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3.3 L’Epistola a Cangrande

3.3.3 Per assumptio metaphorismorum

Un ultimo passaggio dell’Epistola a Cangrande ha risvegliato l’interesse degli studiosi che si sono occupati del linguaggio figurato dantesco. Commentando i primi versi del Paradiso, Dante glossa con estrema cura la doppia dichiarazione di ineffabilità che vi è inserita:

Nel ciel che più de la sua luce prende fu’ io, e vidi cose che ridire

né sa né può chi di là sù discende; perché appressando sé al suo disire, nostro intelletto si profonda tanto, che dietro la memoria non può ire. (Par. i, 4-9)

Il commento inizialmente si concentra sulla giustificazione di questo scacco della memoria, che viene spiegato come inevitabile conseguenza dell’elevazione della mente esperita dal via- tor: lo suggeriscono la prima epistola di San Paolo ai Corinzi, l’episodio della trasfigurazione nel Vangelo di Matteo e il libro di Ezechiele, tre passaggi in cui si parla di uomini che han- no sperimentato una visione divina e le cui facoltà sono rimaste annichilite da essa. Ai tre esempi scritturali Dante allega poi tre autorità teologiche che chiariscono quello che accade in tali visioni – Riccardo di San Vittore, Bernardo di Chiaravalle e Agostino; un’ultima testimo- nianza difende Dante dall’eventuale obiezione di chi ritenesse impossibile che un peccatore sia ammesso alla visione di Dio: «Nabuchodonosor invenient contra peccatores aliqua vidisse

122Pastore Stocchi, Ep., e Azzetta, Ep. xiii, hanno entrambi richiamato il precedente di Pietro Ispano, senza

però considerarlo preponderante rispetto ad altri sviluppi retorici o più genericamente scientifici del modus trac- tandi; a me pare che, data la perfetta corrispondenza della serie dantesca con queste definizioni del linguaggio teologico, si debba fare un passo in più rispetto al ritenere che Dante stia qui accreditando la propria opera come semplicemente scientifica, e accettare il fatto che stia facendo riferimento proprio alla teologia.

divinitus, oblivionique mandasse» (Ep. xiii, 77-82). Il passo è percorso da una fortissima vena polemica, spia palese di quanto fosse urgente per Dante legittimare nella maniera più solida possibile l’ardita operazione del poema sacro: alla difficoltà egli risponde però con un ragio- namento serratissimo e inattaccabile che sostiene non solo l’invenzione poetica, ma tutta la dottrina che lo fonda.

Dopo aver così introdotto il problema della relazione tra visione, memoria e parola, Dante commenta più nello specifico il secondo verso delle due terzine appena riportate:

Vidit ergo, ut dicit, aliqua “que referre nescit et nequit rediens”. Diligenter quippe notandum est quod dicit “nescit et nequit”: nescit quia oblitus, nequit quia, si recordatur et contentum tenet, sermo tamen deficit. Multa namque per intellec- tum videmus quibus signa vocalia desunt: quod satis Plato insinuat in suis libris per assumptionem metaphorismorum; multa enim per lumen intellectuale vidit que sermone proprio nequivit exprimere (Ep. xiii, 83-4).

Sostanziando filosoficamente quella che nel poema poteva apparire come una semplice endiadi, Dante precisa che la visione del Paradiso produce due diversi scacchi, della parola e della memoria: dunque chi ritorna dal regno celeste non sa ridire quel che ha visto perché lo ha dimenticato, e anche se potesse ricordarlo gli mancherebbe la parola per descriverlo. Su questa affermazione si innesta il tema dell’inopia linguistica: alcune delle cose che vediamo tramite l’intelletto mancano di segni vocali che possano esprimerle, come suggerisce Platone nelle sue opere tramite l’impiego dei metaphorismi.

Il termine metaphorismus, come è stato rilevato da più parti,123 è un hapax che non sem-

bra coincidere del tutto con il termine da cui è derivato, cioè metaphora:124 sono d’accordo

con Ledda, perciò, quando propone «che esso indichi non le sole metafore, ma nel comples- so tutto ciò che va oltre il linguaggio proprio, il “sermo proprius”, a cui esplicitamente viene opposto. Quindi tutto ciò che è un dire “per aliud”, la similitudine, la metafora, l’allegoria, il mito, come porta ad intendere anche il riferimento all’uso platonico».125 La questione appare

piuttosto canonica: l’esperienza vissuta dall’agens della Commedia è talmente superiore alle facoltà umane, talmente straordinaria, che non esiste un linguaggio proprio con cui dirla; del resto ciò che comprendiamo non per via sensibile, ma tramite la vista intellettuale, è spesso privo di segni vocali con cui possa essere comunicato. Un esempio di questa inopia linguistica

123Per primo da Dronke, Dante e le tradizioni, p. 60.

124È stato però segnalato che Guizzardo da Bologna, commentando la Poetria Nova e in particolare la nozione

di transumptio, ricorre al raro verbo metaphorizare per descrivere una modalità espressiva che trascende il va- lore della semplice metafora: «est autem specialis transumptio quando plures dictiones metaphoriçantur in una oratione vel quando tota oratio metaphorizatur» (Guizzardo da Bologna, Recollecte, p. 153; a notarlo è stato Forti, La “transumptio”, p. 146).

rispetto ai concetti appresi tramite il lumen intellectuale è Platone, che nei suoi libri ha spesso parlato di complesse verità attraverso figure e miti, com’era opinione diffusa nel Medioevo.126

Su questo termine è fondata l’imponente ricostruzione sulla metafora e il linguaggio figu- rato proposta da Marco Ariani. Ariani ritiene che questo passo dell’epistola

annette il tema dell’ineffabilità ad un impiego mitopoietico della metafora, in- tesa non solo come rimedio al naturale deficit linguistico, ma quale specifico stru- mento espressivo della visione («per intellectum videmus [...] per lumen intellec- tuale vidit»). Il termine “metaphorismus” sembrerebbe allora indicare in senso lato sia il meccanismo della translatio che la sua promozione a veicolo retorico di si- gnificati profondi, che incardinano i signa vocalia all’arduo compito di gareggiare con Platone nel dire l’indicibile.127

In virtù del riferimento a Platone e, più generalmente, del comune approfondimento sul lin- guaggio figurato, questo passo dell’Epistola a Cangrande è stato accostato al iv canto del Pa- radiso, dove Beatrice spiega a Dante come la ripartizione delle anime nei cieli dei pianeti non corrisponda alla reale conformazione del terzo regno, ma sia solo un espediente adottato dalle anime beate per venire incontro ai limiti conoscitivi del pellegrino, che non può svincolarsi dalla conoscenza sensibile:

«Qui si mostraro, non perché sortita sia questa spera lor, ma per far segno de la celestial c’ha men salita.

Così parlar conviensi al vostro ingegno, però che solo da sensato apprende ciò che fa poscia d’intelletto degno. Per questo la Scrittura condescende a vostra facultate, e piedi e mano attribuisce a Dio, e altro intende; e Santa Chiesa con aspetto umano Gabriel e Michel vi rappresenta, e l’altro che Tobia rifece sano.

Quel che Timeo de l’anime argomenta non è simile a ciò che qui si vede, però che, come dice, par che senta».

126«A fronte dell’impossibile proprietas della parola, si introduce la necessità del ricorso al linguaggio meta-

forico. [...] Dante, ben consapevole del sostegno che al metaforismo viene anche dalla Sacra Scrittura, ricorre esplicitamente a Platone non in quanto depositario di una visione di tipo paolino, ma in quanto auctoritas in grado di accreditare la funzione mitopoietica quale modo precipuo di esprimere l’ineffabile» (Azzetta, Ep. xiii, ad loc.).

(Par. iv, 37-51)

Rispetto all’Epistola a Cangrande, però, il problema della metafora ha fatto un ulteriore passo avanti: nel iv canto del Paradiso si parla di un segno corrispondente a una res, non più di un signum vocalium, e dunque di una situazione reale così come si è offerta alla percezione di Dante, e non di un semplice dispositivo linguistico o retorico. L’invenzione del poema, la sua fictio, non si fonda dunque su uno stratagemma retorico del poeta, ma è semplice e fedele mimesi di un’esperienza modellata sull’intelletto dell’uomo.

Il ragionamento sul tema è assai delicato: i topoi dell’ineffabilità sono da un lato proce- dimenti retorici consueti, e come tali non andrebbero del tutto presi sul serio, per così dire, perché il loro scopo è piuttosto sottolineare la straordinarietà di quanto si dice che non affer- mare una reale incapacità discorsiva. La miglior prova a favore di questo scetticismo risiede nel fatto che Dante, pur ripetendo continuamente che quanto ha esperito nel suo viaggio para- disiaco è indicibile, di fatto scrive una cantica composta da 33 canti esattamente come le altre, in cui la sua visione e la sua parola non cedono fino alla fine. D’altro canto se c’è un caso in cui il topos dell’ineffabilità può corrispondere a una situazione di reale impotenza conoscitiva e linguistica, questo caso è certo il Paradiso. Il nodo si scioglie almeno un poco se si prende in considerazione che quanto Dante sta facendo in questi versi ha un precedente dichiarato che a me pare molto più prossimo di Platone: la Bibbia.

Secondo la ricostruzione di Ariani il rimando a Platone inserisce Dante all’interno della corrente esegetica elaborata dalla scuola di Chartres, che aveva dedicato molte delle sue ener- gie alla nozione di integumentum, ossia ai procedimenti allegorici che nascondono la verità sotto una narratio fabulosa.128 Le vicinanze sono indubbie, e il lungo passo di Guglielmo di

Conches citato da Ariani129 è assolutamente pertinente e illuminante per la comprensione di

una temperie neoplatonica fortemente contaminata con l’aristotelismo tomistico che deve aver esercitato una notevole influenza su Dante, anche a partire dalla grande elaborazione poetica di queste teorie.

Quello che mi preme sottolineare, però, è che in tali riflessioni e nelle corrispettive in- venzioni letterarie il linguaggio figurato assorbe i moltissimi spunti derivati dalla continua intersezione tra le arti del trivio e l’ermeneutica: i versanti produttivo e ricettivo sono as- solutamente inscindibili, e alla constatazione filosofico-teologica dell’indicibilità di Dio fa da continuo contraltare l’appassionato studio del testo sacro e lo sviluppo di una retorica profa- na, sebbene altamente cristianizzata, che parla di Dio agli uomini. Sebbene l’alterità di Dio e del testo sacro fosse continuamente ribadita, gli intellettuali vissuti nel Medioevo non si ras- segnarono mai all’afasia, e misero mano a teorie epistemologiche, semiotiche e linguistiche,

128Sul tema importante Jeauneau, L’usage; Wetherbee, Platonism and Poetry; Dronke, Fabula, in part. pp.

1-78; Stock, Myth and Science.

oltre che a pratiche di scrittura, che trasformassero i limiti umani in un cammino di perfezio- namento. All’altezza del Duecento erano giunti perfino a dar vita a una teologia che si voleva interamente scientifica, da un lato, e una retorica politica con velleità apocalittiche dall’altro.

In questo senso un primo contributo fondamentale era venuto da Agostino, che nel De doc- trina christiana aveva realizzato una delle prime grandi opere di ermeneutica biblica e l’aveva imperniata sulla collaborazione della retorica e della semiotica al fine ultimo dell’esegesi, senza mai trascurare anche il momento comunicativo del proferre: la ricerca del significato del senso biblico non ha infatti valore alcuno se i risultati non vengono comunicati ad altri. Nell’opera così concepita, dunque, pur attribuendole un compito piuttosto produttivo che interpretativo, Agostino sostiene che la retorica possa contribuire alla comprensione delle Scritture grazie alla teoria dei tropi:

Sciant autem litterati modis omnibus locutionis, quos grammatici graeco no- mine tropos vocant, auctores nostros usos fuisse et multiplicius atque copiosius, quam possunt aestimare vel credere qui nesciunt eos et in aliis ista didicerunt. Quos tamen tropos qui noverunt, agnoscunt in litteris sanctis eorumque scientia ad eas intellegendas aliquantum adiuvantur. [...] Nam litterae, a quibus ipsa gram- matica nomen accepit – grammata enim Graeci litteras vocant – signa utique sunt sonorum ad articulatam vocem, qua loquimur, pertinentium. Istorum autem tro- porum non solum exempla sicut omnium, sed quorundam etiam nomina in divinis libris leguntur, sicut allegoria aenigma parabola. Quamivs paene omnes hi tropi, qui liberali dicuntur arte cognosci, etiam in eorum reperiantur loquelis, qui nullos grammaticos audierunt et eo, quo vulgus utitur, sermone contenti sunt. [...] Quo- rum cognitio propterea scripturarum ambiguitatibus dissolvendis est necessaria, quia cum sensus, ad proprietatem verborum si accipiatur, absurdus est, quaeren- dum est utique ne forte illo vel illo tropo dictum sit quod non intellegimus; et sic plreaque inventa sunt quae latebant.130

I tropi insomma si trovano tanto nei testi degli auctores quanto nella Bibbia, ma anche gli illetterati li impiegano quotidianamente parlando; una padronanza anche teorica del loro fun- zionamento, perciò, è necessaria non tanto alla comunicazione, quanto alla comprensione di quei passaggi scritturali in cui il senso letterale sembra assurdo: in questi casi il lettore deve chiedersi se non si trovi per caso in presenza di un tropo, e così facendo potrà comprendere più di quanto viene detto, e chiarirsi molti significati che erano nascosti.

Si è detto in §2.4.1.2 che i maestri di ars dictaminis avevano alle spalle una tradizione che fin dai primi secoli della cristianità aveva richiamato l’attenzione sulla qualità letteraria delle Scritture. Agostino è un caso particolarmente interessante in proposito, perché, come egli

stesso confessa, in gioventù ha disprezzato il testo sacro a causa della sua scarsa eloquenza; una maggior frequentazione della Bibbia e la conversione lo portarono invece a ritenere che niente appare più sapiente ed eloquente degli autori sacri.

Nam, ubi eos intellego, non solum nihil eis sapientius, verum etiam nihil elo- quentius mihi videri potest. Et audeo dicere omnes qui recte intellegunt quod illi loquuntur, simul intellegere non eos aliter loqui debuisse [...] Ubi vero non eos intellego, minus quidem mihi apparet eorum eloquentia, sed eam non dubito esse talem qualis est, ubi intellego. Ipsa quoque obscuritas divinorum salubriumque dictorum tali eloquentiae miscenda fuerat, in qua proficere noster intellectus non solum inventione verum etiam execeritationem deberet (iv, vi, 10).

Certo è sorprendente – prosegue Agostino – che gli autori sacri impieghino tutti gli artifici della retorica, comuni agli autori pagani, ma ancor più sorprendente è che costoro si siano appropriati dell’eloquenza secolare tramite una loro specifica eloquenza, attraverso la quale esprimono concetti la cui forma non sembra il risultato di una scelta dell’autore, ma sembra scaturita dal concetto stesso. Queste affermazioni di Agostino non solo ci richiamano alla mente la bella definizione di transumptio data da Goffredo di Vinsauf nella Poetria nova,131ma

anche e soprattutto la suggestione che ho proposto riguardo l’ambizione di Dante a costruire una parola fedele al dittatore.

All’interno della collaborazione tra retorica ed ermeneutica si colloca anche la teoria agosti- niana dei segni, destinata a esercitare grande influenza sul pensiero medievale. La riflessione di Agostino sul tema è estremamente complessa e disseminata in varie opere, nonché soggetta a continue evoluzioni. La brevissima sintesi che segue, perciò, è assolutamente incompleta, ma ha lo scopo di individuare alcuni spunti che mi sono sembrati rilevanti per la compren- sione del linguaggio figurato medievale e dantesco; farò riferimento soprattutto al De doctrina christiana, opera che Dante mostra di conoscere (in Mon. iii, iv, 8).132

Proprio al principio dell’opera, Agostino definisce il segno come «res eas videlicet quae ad significandum aliquid adhibentur» (i, ii, 2); i segni perciò sono cose che vengono usate per significare qualcos’altro oltre se stesse. Pur ammettendo che è impossibile significare in maniera degna la grandezza di Dio, Agostino nega che Dio sia ineffabile:

131Quae fit in occulto, nullo venit indice signo; / non venit in vulto proprio, sed dissimulato, / et quasi non sit ibi

collatio, sed nova quaedam / insita mirifice transsumptio, res ubi caute / sic sedet in serie quasi sit de themate nata: / sumpta tamen res est aliunde, sed esse videtur / inde; foris res est, nec ibi comparet; et intus / apparet, sed ibi non est; sic flcutuat intus / et foris, hic et ibi, procul et prope: distat et astat (Poetria nova, vv. 247-55). Sul rapporto tra Agostino e Goffredo di Vinsauf ho avuto modo di ascoltare un interessante intervento di Joseph Turner in occasione della ISHR xxist biennial conference, dove si insisteva in particolare sul sorprendente «Augustine, tace!» che compare all’inizio del trattato di Goffredo e lo si connetteva a una differenza tra la metafora per così dire interpretativa di Agostino e quella produttiva di Goffredo.

132Vari punti di tangenza tra l’opera di Agostino e quella di Dante sono mirabilmente messi in luce da Marchesi,

Ac per hoc ne ineffabilis quidem dicendus est Deus, quia et hoc cum dicitur, aliquid dicitur et fit nescio qua pugna verborum, quoniam si illud est ineffabile quod dici non potest, non est ineffabile quod vel ineffabile dici potest. Quae pugna verborum silentio cavenda potius quam voce pacanda est. Et tamen Deus, cum de illo nihil digne dici possit, admisit humanae vocis obsequium, et verbis nostris in laude sua gaudere nos voluit. Nam inde est et quod dicitur Deus. Non enim re vera in strepitu istarum duarum syllabarym ipse cognoscitur, sed tamen omnes latinae linguae socios, cum aures eorum sonus iste tetigerit, movet ad cogitandam excellentissimam quandam immortalemque naturam (i, vi, 6).

Mentre i segni normalmente funzionano come voces che rimandano direttamente alle res, i peculiari segni impiegati nella Bibbia rimandano alle res tramite la mediazione di altre res. Agostino discute prima le res dei segni che a queste rimandano perché è consapevole del fatto che il testo della Scrittura non sia di per sé sufficiente a distinguere tra verità ed errore, a meno che non sia confermato da qualcosa di esterno al testo stesso, ossia dall’auctoritas della Chiesa (questa la posizione ad esempio di Ireneo e Tertulliano); per ovviare almeno in parte a questa mancanza di autonomia del testo sacro, il vescovo di Ippona propone un principio ermeneutico generale fondato sulla gemina caritas (i, xxxvi, 40), ossia sulla disposizione spirituale di chi si accosta alla Scrittura.

Ma la retorica aveva offerto un contributo fondamentale anche alle teorie linguistiche ela- borate dai logici. La funzione referenziale e rappresentativa del linguaggio era, per gli intellet- tuali medievali, radicata nel De interpretatione di Aristotele, dove si concepisce la parola come simbolo di un’impressione mentale la quale, a sua volta, è immagine delle cose; in questo modo il significato si genera attraverso l’imposizione di un segno su un’operazione mentale, e non direttamente sulla realtà.133È stato rilevato che nella discussione avviata da autori geniali co-

me Boezio e Abelardo sul tema della rappresentazione immaginativa vengono così a confluire molti spunti derivati dalla retorica e dall’ermeneutica:

Boethius and Abelard deploy the vocabulary of mnemonics, textual herme- neutics, and even literary composition in order to explain why making images is necessary to the faculties of cognition that find meaningful expression in proposi- tions. Theirs is the approach of logicians: they examine the relationship of words to mental images from the perspective of logic. Arguments about the cognitive value of images also took shape in studies of ethics, theology, natural science, and cosmology. But such arguments also have important corollaries in medieval poetic thought about the cognitive nature of image-making, the necessary role of integuments or fictive constructs in human understanding.134

133Cfr. la raccolta di testi pubblicata in Arens, Aristotle’s theory e l’analisi di Kretzmann, Aristotle. 134Copeland, Sluiter, Medieval grammar, p. 26.

Boezio, infatti, afferma che nessuna conoscenza può darsi senza imaginationes, ossia senza im- magini mentali derivate dalla percezione sensibile: comprendere qualcosa significa riceverne la forma e proprietas nella facoltà immaginativa, di modo che si crei un’impressione mentale che rassomiglia all’oggetto della percezione. Molti dei concetti e dei termini adoperati dal fi- losofo nel descrivere questo processo di appercezione, immaginazione e memoria sono tratti dal lessico retorico: si tratta di temi fondamentali come i topoi o loci e dell’immagine della mente come deposito.135 A partire da teorie epistemologiche così strutturate, autori imbevuti

di neoplatonismo come il Bernardo Silvestre della Cosmographia potevano concepire la mi- mesi poetica come riflesso della creazione divina: nel poema tutta la rappresentazione ruota attorno alla dea Physis, che plasma l’uomo a immagine e somiglianza dell’universo e crea nel-