tutela e nobilita.

15Fenzi, L’esperienza.

16L’argomento principale per tale cronologia risiede nel fatto che in Conv. i, v, 10 Dante parla del De vulgari

come di un progetto: «di questo si parlerà altrove più compiutamente in uno libello ch’io intendo di fare, Dio concedente, di Volgare Eloquenza». Sulla datazione dell’opera, il quadro più completo è quello offerto dal suo ultimo editore Fioravanti nell’Introduzione, alle pp. 8-19. Sul rapporto tra le due opere, e soprattutto sulla questione della lingua (latino/volgare), rimando alle belle pagine di Fenzi, Dal Convivio e a Tavoni, Qualche idea, pp. 25-30.

Insomma, a me pare che mentre nel De vulgari Dante fosse costretto a ricorrere a una norma rigida come quella della convenientia, che prescrive una ferrea adesione di contenuto e forma, nel Convivio si trovi a sperimentare la maggior libertà accordata a una potenziale indipendenza di forma e contenuto, che si può risolvere ex post con la lettura allegorica. Se, in parole povere, il De vulgari ambiva a insegnare al lettore come comporre un testo retoricamente congruo rispetto al suo tema, il Convivio, accogliendo la possibilità di diversi livelli di significato e dando comunque sempre priorità a quello letterale, insegna a leggere un testo in maniera più creativa e più ricca da un punto di vista conoscitivo. Come ammette altrove lo stesso Mengaldo, il Convivio può essere considerato come «sistemazione e sviluppo filosofico di una poesia di cui il De vulgari eloquentia è la coscienza retorico-letteraria».18

Meier, ha sottolineato che, infatti, nel Convivio lo studio della filosofia spinge Dante a ri- pensare alla relazione tra messaggio e ornamento, che si cerca di rendere il più possibile stretta e stringente; nel trattato volgare l’interesse è tutto sbilanciato sul pubblico dei lettori, più che sul poeta. Avendo forse subito l’influenza della retorica educativa di Brunetto Latini, a que- st’altezza la poesia è per Dante più di una equilibrata fusione di forma e contenuto: è piuttosto parola efficace, che non espone solo le ragioni poetiche ma che le integra con considerazioni molto più ampie e enciclopediche.19

Il rapporto più stretto, però, è quello che il Convivio intrattiene con la Vita nova, della quale si pone come ideale continuazione. Fin dal principio dell’opera Dante si preoccupava di giustificare ai frequentatori del libello giovanile quella che appare tutt’ora come una delicata contraddizione tra i due prosimetri – e, come ha notato Dronke, è proprio l’insistenza sul tema ad attirare l’attenzione dei lettori su questa discrepanza.20 Verso la fine della Vita nova, infatti,

Dante aveva inserito un episodio incentrato su un temporaneo “traviamento” dall’amore per Beatrice: trascorso oltre un anno dalla morte della gentilissima, un anno di lutti, sospiri e componimenti lacrimosi, un giorno Dante percepisce quanto il suo aspetto sia sbigottito e travagliato e alza gli occhi per vedere se qualcuno lo sta osservando. È allora che vede «una gentile donna giovane e bella molto» che lo guarda da una finestra, «sì pietosamente, quanto a la vista, che tutta la pietà parea in lei accolta» (Vn xxxv, 2).

Mosso a pietà dalla stessa pietà che vede dipinta sul viso della donna, Dante fugge per non mostrare le proprie lacrime, ma pensa subito, tra sé e sé, che è impossibile «che con

18Mengaldo, Introduzione, p. 7. Si veda anche il commento di Paparelli, che giustamente sottolinea che «il

Convivio consiste essenzialmente d’una interpretazione allegorica delle canzoni – epperò ne presuppone già la “forma” e da essa risale alla “materia” per fare della «litterale sentenza» il «subietto» e il «fondamento de l’altre». Nel De vulgari eloquentia si parte invece dalla materia per arrivare alla forma; e il “subiectum” è proprio quella «vulgaris locutio» che il poeta ha “dichiarato” nel primo libro e con la quale si propone, nel secondo, di realizzare – anzi d’insegnare a realizzare – la fictio. E insomma mentre quello del Convivio è, rispetto alle canzoni, un lavoro di scomposizione, nel De vulgari eloquentia il processo è tutto e (si badi bene!) soltanto di composizione e costruzione testuale» (Paparelli, Fictio, p. 18).

19Meier, Dante alle prese, in part. pp. 61-ss. 20Dronke, Dante’s second love, p. 2.

quella pietosa donna non sia nobilissimo amore» (Vn xxxv, 3). L’innamoramento prosegue nei paragrafi successivi: il poeta, attirato dal pallore quasi amoroso della donna, che gli ricorda Beatrice, comincia a cercare con sempre più frequenza l’incontro con lei, fino ad ammettere un vergognoso eccesso di passione: «io venni a tanto per la vista di questa donna, che li miei occhi si cominciaro a dilettare troppo di vederla; onde molte volte me ne crucciava nel mio cuore ed aveamene per vile assai» (Vn xxxvii, 1). Comincia allora, per Dante, una battaglia tra gli occhi, desiderosi di vedere la donna gentile e di sfogare il pianto, e il cuore, che non vuole dimenticare Beatrice; il sentimento si fa così forte che alla fine anche il cuore «consentiva» nel ragionare degli occhi innamorati, senza però che questo risparmi al poeta rimorsi e ulteriori battaglie tra pensieri.

Lo «spiritel novo d’amore» (Vn xxxviii, 10) a cui Dante si è arreso si rivela però un «avver- sario de la ragione» (xxxix, 1) contro il quale un giorno si scatena «una forte imaginazione» che rappresenta Beatrice, il che riporta il poeta al primo amore e istilla in lui un pentimento tormentoso per il vile e malvagio desiderio dal quale si era lasciato possedere contro la co- stanza della ragione (xxxix, 2-3). L’episodio della donna gentile – la cui parabola, dal sorgere del sentimento al suo esilio dal cuore di Dante, occupa solo cinque capitoli – si chiude dun- que con una netta e definitiva vittoria del primo amore, celebrata con il finale della Vita nova: secondo alcuni interpreti, tale deviazione sarebbe perfettamente coerente con l’itinerario del- l’amore sempre più spirituale per Beatrice, e si presenterebbe anzi come vero e proprio calco della tentazione, escogitato per rafforzare ancor di più l’eccezionalità del sentimento per la gentilissima.

Il problema nasce allorquando nelle rime dottrinali Dante torna a parlare della donna gentile e pietosa che lo ha consolato dopo la morte di Beatrice, e stravolge però il finale, cantando la vittoria di questo nuovo sentimento sull’amore giovanile:

Cominciando adunque, dico che la stella di Venere due fiate rivolta era in quel- lo suo cerchio che la fa parere serotina e matutina secondo diversi tempi, apresso lo trapassamento di quella Beatrice beata che vive in cielo colli angeli e in terra colla mia anima, quando quella gentile donna [di] cui feci menzione nella fine della Vita Nova, parve primamente, acompagnata d’Amore, alli occhi miei e prese luogo alcuno nella mia mente. E sì come [è] ragionato per me nello allegato libello, più da sua gentilezza che da mia elezione venne ch’io ad essere suo consentisse; ché passionata di tanta misericordia si dimostrava sopra la mia vedovata vita, che li spiriti delli occhi miei a lei si fero massimamente amici. E così fatti, dentro [da me] lei poi fero tale, che lo mio beneplacito fue contento a disposarsi a quella imagi- ne. Ma però che non subitamente nasce amore e fassi grande e viene perfetto, ma vuole tempo alcuno e nutrimento di pensieri, massimamente là dove sono pen- sieri contrari che lo ’mpediscano, convenne, prima che questo nuovo amore fosse

perfetto, molta battaglia [essere] intra lo pensiero del suo nutrimento e quello che li era contrario, lo quale per quella gloriosa Beatrice tenea ancora la rocca della mia mente: però che l’uno era soccorso dalla parte [della vista] dinanzi continua- mente, e l’altro dalla parte della memoria di dietro; e lo soccorso dinanzi ciascuno die crescea, che far non potea l’altro, comen[dan]te quella, che impediva in alcu- no modo a dare indietro il volto; per che a me parve sì mirabile, e anche duro a sofferire, che io nol potei sostenere. [E] quasi esclamando, e per iscusare me della vari[e]tade, nella quale parea me avere manco di fortezza, dirizzai la voce mia in quella parte onde procedeva la vittoria del nuovo pensiero, che era virtuosissimo sì come vertù celestiale; e cominciai a dire: Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete (Conv. ii, ii, 1-5).

Consapevole della contraddizione tra queste due versioni dei fatti, già all’inizio del Convivio l’autore precisa che, sebbene le canzoni già divulgate siano state male interpretate, quel che si dice in esse non è in contraddizione con il testo della Vita nova, almeno secondo la «vera intenzione» dell’autore:

E se nella presente opera, la quale è Convivio nominata e vo’ che sia, più viril- mente si trattasse che nella Vita Nova, non intendo però a quella in parte alcuna derogare, ma maggiormente giovare per questa quella; veggendo sì come ragione- volemente quella fervida e passionata, questa temperata e virile essere conviene. Ché altro si conviene e dire e operare ad una etade che ad altra; per che certi co- stumi sono idonei e laudabili ad una etade che sono sconci e biasimevoli ad altra, sì come di sotto, nel quarto trattato di questo libro, sarà propia ragione mostrata. E io in quella dinanzi, all’entrata della mia gioventute parlai, e in questa dipoi, quella già trapassata (i, i, 16-7).

Il passaggio è fittamente metaletterario: nominando le proprie opere e collocandole lungo un continuum, Dante attribuisce a ciascuna una specifica caratteristica che si vorrebbe solo forma- le, e non sostanziale, e lega tale caratteristica all’età in cui sono state composte;21addirittura,

secondo Bellomo, il mutamento dell’oggetto amoroso sarebbe semplice metafora del cambio

21A questa componente temporale credo si possa ancorare la già di per sé valida e bella interpretazione di

Fenzi: «la legittimità morale e speculativa dell’auto-esegesi ha la sua radice nella perfezione relativa, ma non per questo meno perfetta, come Dante spiega, di ogni successivo acquisto di sapere. Dall’altezza via via raggiunta, in questo continuo procedere per sommità [...], essa rappresenta il momento in cui lo sguardo si volge indietro, considera il cammino sin lì percorso e ne valuta il risultato, in funzione del cammino che ancora resta e del quale già si intravvede la direzione. È il momento irrinunciabile e fondante, insomma, in cui il passato si determina e si comprende a partire dal presente, e in cui l’esperienza del vissuto si trasforma in possesso per sempre e acquista la propria definitiva pienezza di senso [...] In altri termini, Dante parla di sé non come l’uomo che è, ma come l’uomo che è diventato quello che è. L’auto-esegesi è allora una auto-esegesi della differenza; il pensiero non è altro, propriamente, che il pensiero della differenza, e la differenza, infine, è l’allegoria, cioè a dire l’incremento di significato che la perfezione raggiunta impone di per sé, retrospettivamente, per il solo fatto di volgersi indietro e di conoscersi come tale» (Fenzi, L’esperienza, pp. 191-2).

di stile.22 La questione ha a lungo sollecitato i dantisti, che si dividono essenzialmente su tre

ipotesi:23 coloro che ritengono il traviamento reale, e solo in seguito allegorizzato; coloro che

ritengono che nella Vita nova si parlasse di una donna in carne e ossa, e che invece le can- zoni morale fossero state composte come allegoriche ab origine; coloro che ritengono che fin dal libello la donna gentile rappresentasse la filosofia, secondo un’allegoria destinata a essere sciolta solamente al di fuori dell’opera. Per risolvere il rompicapo, è stato perfino suggerito che il finale della Vita nova così come lo conosciamo fosse il risultato di un ritocco tardivo, preludio della Commedia, e che nella prima stesura l’opera non contenesse affatto la vittoria di Beatrice sulla donna gentile.

Come che sia, un dato da rilevare, dopo le accurate analisi di De Robertis, è la perfetta continuità lessicale, stilistica e metrica che congiunge l’episodio della donna gentile nella Vita nova alle canzoni commentate nel Convivio.24 È soprattutto nel iii libro, dedicato alla lode della

Filosofia, che Dante riprende stilemi e immagini della lirica d’amore sperimentata in gioventù – specialmente per quanto riguarda la descrizione della bellezza e dolcezza dell’amata – pur trasponendoli nel nuovo clima filosofico, e così creando un ritratto eccezionale della felicità mentale tanto discussa dagli intellettuali del Duecento. Con questa operazione Dante si di- fende dall’accusa di essere un amante leggero e mutevole: celebrare la donna gentile significa nobilitare se stesso, che a lei si è votato. Per questo nel Convivio la strategia poetica della li- rica amorosa viene applicata alla speculazione, in virtù del fatto che l’amore è la forma della Filosofia, mentre la Sapienza ne è il corpo: la speculazione è perciò «amoroso uso di sapien- za», e coincide con la Filosofia stessa. Dunque termini, procedimenti e immagini della poesia amorosa sono “risemantizzati” e ridefiniti per superare l’impostazione tradizionale della lirica e assumere una nuova e ambiziosa valenza filosofica, come ha dimostrato Russo.25

Il iv trattato, tuttavia, abbandona il linguaggio lirico e amoroso e perfino l’allegoria, presen- tandosi come una vera e propria quaestio: il problema su cui Dante si interroga nella canzone è talmente arduo, e le sue conseguenze talmente impegnative, che per la prima volta la donna cambia aspetto, mutando la sua dolcezza in un aspro disdegno che rende le sue parole dure da comprendere. La trasposizione di temi e motivi della poesia amorosa si fa così ancora più rivoluzionaria: dopo l’amore secolare trasfigurato in felicità mentale, il disdegno della donna diventa immagine della difficoltà di comprensione, perfettamente connessa con l’abbandono del soave stile a favore di una rima aspra e sottile (Conv. iv, canzone, vv. 10-4).

22Bellomo, Filologia e critica, p. 105. 23Le riassume Vasoli, Introduzione. 24De Robertis, Il libro, pp. 272-9. 25Russo, Saggi, pp. 76-ss.