3.3 L’Epistola a Cangrande
3.3.2 Il modus tractandi della Commedia e la transumptio
Chiuso il discorso sul subiectum, si passa alla definizione della «forma sive modus tractandi»,100
ossia della sfaccettata struttura formale che Dante attribuisce al poema. È merito di Ascoli aver richiamato l’attenzione sul fatto che il discorso appena considerato sulla tetrapartizione dei significati era introdotto come esemplificazione di un modus tractandi («qui modus tractandi, ut melius pateat, potest considerari in hiis versibus», 21): questo dimostra che la digressione, che fuoriesce infatti dalla lista delle instantiae in cui viene suddiviso l’accessus, è rilevante tanto al subiectum quanto alla forma, di cui si viene ora a parlare.101 Dopo averla distinta
dalla forma tractatus – cioè dalla suddivisione esterna dell’opera, che si realizza in cntiche, canti e versi – Dante si sofferma sulla forma sive modus tractandi, che è definito «poeticus, fictivus, descriptivus, digressivus, transumptivus, et cum hoc diffinitivus, divisivus, probativus, improbativus, et exemplorum positivus» (27).
Come notano i commentatori, i primi cinque termini fanno riferimento alle caratteristi- che poetico-retoriche della Commedia, mentre la seconda serie è modellata sugli accessus delle
98Lo dimostra un passaggio finale dell’epistola, assai pertinente, citato da Azzetta, ibid: «ubique procedetur
ascendendo de celo in celum, et recitabitur de animabus beatis inventis in quolibet orbe, et quod vera illa beatitudo in sentiendo veritatis principium consistit; ut patet per Iohannem ibi: “Hec est vita eterna, ut cognoscant te Deum verum etc.”; et per Boetium in tertio De Consolatione ibi: “Te cernere finis”. Inde est quod ad ostendendum gloriam beatitudinis in illis animabus, ab eis tanquam videntibus omnem veritatem multa querentur que magnam habent utilitatem et delectationem» (Ep. xiii, 89).
99Mazzotta, Teologia ed esegesi, p. 98. Si vedano a proposito Singleton, «In exitu»; Auerbach, Figura;
Hollander, Allegory.
100Il modus tractandi è un concetto comune, dalla metà del XII secolo in poi, per designare la natura stilistica,
formale e retorica di un testo, ed è stato accuratamente definito da Thierry di Chartres; si veda, a tal proposito, Minnis, Medieval theory.
opere scientifiche, a sottolineare la valenza dottrinale del poema.102 Si può aggiungere, con
Azzetta, che «i dieci aggettivi sembrano voler sintetizzare la pluralità dei modi espressivi che caratterizza lo sperimentalismo della Commedia»;103 si può nondimeno sottoscrivere la pre-
cisazione di Pflaum, secondo cui Dante non starebbe qui parlando di stile – come dimostra la totale alterità degli aggettivi rispetto ai termini impiegati normalmente nella dottrina degli stili – ma piuttosto di una modalità, una forma, una struttura della lingua della Commedia.104
Il primo aggettivo, “poeticus”, è di carattere talmente generale da indicare probabilmente nient’altro se non che la Commedia è scritta in versi; il secondo ha suscitato un ampio dibatti- to, in larga parte connesso con quello relativo alla definizione di poesia come «fictio rhetorica musicaque poita» già discussa in §2.3.3. Coerentemente con quella, infatti, anche nell’epistola Dante mostra di ritenere che il concetto di fictio sia una caratteristica fondamentale della poe- sia, come che tale concetto vada interpretato – e, come già dicevo, mi sembra che il termine abbia a che fare con la rappresentazione icastica, anche tramite figure, peculiarità formale del discorso poetico rispetto a quello non-letterario. La descriptio è un’altra faccia di questo stesso specifico della poesia, e coincide con uno dei modi dell’amplificatio che i trattatisti raccoman- davano agli aspiranti poeti; lo stesso si può dire per la digressio, che include, nella retorica medievale, micro e macrodigressioni.
La storia della dottrina medievale concernente la digressio è stata ricostruita da Corsi: dopo una prima trattazione ambigua in Cicerone e Quintiliano, la nozione viene sistematizzata per essere infine collocata tra i modi della narrazione, e dunque tra le forme dell’amplificatio (così ad esempio nella Poetria nova di Goffredo, vv. 527-53). Come ho brevemente accennato in §1.3.3, molti testi di poetica e retorica nel Medioevo ritenevano le similitudini una digressione dalla materia principale: è il caso del Documentum dello stesso Goffredo di Vinsauf, dove si dice che, oltre alla digressio che inserisce del materiale tratto da un’altra parte del testo, «di- gredimur etiam a materia ad aliud extra materiam, quando scilicet incudimus comparationes sive similitudines, ut eas aptemus materiae» (ii, ii, 21). Insomma, «per il teorico medievale la digressione è un fatto formale legato in un modo particolare alla materia»;105questo spinge lo
studioso a ritenere che nella Commedia le digressioni siano più numerose delle uniche due che
102Del resto, nota Pflaum, «che Dante abbia considerato la Commedia anche come un’opera di argomentazione,
non c’è dubbio, certo, poiché lo attesta tutta l’Epistola a Kan Grande, come in particolare le espressioni usatevi per designarla: “opus doctrinale” (§6) e “tractatuts” (§9)» (Il “modus tractandi”, p. 172). Molto interessante, e meri- tevole di ulteriore approfondimento, la bipartizione suggerita da Martinez: «the distinction of ‘intellectual’ and ‘affective’ approaches to biblical exegesis and theology (which roughly speaking reflected Dominican and Fran- ciscan approaches, respectively, to devotional practice) emerged as well in the formalization of distinct ‘modes of treatment’: one, for the rationally based sciences, was analytic (divisivus), drawing on proofs (so, probativus), and assembling arguments (thus, collectivus); while the other relied on examples (thus exemplificativus), exhor- tation (exhortativus), and figurative language (making it transumptivus), and described how to move the auditor or reader for purposes of indoctrination, or to bring out the imaginative aspects of Scripture and literature. Some texts might combine all the above» (Rhetoric, literary theory, p. 284).
103Azzetta, Ep. xiii, ad loc.
104Pflaum, Il “modus tractandi”, p. 158. 105Corsi, Per uno studio, p. 82.
vengono dichiarate esplicitamente tali – e vale la pena notare che le due così segnalate sono di natura politica, ed esplicitamente caratterizzate come interventi del poeta. Si dovrebbero perciò far rientrare nel novero anche tutte le descriptiones loci e le descriptiones temporis che interrompano in qualche modo la fabula e che richiedano poi un percepibile ritorno al tema narrativo.106
Veniamo, finalmente, alla prima esplicita menzione del linguaggio figurato nel macrotesto dantesco. Sul significato del termine transumptio non occorrerà tornare, dopo le ampie rasse- gne che ho proposto in §1.3.3 e in §2.4.1: basterà qui ricordare che la dottrina della transumptio era varia e articolata, e che non è facile ricostruire quale dei suoi numerosi spunti Dante possa aver colto. I commentatori per lo più ritengono probabile che nel contesto dell’Epistola a Can- grande l’impiego dell’aggettivo indichi i procedimenti retorici e metaforici in senso ampio, quale caratteristica dell’ornatus gravis e quale strumento indispensabile per una poesia che ambiva a rappresentare, dimostrare e muovere al bene.107 Mi sembra però che la sua occor-
renza in un brano che ha appena discusso di esegesi possa essere una spia del fatto che Dante avesse particolarmente in mente la tradizione del dictamen bolognese, che aveva avviato un imponente processo di avvicinamento della retorica all’esegesi e i cui maestri, come abbiamo visto in §2.4, ambivano a garantirsi un monopolio produttivo e interpretativo sul testo sacro.
L’aggettivo ’transumptivus’ aveva però già fatto la sua apparizione all’interno della pro- duzione dantesca, sebbene nella forma avverbiale “transumptive”. Nell’Ep. iii, composta tra il 1303 e il 1306, Dante reagiva a un sonetto di Cino da Pistoia (Dante, quando per caso s’abbando- na, Rime cx) che lo interrogava «utrum de passione in passionem possit anima transformari» (Ep. iii, 1) con un sonetto responsivo (Io sono stato con Amore insieme, cxi) corredato da un breve commento inserito all’interno della lettera.108 Introducendo il sonetto,109il testo latino
recita così: «redditur, ecce, sermo Calliopeus inferius, quo sententialiter canitur, quanquam transumptive more poetico signetur intentum, amorem huius posse torpescere atque denique interire, nec non huius, quod corruptio unius generatio sit alterius, in anima reformari» (Ep. iii, 2). Mentre nel prosieguo del commento latino Dante aggiunge ulteriori ragioni alla propria
106Ivi, pp. 83-8.
107Valida la suggestiva lettura di Pasqini: «accanto al sistema poetico-letterario, che ha come base il “mo-
dus transumptivus”, esiste anche un sistema “liturgico”, come aveva già intuito il Pascoli. Alle trasformazioni metaforiche del reale si somma la trasformazione del protagonista nel suo itinerario simbolico: in quanto egli rappresenta anche l’umanità nel suo ritorno dalla Gerusalemme celeste. Detto altrimenti, col trasumanare del personaggio che dice “io” nel poema, si entra in un circuito liturgico dove gli oggetti non significano soltanto se stessi, ma anche qualcosa di diverso, grazie a un nucleo simbolico che li pone in una misteriosa corrispondenza reciproca. Così, il “modus transumptivus” non è semplicemente la fruizione di una raffinata tecnica letteraria, ma è anche strumento di un analogismo nella sua dimensione liturgica e insieme cosmica» (Dante e le figure, p. 209).
108«L’epistola si configurerebbe pertanto come una sorta di razo latina al testo in volgare», operazione piuttosto
innovativa per la presenza, nel dittico, di testi in lingua diversa, secondo Baglio, Ep., ad loc. Sullo scambio si vedano anche Graziosi, Dante a Cino e Livraghi, Dante (e Cino).
109Che però non risulta materialmente congiunto alla missiva, e non viene trascritto in calce dal copista
dimostrazione – e in particolare il richiamo alla ratio e all’auctoritas – il sonetto ruota intorno all’esperienza del poeta, resa attraverso un linguaggio solennemente metaforico.
Fin dall’incipit del sonetto, infatti, Dante si presenta come amante esperto e fedele, che è stato con Amore insieme fin dall’età di nove anni, e che perciò sa bene com’egli affrena e come sprona / e come sotto lui si ride e geme (vv. 1-4); per questo chi si muove contro la passione si comporta come colui che vorrebbe far cessare un temporale suonando le campane (vv. 5-8).110
Dopo il primo accenno metaforico dei verbi “affrenare” e “spronare” contenuto nella prima quartina, e dopo il paragone iperbolico contenuto nella seconda, il sonetto prende nelle due terzine un andamento densamente figurato e sentenzioso:
Però nel cerchio de la sua palestra liber arbitrio già mai non fu franco, sì che consiglio invan vi si balestra.
Ben può con nuovi spron punger lo fianco, e qual che sia ’l piacer ch’ora n’addestra, seguitar si convien, se l’altro è stanco. (vv. 9-14)
La condizione dell’innamorato è resa tramite la metafora della palestra, dell’arengo, dove è inutile che entri in campo la ragione; nell’ultima terzina viene ripresa l’immagine equestre accennata nei primi versi: Amore può pungere il fianco dell’amante con i nuovi sproni, cioè farlo innamorare di un’altra donna, e sarà necessario seguirlo se la prima passione si è esaurita. Come si vede, il sonetto sviluppa un tema frequente nella poesia cortese, ma chiama in causa la nozione cristiana del libero arbitrio e, sebbene parta dal dato personale, si svolge come enunciazione di una sentenza piuttosto che come lirica.111
In questo senso, dunque, è perfettamente comprensibile che Dante nomini il sonetto come sermo Calliopeus, facendo riferimento non solo alla natura poetica del componimento, ma ri- vendicandone anche l’altissima qualità, dal momento che Calliope è l’ispiratrice della poesia eroica nonché la regina delle muse.112 L’avverbio sententialiter dell’epistola esplicita dunque
che il sonetto canitur, canta, in maniera assertiva, senza aprirsi in un’articolata dimostrazione, ma piuttoso transumptive more poetico, ossia impiegando gli ornamento formali e retorici ti- pici della poesia. Le caratteristiche della filosofia e della poesia, che nell’Epistola a Cangrande
110Giunta, Rime, ad loc., precisa che era consuetudine suonare le campagne durante i temporali a scopo
apotropaico.
111Fenzi, Ancora sulla Epistola, pp. 59-60 collega questo sonetto all’Ep. iv a Moroello Malaspina, dove si chiosa
quanto detto in questo versi in maniera, a suo parere, più pregnante: «le righe finali della lettera a Moroello ne costituiscono una chiosa, come già ho detto, perfetta, e certo più puntuale di quanto non sia l’epistola che accom- pagnava il sonetto, nella quale il caso in questione, «utrum de passione in passionem possit anima transformari», è trattato con maggior distacco speculativo».
112Come tale viene invocata in Purg. i, 7-12: ma qui la morta poesì resurga, / o sante Muse, poi che vostro sono; /
e qui Caliopè alquanto surga, / seguitando il mio canto con quel suono / di cui le Piche misere sentiro / lo colpo tal, che disperar perdono.
vengono affiancate e riunite, nella corrispondenza con Cino rimangono distinte, e per questo necessitano dell’integrazione del sonetto con la prosa latina che lo commenta, lo amplia e lo sistematizza.
L’epistola condivide dunque alcune caratteristiche con il Convivio, come ha dimostrato Ascoli:113 in entrambe le opere Dante si produce in un commento in prosa sui propri stes-
si componimenti lirici, ed entrambi i contesti coinvolgono la riflessione sul passaggio da un amore all’altro; una prima diversità che è stata segnalata risiede nel fatto che Convivio impiega metafore in modo sistematico non solo nella poesia, ma anche nella prosa – il che conferisce all’opera un forte carattere persuasivo e affettivo, che la rende un’opera ibrida e distinta dalle analoghe dell’epoca.114 A questo aggiungerei le più evidenti differenze di lingua e di destina-
zione: contrariamente a quanto si dice nella lunga giustificazione del commento volgare che occupa buona parte del i trattato del Convivio, Dante non sembra ritenere a quest’altezza pro- blematico commentare in latino un sonetto in volgare; ancora, mentre nel caso del prosimetro il poeta tornava sulla propria produzione spontaneamente e a distanza di anni, nell’epistola, destinata non a un vasto pubblico ma nello specifico a un poeta e amico,115 il commento si
esercita su un testo composto per l’occasione e dunque in simultanea.
Per tornare all’Epistola a Cangrande, gli ultimi cinque aggettivi pongono meno problemi: diffinitivus fa riferimento alla prassi scolastica della diffinitio, che consiste nel produrre un enunciato che manifesti l’essenza della cosa;116 divisivus richiama il procedimento logico del
locus a divisione, che garantisce la consequenzialità del discorso, e corrisponde a un’abitu- dine estremamente diffusa nel macrotesto dantesco. I due termini probativus e improbativus pertengono al lessico della quaestio disputata, la cui struttura si articolava su dimostrazioni e confutazioni; infine, exemplorum positivus rimanda tanto ai manuali di logica quanto a quelli di retorica, e corrisponde alla prassi, assai frequente nella Commedia, di chiarire un concet- to tramite un esempio illustre.117 Questa è l’interpretazione che i commentatori propongono
per spiegare la seconda serie di aggettivi, che però sembra richiamare molto più che semplici prassi scolastiche di cui sono state rinvenute tracce nella Commedia.
Occorre notare, infatti, che la categoria di modus tractandi è stata scarsamente indagata dai
113Ascoli, Dante and the making, pp. 122-9. 114Hooper, Dante’s ‘Convivio’, p. 93.
115Per quanto sia chiaro che è pensata per essere divulgata: «sebbene sia in persona propria, e non abbia il
carattere di uno scritto di circostanza, è in un certo senso ancor meno assimilabile a una missiva privata, legata com’è al costume largamente diffuso dei pubblici dibattiti poetici, a due o più interlocutori, su problemi di casistica amorosa o morale. Si tratta di una pagina di forte impegno letterario, in cui i consueti elementi formali dell’ars dictandi secondo lo stile romano sono integrati da un’attenta e ricercata scelta lessicale che, pur senza toccare i limiti del latino glossematico, attinge tuttavia squisitezze come “sermo Calliopeus” per ’componimento poetico’ e indulge al gusto delle auctoritates puramente esornative» (Pastore Stocchi, Ep., ad loc.).
116Mariani, s.v. diffinizione in ED.
117Mi sembra più debole rispetto a questo quadro la proposta di Pflaum di interpretare questi cinque modi
come una variazione dell’esapartizione dei discorsi e delle epistole elaborata dalla manualistica retorica (Il “modus tractandi”, pp. 172-4).
commentatori del passo dantesco, che si sono concentrati piuttosto sugli aggettivi che Dante ha impiegato per specificarla. Eppure il modus tractandi ha rivestito un’importanza non da poco nella discussione dei teologi sul linguaggio biblico, e dalla ricerca sui suoi sviluppi si ri- cava moltissimo. La questione è stata formulata per la prima volta nel trattato introduttivo alla Summa theologica di Alessandro di Hales, primo maestro francescano della facoltà delle arti di Parigi e doctor doctorum dell’ordine. Nella i quaestio Alessandro si chiede se la doctrina theolo- giae sia una scienza e se sia distinta dalle altre scienze, nonché quali siano il suo soggetto e il suo modo di trasmissione; approfondendo quest’ultimo tema, egli si interroga poi sullo stile o modus delle Scritture, per concludere infine che questo non è scientifico o artificiale: «omnis modus poeticus est inartificialis sive non scientialis, quia est modus historicus vel transump- tus, qui quidem non competunt arti; sed theologicus modus est poeticus vel historialis vel parabolicus; ergo non est artificialis».118 Nel prosieguo dell’opera, Alessandro continua a ca-
ratterizzare il modus della Bibbia, che risulta infine non artistico né scientifico perché include anche il discorso mistico; il ragionamento si chiude con una ripresa dello pseudo-Dionigi: se le Scritture sono trasmesse secondo un modus poeticus è per rispondere alla necessità del no- stro intelletto, che non arriva a comprendere le cose divine se non facendo leva sull’affectus, mentre la scienza fa appello all’intellectus.
Avendo così distinto tra scienze umane, che sollecitano l’intellectus, e scienze divine, che infiammano l’affectus, Alessandro definisce i modi appropriati rispettivamente alle une e alle altre: secondo una classificazione destinata a diventare topica, la scienza umana adopera un modus definitivus, divisivus et collectivus (ma quest’ultimo modo era talvolta sostituito dal mo- dus probativus et improbativus); a questi talune trattazioni aggiungevano il modus exemplorum suppositivus, non fondamentale alla scienza come gli altri, ma ugualmente utile per i discenti, come sottolineava ad esempio Pietro Ispano.119 Non sarà necessario sottolineare che si tratta
esattamente dei termini che impiega Dante per descrivere la Commedia.
Il dibattito così avviato da Alessandro di Hales fu ripreso da intellettuali della levatura di Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, ma fu quest’ultimo, in particolare, a dare il contributo più sostanziale a questa nuova interpretazione del linguaggio biblico e di quello teologico.120
Nel commento alle Sentenze, Tommaso afferma che la teologia, in quanto scienza più nobile, deve impiegare il modo più nobile, e che questo non è certo il modo poetico, definito invece il più umile; distinguendo tra materia e finis, l’Aquinate giunge alla conclusione che nelle Scrit- ture vengono assunti tutti i modi, compresi quelli metaforico e simbolico, perché il linguaggio umano non può esprimere che tramite l’analogia le verità che lo trascendono.121 Sulla questio- 118Alessandro di Hales, Summa theologica, t. i, pp. 1-13. Devo la citazione e la discussione del passo a
Dahan, L’exégèse chrétienne, pp. 416-ss; se ne occupa anche Minnis, Medieval Theory, pp. 118-45.
119Ibid.
120Mi rifaccio, anche in questo caso, a Dahan, L’exégèse chrétienne, pp. 416-ss. 121Tommaso, In i Sent., prol., q. 1, a. 5.
ne Tommaso tornò più volte, affinando le proprie considerazioni sulla differenza che esiste tra il modo poetico delle scritture profane e quello della Bibbia.
Questo brevissimo e compendioso quadro ha lo scopo di chiarire che nel Duecento la de- finizione della teologia come scienza aveva avuto come conseguenza una distinzione sempre più netta tra linguaggio teologico e linguaggio biblico, e che a quest’ultimo erano stati attri- buiti tutti i modi, compreso quello poetico; nella doppia serie di aggettivi proposti da Dante per definire il modus tractandi della Commedia credo si possa perciò riconoscere pacificamente una rivendicazione dell’uso tanto di un linguaggio teologico, e quindi scientifico, quanto del linguaggio poetico.122 Indulgendo a una facile provocazione, potremmo concludere che Dan-
te si stia mettendo contemporaneamente nel solco della Scrittura sacra e della sua più nobile interpretazione, quella della scienza teologica.